Le convenzioni per l’assunzione dei salariati avvenivano nei mesi invernali (dicembre-gennaio) sia per garantire la forza lavoro, sia per evitare eventuali aumenti di salario nel periodo della raccolta. Nella pratica i contratti di lavoro si realizzavano attraverso forme di intermediazione: dal «curatolo», intermediario del massaro, che prendeva contatti con gli «antenieri» cioè con i capisquadra della manodopera che a loro volta reclutavano gli stagionali. La richiesta di salariati era tale che gli imprenditori arrivavano al punto di anticipare il denaro ai mediatori pur di legarli a sé per l’epoca del raccolto.
Con i migranti camminavano, purtroppo, anche le malattie e le infezioni. Quando la corrente migratoria rientrava nei luoghi di origine poteva trasformarsi in un veicolo trasmettitore di infezione e di diffusione di malattie.
Testimonianze della cospicua massa migrante bracciantile presente in Capitanata tra maggio e agosto sono desumibili dai registri di morti soprattutto in casi di mortalità eccezionali. Furono proprio gli adulti maschi e forestieri a costituire l’aliquota più alta dei deceduti durante la carestia e l’epidemia di tifo petecchiale del 1763-’64.
Quando le epidemie si abbattevano su questa popolazione di giornalieri, decimavano i più deboli, la cui scomparsa passava, però, quasi inosservata perché rimpiazzati ben presto da altri disperati, spinti dalla miseria.
I tassi di mortalità erano molto elevati, ma la situazione demografica delle aree di latifondo a forte immigrazione del Tavoliere restava stabile. Tra crisi profonde, massari e stagionali, questo territorio aveva una particolare demografia molto irregolare nel breve periodo, ma piatta nel trend secolare.
Le zone di pianura a grande proprietà, con una popolazione accentrata in grossi agglomerati, risentivano più delle epidemie che dei cattivi raccolti, ma avevano rapide riprese per la loro economia basata sulla produzione di cereali di prima necessità. Nelle comunità collinari, ad agricoltura più diversificata, le epidemie mietevano poche vittime, mentre era dannoso il rincaro dei prezzi per la necessità di approvvigionarsi di cereali e per la stasi del mercato degli altri prodotti.
In Capitanata, per esempio, durante l’epidemia del 1763-’64, si registrò un comportamento differenziale tra zone collinari e zone di pianura: diversi furono i tempi, i meccanismi ed i tassi di mortalità.
Una conferma della presenza di forestieri maschi che alteravano la composizione per sesso e per età della popolazione residente la si deduce dall’esame del rapporto dei sessi alla morte. L’indice di mascolinità medio alla morte nel 1764, su un campione di 5.299 morti di tredici paesi della Capitanata, è di 125,7; le punte massime si toccano a Foggia (154,9), a Manfredonia (157,9) e ad Ascoli Satriano (140,3), zone di pianura a coltivazione cerealicola. Dissimile l’andamento delle zone collinari del Gargano e del Subappennino dauno, che, pur evidenziando nel lungo periodo una prevalenza maschile alla morte (è il caso ad esempio di Montaguto indice 112,5 nel periodo 1711-1760), registrano, in rapporto percentuale, un’aliquota maggiore di femmine morte nell’anno della «fame».
Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»