Poté più la tradizione che l’abbandono

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Mais Ottofile, foto dal sito Cascina Reale, Langhe.net
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Siamo in profondo Piemonte, tra Tortona e Novi Ligure, dove il mais Ottofile è tornato ad essere una coltivazione tipica della zona, di cui si va fieri, che ha messo in disparte i mais ibridi che l’avevano fatta finire nel dimenticatoio

Sono ormai 6 anni che la grossa cascina è abitata solo dai gatti e dai colombi.
Appare ancora possente, con il pozzo al centro dell’aia e la grande stalla, sovrastata dal fienile, i tanti comignoli sul tetto, la casa alta ben tre piani, con le finestre chiuse dalle persiane verdi, e le bocche di lupo che fanno accedere alle cantine, tutto a circondare il grande cortile in cui si immaginano i carri agricoli fare manovre portare il granturco e l’uva, pronti ad essere lavorati. Il cancello in ferro e le recinzioni sono arrugginite, ma restano ferme a racchiudere la grande cascina. Dietro, nel punto più soleggiato, nascosto dietro la grande cascina, lo spazio che era dell’orto. Un rettangolo di terra scosceso, dove una pianta di alloro e una di rosmarino, segnano ancora il perimetro.
Era la cascina più grande della cittadina, di cui il borgo è la frazione appoggiata sui colli. Era una cascina ricca, con tante terre, accumulate nel tempo e fino a pochi anni fa sempre coltivate.
La vite, gli alberi da frutta, i noci, i noccioli e nei posti migliori gli ulivi. C’erano le stalle per i buoi da lavoro e le porcilaie. È facile immaginare il cortile pieno di galline e faraone e tacchini. I conigli non si allevavano, si prendono selvatici.
Antonio se ne è andato l’anno scorso, dopo che ha finito la sua vecchiaia solitaria in ricovero, quello delle suore.
Era il maggiore di tanti fratelli che hanno sempre litigato tra loro per i soldi, per le terre, per la dote da dare alle sorelle. Ha seguito l’esempio di suo padre, solo che lui non si è mai sposato, come tutti i suoi fratelli. Quindi nessun erede diretto per questa vita ingrata, faticosa, contadina.
Le sorelle no. Una dopo l’altra sono scappate di casa, portando con sé posate, grosse pezze di tela e materassi di lana. L’indispensabile per mettere su famiglia in un’altra cascina. Inseguite dagli strepitii dei fratelli sono andate in altre case e hanno avuti figli. Ironia della sorte tutti maschi, quindi con il diritto all’eredità della madre, secondo le usanze locali.
Antonio è rimasto fino a che è riuscito a presidiare la grande cascina. Anche se era il maggiore ha visto andarsene prima i fratelli e le sorelle, poi qualche nipote. Poi se n’è andato anche lui.
Ora un suo pronipote, che abita lontano e da queste parti forse non ci è mai venuto prima, ha ereditato la grande cascina. Ogni tanto lo si vede aggirarsi e guardare le tante cose che la vecchia cascina racchiude.
Non capisce il dialetto, e forse lui parla solo italiano, con qualche inflessione che denuncia la provenienza, ma non parla alcun dialetto. Si è trovato tra capo e collo la cascina e i terreni, un tempo fonte di ricchezza, adesso solo di tasse di successione e infiniti piccoli guai.
Un giorno di tarda estate si è messo a parlare con uno di qui, che non parla solo dialetto.
Guardavano la grande cascina.
«cosa me ne faccio? Metterla a reddito? prima va pulita, e sono soldi. E poi cosa c’entro io con questo posto? Niente… provo a venderla?»
«Guarda che qui di cascine così ce ne sono tante. Tutte in vendita. La vedi la casa gialla, lì sopra, verso il Castello? È in vendita da 4 anni, a poco, continuano ad abbassare il prezzo, non ha neanche la terra, che complica le cose, è solo la casa. È vuota da 10 anni. Chi compra deve risanare e rifare tutto, a cominciare dal tetto. Non siamo neanche zona turistica. Qui non c’è neanche più il negozio. Cosa te ne fai? Non lo so. Due anni fa è arrivata una famiglia e ha preso casa qui. Vivono un po’ in città e poi vengono qui. Non so cosa ci trovino, io me ne andrei anche adesso, ma a loro piace tanto, sono strani…».

È in una cascina come questa, disabitata da tempo, che circa 40 anni fa entrò un ragazzo curioso.
Si guardò in giro, era tutto uguale alla casa dei suoi nonni e quando in cucina vide che appeso accanto al camino c’era un mazzo di pannocchie, piccole e sottili, polverose e sporche, lì chissà da quando, ma ancora con tutti i chicchi, le riconobbe subito, le prese e se le portò a casa.
Quel ragazzo sapeva cosa aveva trovato. Erano le stesse pannocchie che ricordava a casa dei suoi nonni, in valle Ossona, appese accanto al camino perché seccassero bene, diventando così i semi da usare l’anno dopo. Da anni non ne vedeva più di quelle pannocchie e i campi di mais erano un po’ tutti uguali. E non sentiva più il profumo di quella polenta che mangiava da bambino, tanto da credere di essersi immaginato tutto.
Tornò a casa e si mise sui libri per studiare come far germogliare quei semi.
Provate a immaginare cosa ha provato quando da quelle letture e da quei semi ha fatto crescere cinque piante che hanno dato frutto e da quei frutti altri semi, altre piante e via, via…
Oggi il Mais Ottofile Tortonese ha un disciplinare di coltivazione e macinazione.
Siamo in profondo Piemonte, tra Tortona e Novi Ligure, dove il mais Ottofile è tornato ad essere una coltivazione tipica della zona, di cui si va fieri, che ha messo in disparte i mais ibridi che l’avevano fatta finire nel dimenticatoio.

Intanto questa notte il vento, che su queste colline corre filato, ha strappato una persiana, che è andata a cadere su di una macchina.
La vecchia cascina, se non viene seguita e accudita e amata, si ribella e fa danni per dirlo.

Fonti in rete
– https://antichimais.files.wordpress.com/2016/09/mais-piemontesi.pdf
– http://www.distrettonovese.it/article/mais-otto-file-tortonese-prodotto-alla-merella