Valtellina 30 anni dopo

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Nonostante siano stati fatti passi avanti per raggiungere l’obiettivo di una soddisfacente prevenzione del rischio idrogeologico mancano ancora parecchi tasselli come la mancanza di diffusione sul territorio di un’adeguata cultura geologica, di competenze tecniche negli Enti locali, di una strategia coordinata della prevenzione, di controlli sull’applicazione delle norme di governo del territorio e, in qualche caso, della stessa volontà di rispettare le regole

Si è svolto a Morbegno il Convegno «Valtellina 30 anni dopo: cultura, normativa e politica del territorio quali cambiamenti?», convegno organizzato dal Consiglio nazionale dei geologi (Cng), in collaborazione con l’Ordine dei geologi della Regione Lombardia e la Fondazione centro studi del Cng.
Un Convegno voluto per ricordare le vittime e per ripercorrere l’evoluzione tecnica e normativa che si è raggiunta 30 anni dopo il disastro idrogeologico che colpì, nel mese di luglio del 1987, l’intera valle alpina, una serie di disastri e di tragedie naturali che si succedettero nella provincia di Sondrio, e più precisamente nei comuni di Valdisotto e Tartano e che provocarono 53 morti, migliaia di sfollati, danni economici enormi.
Francesco Peduto, Presidente del Consiglio nazionale dei geologi, in occasione del convegno, ha dichiarato: «Nell’ultimo cinquantennio si è assistito alla crescita incontrollata dei centri abitati e delle periferie metropolitane, avvenuta troppo in fretta e con poca attenzione alle conseguenze dell’azione antropica sul territorio. Il conto sempre più consistente, in termini di perdita di vite umane e danni al patrimonio edilizio e infrastrutturale, è sempre di più riconducibile a questo. Siamo il Paese dove ogni anno si perdono circa 500 kmq di superficie naturale o agricola trasformati in cemento, edifici e nuove infrastrutture, dove assistiamo al progressivo abbandono di vaste aree agricole (secondo l’Istat circa 300mila ettari di superficie agricola utilizzata in dieci anni), e dove da qualche decennio non si fanno più regolari interventi di manutenzione. Tutto ciò ha degradato il territorio, rendendolo sempre più esposto e vulnerabile e in questo quadro si inseriscono i cambiamenti climatici, che determinano eventi piovosi estremi, che scaricano al suolo centinaia di millimetri di pioggia in meno di un giorno. Ma se le violente precipitazioni spesso sono la causa scatenante di frane e alluvioni, i disastri che ne derivano sono imputabili a decenni di gestione sbagliata del territorio e delle aree considerate ad elevato rischio idraulico ed idrogeologico».
Il Presidente del Cng dà qualche dato: il primato delle frane lo detiene il nostro Paese. Infatti, secondo l’ultimo rapporto dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca idrogeologica (Ispra), oltre il 70% di tutte le frane del continente europeo, circa 530mila, si verificano in Italia; dal dopoguerra ad oggi il danno stimato, causato da eventi alluvionali o franosi, supera ormai i 60 miliardi di euro. Inoltre, in base ai dati dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), dal 1963 al 2012, ben 782 comuni italiani hanno subito inondazioni e frane con conseguenti ingenti danni se non vittime e la mancata prevenzione costa all’Italia in media lo 0,2% del prodotto interno lordo (Pil) annuo.
Tra le personalità intervenute durante il convegno anche quella di Giuseppe Zamberletti, già ministro per il Coordinamento della Protezione civile, e di fatto il fondatore della Protezione civile italiana.
Perché quello che avvenne 30 anni fa in Valtellina fu un disastro dalle dimensione inaudite con il distaccamento di una frana, l’evento più tristemente famoso, la frana della Val Pola. Quaranta milioni di metri cubi di materiale precipitarono a valle ad una velocità di 400 km/h travolgendo e distruggendo completamente gli abitati di Sant’Antonio Morignone e Aquilone (frazioni di Valdisotto) e creando una diga di frana potenzialmente instabile alta 50 metri a bloccare il normale flusso del fiume Adda verso Tirano a sud.
Si rischiava un’alluvione catastrofica in tutto il fondovalle… e nonostante le tante critiche su come venne affrontata l’emergenza, il pronto intervento della Protezione civile permise di far fronte alla situazione in modo tale da scongiurare il disastro.
E Zamberletti all’interno del suo intervento ha ricordato «il collegamento dei giovani con gli esperti risultato fondamentale per sviluppare modelli di comportamento adeguati per la prevenzione dei rischi»… una stretta interazione fra Istituzioni e Comunità scientifica necessaria per creare quel collegamento di conoscenza fondamentale per ridurre il fattore rischio.
Quello che è risultato certo all’interno del dibattito è che le cause del dissesto idrogeologico nel nostro Paese sono rappresentate dai cambiamenti climatici, dalla sconsiderata gestione del territorio, dalla mancanza di un’efficace politica di prevenzione e di convivenza con il rischio che non fanno altro che amplificare la potenza degli eventi e dei conseguenti danni.
Una situazione per la quale, ammonisce la categoria dei geologi italiani, e questo soprattutto in virtù dello stato di fragilità del territorio, è fondamentale affiancare agli interventi strutturali, una serie di misure ed azioni «non strutturali», quali i monitoraggi e i presidi satellitari, strumentali e tecnico-specialistici e questo avendo come finalità quella di garantire la salvaguardia e la tutela del territorio.
In Italia, viene ricordato, tanti sono ancora i comuni privi di Piani di Protezione civile comunali (Ppcc) o con al più piani presenti solo sulla carta, piani virtuali e assolutamente inefficaci in caso di evento.
Una situazione per la quale è necessario chiedere alle forze politiche di prendere impegni concreti sui temi della difesa del suolo, di investire su normative efficaci e su un piano di manutenzione e di risanamento idrogeologico e questo a partire dai presidi territoriali
E allora alla domanda… cos’è cambiato 30 anni dopo l’alluvione in Lombardia? a rispondere è Gaetano Butticé, Presidente dell’Ordine dei geologi della Regione Lombardia, il quale denuncia che nonostante siano stati fatti passi avanti in questi trent’anni per raggiungere l’obiettivo di una soddisfacente prevenzione del rischio idrogeologico mancano ancora parecchi tasselli come la mancanza di diffusione sul territorio di un’adeguata cultura geologica, di competenze tecniche negli Enti locali, di una strategia coordinata della prevenzione, di controlli sull’applicazione delle norme di governo del territorio e, in qualche caso, della stessa volontà di rispettare le regole.