A San Paolo Albanese non esiste più una scuola. Nel Comune di 270 abitanti e di «culle vuote», la comunità etnico-linguistica arbëreshe ha perso, ormai da diversi anni, questo presidio del paese. Eppure «prima di aprirsi al turismo gli abitanti del posto devono lavorare sulla propria identità culturale, conoscere il territorio fin dall’età scolastica», raccomanda il consigliere del Mibact per la Sostenibilità nel turismo
I vecchi tratturi, anche se abbandonati, sono ancora pieni di segni del passato, di tracce dei contadini, dei pastori, che non ci sono più. Il territorio e il paesaggio sono intrisi di bellezza e fragilità insieme e sono sempre più scompensati, indifesi, relitti. A viverli, si sente forte il dovere e il desiderio o, meglio, l’ostinazione e la rabbia di partecipare per resistere, per non arrendersi, per non restare esclusi, per lottare ancora per un’idea di futuro. Qui i ricordi sono più veri della realtà, anzi sono l’unica realtà, mentre provoca affanno riflettere sul senso di comunità, sul diritto di cittadinanza, sul futuro della montagna, sulla cultura dei luoghi, sulla lingua madre.
In questi borghi abitati da piccole comunità, da minoranze etnico-linguistiche, si arranca, si è sempre in grave ritardo rispetto al futuro. Si spera in un «futuro di ritorno» per investire in ricordi perennemente in bilico con l’oblio. C’è tanto bisogno di raccontare e di raccontarsi, ma, alla fine, non rimane più nessuno, uno che ti possa raccontare una storia, neanche un venditore di utopie.
Le storie, la narrazione sono un antidoto alle manchevolezze e alle frustrazioni, al tempo perduto. Cominciano tutte col dire: «c’era una volta» e diventano tutte favole, come quella, che ricordo io, della scuola rurale a San Paolo Albanese, degli anni Sessanta, in un casolare della Contrada Prastia, dirimpetto al fiume Sarmento, alla Timpa Pietrasasso e alla montagna del Pollino.
È un’area interna, questa, che sta diventando sempre più «interna», e chi ancora la abita resta aggrappato all’ultima possibilità di far valere la propria identità. Sebbene carica di solitudine, c’è ancora vita; addirittura, qui più che altrove, perché è vera, è densa, intensa, in diretto e autentico rapporto con la natura. Chi abita qui sa di far parte di una comunità e di una storia. Sa anche che non è il solo depositario della propria storia e che non può permettersi di appropriarsene e di raccontarla a modo proprio, secondo le proprie convenienze.
«Prima di aprirsi al turismo gli abitanti del posto devono lavorare sulla propria identità culturale, conoscere il territorio fin dall’età scolastica», raccomanda il consigliere del Mibact per la Sostenibilità nel turismo. Con la Legge di Bilancio per il 2018 sono stati assegnati oltre 90 milioni di euro per la continuazione e il completamento della Strategia nazionale delle Aree interne. La Coordinatrice del Comitato della Strategia nazionale delle Aree interne, intervenuta agli Stati Generali Cgil per la manutenzione del territorio e lo sviluppo delle Aree interne, ha sottolineato, in proposito, l’importanza della previsione di un finanziamento ad hoc per le scuole nelle Aree interne: «un segnale della politica ordinaria che, sensibilizzata dal grande lavoro corale di questi anni, riconosce le esigenze particolari di questi territori. Il Comitato è pronto ed accetta questa nuova sfida: è infatti proprio dalla scuola e dai bambini che si deve ripartire».
Con lo spopolamento e con l’abbandono, in molti paesi, però, le scuole stanno chiudendo; anche quelle dell’infanzia. A San Paolo Albanese non esiste più una scuola. Nel Comune di 270 abitanti e di «culle vuote», la comunità etnico-linguistica arbëreshe ha perso, ormai da diversi anni, questo presidio del paese. L’inarrestabile decremento demografico dei piccoli paesi in tutta la Basilicata, ma anche in tutt’Italia, dalle isole e dagli Appennini alle Alpi, lo spopolamento delle aree interne, il loro abbandono, ha messo in crisi tutto il sistema scolastico locale, regionale e nazionale. Si corre, perciò, al ridimensionamento scolastico, che rischia, in un futuro abbastanza prossimo, di far chiudere una dopo l’altra più di una scuola dell’obbligo nei paesi di quest’area, privando di un ulteriore servizio la comunità.
