Allarmanti evidenze emergono dalle mappe sulla deforestazione in Indonesia. Pur essendo vero che la palma da olio è in grado di garantire una resa maggiore rispetto all’olio d’oliva o a quello di girasole, certamente questo non ci autorizza a deforestare o distruggere ettari di foreste tropicali e minacciare la loro biodiversità per garantire il fabbisogno della popolazione mondiale! Soprattutto perché l’olio di palma non è un reale bisogno primario dell’uomo in quanto è utilizzato per prodotti che non sono assolutamente considerabili beni primari, come le merendine, gli snack e i cosmetici
Come ho più volte ribadito, non può esistere un «olio di palma sostenibile». La ragione è semplice: la palma da olio è una pianta tropicale e come tale viene coltivata su terreni tropicali precedentemente ricoperti da foreste. Appare evidente che nessuno che non sia economicamente interessato a questo tipo di commercio, sosterrà che un olio proveniente da migliaia di chilometri di distanza per arrivare sulle nostre tavole in occidente possa essere sostenibile.
Il problema è che chi è lo sostiene, per interessi economici, giustifica il suo utilizzo col fatto che lo stesso sfruttamento in corso in Indonesia sia stato realizzato in passato per la coltivazione delle piante che producono gli oli nostrani d’oliva e di girasole, stravolgendo l’ambiente naturale originario per favorire questo tipo di piantagioni. Questo è certamente vero, ma replicare un simile modello economico insostenibile non può certo giovare alle presenti e future generazioni.
Infatti, non perché si è già realizzata la distruzione dell’ambiente naturale e della biodiversità nei paesi sviluppati (o come li amiamo definire noi «del Primo mondo») dobbiamo permettere che questo continui e favorire un tipo di sviluppo devastante per l’ambiente nei Paesi in via di sviluppo.
Sebbene le ragioni economiche per un simile modello di crescita possano essere tante, non devono assolutamente prevaricare quelle ecologiche, per la semplice ragione che abbiamo un solo pianeta disponibile!
Non dobbiamo dimenticare che, così come il petrolio non può essere considerato una fonte di energia rinnovabile su scala temporale umana, così anche la biodiversità non è rinnovabile perché ha impiegato milioni di anni per raggiungere gli attuali livelli. Se la riduciamo a livelli minimi, non ritornerà.
Inoltre, non è lo stesso coltivare in un paese temperato, come potrebbe essere l’Italia, rispetto a uno tropicale. Prima di tutto perché la biodiversità tropicale è molto maggiore di quella delle aree temperate e con la distruzione di un ettaro di foresta tropicale si eliminano centinaia, migliaia di specie. Non ha alcun senso, infatti, definire sostenibile una produzione realizzata su suoli tropicali soppiantando le foreste e commercializzata attraverso canali globalizzati, in un momento storico in cui la popolazione umana nel mondo cresce in maniera esponenziale.
Gli stessi difensori dell’olio di palma omettono colposamente di menzionare il fatto che, pur essendo vero che la palma da olio è in grado di garantire una resa maggiore rispetto all’olio d’oliva o a quello di girasole, certamente questo non ci autorizza a deforestare o distruggere ettari di foreste tropicali e minacciare la loro biodiversità per garantire il fabbisogno della popolazione mondiale! Soprattutto perché l’olio di palma non è un reale bisogno primario dell’uomo in quanto è utilizzato per prodotti che non sono assolutamente considerabili beni primari, come le merendine, gli snack e i cosmetici.
Dai dati recenti acquisiti dal Global Forest Watch appare evidente come la presenza di piantagioni di olio di palma in Indonesia sia la prima causa di deforestazione e quindi di perdita di ecosistemi e specie tropicali.
Nella Figura 1 vengono mostrate le superfici dove sono presenti piantagioni di palma da olio, ufficialmente registrate dal governo di Indonesia e Malesia. Trattandosi di dati ufficiali e di piantagioni autorizzate, abbiamo tutti le ragioni per ritenere che tra queste vi siano anche quelle certificate come «sostenibili» da un crescente numero di marchi, come l’Rspo, Cspo, etc.
