Le migrazioni nelle province napoletane tra Seicento e Ottocento avevano una caratteristica costante, erano cioè fondamentalmente movimenti interni, pur non mancando altri spostamenti e specialmente verso lo Stato della Chiesa. In realtà, i flussi che si erano instaurati, verso questo stato confinante, preoccupavano non poco gli economisti del Regno di Napoli. Con una prammatica del 10 aprile 1766, infatti, era stata vietata specificatamente, ma con poco successo, l’emigrazione degli abruzzesi nel Lazio. Verso la fine del Settecento la corrente di emigranti stagionali che dall’Abruzzo, regione in forte espansione demografica, si riversava nella campagna romana era calcolata intorno a 17.400 uomini, il cui lavoro faceva affluire nel Regno napoletano una massa monetaria di circa 180.000 ducati l’anno.
Pesante era la critica dei riformatori settecenteschi alla politica economica del governo napoletano, alle mancate bonifiche nel Regno, alla forte pressione fiscale, che appariva tanto più grave in quanto il governo, proprio nelle zone dove più intensa era l’emigrazione non svolgeva altra funzione oltre quella di percepire le tasse. In Abruzzo, i rappresentanti del governo attendevano che gli emigrati rientrassero coi loro guadagni per sottoporli al pagamento delle imposte.
– Le correnti migratorie preunitarie
Giovanna Da Molin, Professore Ordinario di Demografia Storica e Sociale, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione; Università degli Studi di Bari «Aldo Moro»