Nei piccoli paesi, la scuola è un luogo e un momento di aggregazione indispensabili per la «sopravvivenza» della comunità; rappresenta una forza strategica per il presidio del territorio. Non di ridimensionamento c’è bisogno, perciò, ma di riflessioni sugli aspetti didattici e sulla qualità dell’offerta formativa. Ci si ostina a pensare che nelle scuole, come quelle dei paesi della valle del Sarmento, dove funzionano le cosiddette pluriclassi, sia difficile svolgere programmi diversificati in base all’età degli scolari e ai contenuti didattici e che ciò possa diventare un danno nell’accrescimento culturale dell’alunno. C’è, invece, la necessità di pianificare e di organizzare con cura, preventivamente, la vita scolastica e le attività didattiche. Esperienze, molto consolidate ed affermate, dimostrano che, riguardo l’accrescimento culturale, non c’è alcuna differenza tra pluriclassi e monoclassi. In una pluriclasse, anzi, gli insegnamenti diretti a studenti di diverse età possono diventare «un elemento di stimolo per gli allievi, con effetti positivi sulla qualità dell’istruzione; possono essere un metodo didattico alternativo, forse il più adatto alla situazione delle aree interne. Si può partire da una riflessione sulla valorizzazione delle risorse di contesto (le aree interne ne hanno infinite, incluso il “tempo”), sulla qualità delle relazioni che si strutturano tra alunni e insegnanti, sul ruolo chiave dell’insegnante e sulla sua capacità di immaginare, inventare e sperimentare nuovi metodi educativi».
Come riferiscono le attività già messe in moto in diverse realtà dalla Strategia nazionale delle Aree interne, le pluriclassi possono essere una ricchezza per il territorio. «La loro scomparsa comporterebbe una profonda deprivazione per le comunità che le ospitano e di cui salvaguardano identità e storie e ne permettono una narrazione futura». Tutte le classi, anzi, potrebbero essere considerate «pluriclassi» e l’esperienza di queste potrebbe costituire un elemento propulsivo per l’innovazione del «fare» didattica; e «gli allievi possono imparare ad essere partecipi e protagonisti del loro apprendimento, sviluppando le metacompetenze dell’imparare ad imparare». Si cerca di farne, addirittura, dei modelli sul piano della ricerca didattica.
In un articolo del mese scorso sul «Corriere della Sera» si legge, infatti, che «L’Unesco ha promosso le “pluriclassi” nelle regioni in via di sviluppo e diversi Paesi, Francia e Stati Uniti in testa, stanno da tempo cercando di integrare questo modello pedagogico nel loro sistema scolastico».
Nel libro «Le leggi naturali del bambino», di cui, il 3 settembre scorso, ho letto una recensione nell’articolo di Matteo Bussola su «Repubblica» «Ascoltate i bambini», l’autrice Céline Alvarez, affronta il problema dei primi anni di vita «universalmente riconosciuti come il periodo più importante per l’apprendimento», perché tra lo zero e i cinque anni il cervello è più plastico e reattivo. In questo periodo vengono poste le basi per il pieno sviluppo del potenziale di un bambino; in questa fase, perciò, «si gioca la partita decisiva per gli educatori». Céline Alvarez, giovane maestra di scuola dell’infanzia, è convinta che «i bambini necessitano, per crescere al meglio, del nutrimento giusto: di un ambiente amorevole, vivace, ricco, ordinato, che favorisca l’esplorazione, le attività spontanee, l’empatia e l’incontro con l’altro, la compresenza di età differenti».
A San Paolo Albanese io ho frequentato la scuola elementare in una pluriclasse. L’ambiente, lo stare insieme a compagni di varie età, la lingua parlata arbëreshe, il bilinguismo, la vita rurale di un paese di montagna, sono stati stimoli che mi sono portato appresso, come elementi di forza. Credo, ora, come nonno, di avere molte storie «vere» da raccontare ai nipoti, all’ultima, in particolare, di un anno e mezzo. Mescolando l’antico con il presente, spero tanto di contribuire a far nascere in lei il bisogno di conoscere l’aljbërisht che io ancora parlo.
Annibale Formica