Figura 1 – Le aree in rosa rappresentano le piantagioni di palma da olio attualmente esistenti in Indonesia e nel Borneo malese (dati governativi). Fonte: Global Forest Watch 2017
Chi sostiene e giustifica il commercio dell’olio di palma, definendolo «sostenibile» e dichiarando che possa esistere una produzione esente da deforestazione, in realtà fa vera disinformazione e comunica un messaggio completamente sbagliato. Per capirlo basta osservare cosa accade se alla mappa in Figura 1 sostituiamo quella (Figura 2) riportante le superfici interessate da un tasso di deforestazione netta durante gli ultimi 11 anni (2010-2016).
Figura 2 – Aree deforestate in Indonesia e nel Borneo malese negli ultimi 11 anni (2010-2016). Fonte: Global Forest Watch 2017
Appare evidente che le aree in cui, negli ultimi 11 anni, si è andato a deforestare maggiormente sono proprio quelle zone attualmente di presenza delle coltivazioni di palma da olio. Qualunque sia stata la causa di deforestazione (commercio del legname, produzione di carta e cellulosa, coltivazione di palme da olio), pressoché tutte le attuali piantagioni di palma da olio sono situate in aree dove, solamente dieci anni fa, esisteva una rigogliosa foresta tropicale!
Questa evidenza empirica e allarmante, fornita dalle recenti mappe satellitari, ci conferma che qualunque produzione di olio di palma nel sud-est asiatico è il risultato di una recentissima opera di deforestazione e distruzione dell’ambiente. È, dunque, un ossimoro parlare di olio di palma sostenibile!
Se, inoltre, nel costo dell’olio di palma si internalizzasse tutto ciò che viene regolarmente esternalizzato, ovvero si includessero i danni della distruzione della foresta tropicale, la perdita di biodiversità, le emissioni inquinanti provenienti non solo dalla produzione, ma anche dal commercio su lunga distanza di questo prodotto, l’assenza di qualunque tipo di controllo sull’abbattimento di nuove foreste (perché in questi territori non c’è alcun ente garante, neppure le grandi organizzazioni ambientaliste, che parlano di sostenibilità o organizzano tavoli di discussione con le aziende multinazionali, sanno davvero cosa stia accadendo), lo sfruttamento della manodopera spesso minorile, l’uso massiccio di pesticidi (necessari in monocolture in ambiente tropicale, ricchissimo di parassiti e patogeni vegetali) che contaminano il prodotto finale e i braccianti, sembrerebbe ancor più ovvio che credere che possa esistere un olio di palma sostenibile è davvero un eufemismo.
La vera alternativa all’olio di palma non è certamente favorire colture alternative abbattendo nuove foreste. Bisognerebbe semplicemente fare a meno delle merci che lo contengono e se immaginassimo di eliminare dalla nostra vita quotidiana tutti i prodotti che oggi hanno come ingrediente gli oli tropicali, ci renderemmo subito conto che elimineremmo quasi esclusivamente prodotti industriali e cosmetici, che sono in larga parte del tutto superflui, nonché dannosi per la persona e per l’ambiente.
Sulla base delle evidenze qui riportate, che emergono dall’analisi delle recenti immagini satellitari, appare ancor più necessario che la campagna in atto di boicottaggio degli oli tropicali (di palma e di cocco) prosegua e che i governi, in particolare quelli dell’Ue che sono fra i maggiori importatori, propongano di bandire i prodotti che contengono un ingrediente che rischia di cancellare dalla faccia della Terra le foreste tropicali asiatiche, in meno di qualche decennio.
Roberto Cazzolla Gatti, Ph.D., Biologo ambientale ed evolutivo, Professore associato in Ecologia e Biodiversità presso la Tomsk State University