La sperimentazione per fini di ricerca e l’applicazione della metodologia in ambito clinico sicuramente si scontreranno con le regole base che comitati di ricerca si sono dati circa l’utilizzo di embrioni umani: in entrambi i casi si genera in laboratorio un elevato quantitativo di embrioni per avere numeri statisticamente validi e dati riproducibili
È notizia di questi giorni che l’inquinamento, in particolare le polveri sottili le cui concentrazioni sembrano sfuggire a qualunque tentativo di controllo da parte delle amministrazioni comunali, sia direttamente collegato all’insorgenza di fenomeni di infertilità maschile: il numero degli spermatozoi presenti nel liquido seminale negli ultimi 30 anni, si è dimezzato e questo pericoloso trend è destinato a peggiorare ulteriormente.
Le biotecnologie si stanno orientando da anni verso lo sviluppo di metodiche che permettano di aggirare il problema dell’infertilità (maschile e femminile): mentre le strategie attualmente in uso risultano essere particolarmente invasive e costose, nuovi approcci si stanno tentando nel panorama della ricerca potenzialmente applicabile alla clinica. Uno studio giapponese propone un approccio rivoluzionario. Andiamo con ordine.
Le cellule eucariotiche (con nucleo morfologicamente ben definito, tipiche di protisti, animali e piante) nel corso dell’evoluzione hanno adottato una strategia evolutiva vincente, plasmatasi in milioni di anni di evoluzione, organizzandosi in organismi pluricellulari, dotati di cellule altamente specializzate. L’esempio più alla mano per spiegare questo comportamento richiede di comparare cellule nervose e cellule dell’epidermide: le prime, i neuroni, che smettono presto di dividersi durante lo sviluppo embrionale e si dotano di un apparato proteico che permette loro di specializzarsi nella conduzione stimoli nervosi sotto forma di segnali elettrici; le cellule dell’epidermide, i cheratinociti, che andranno incontro a una proliferazione cellulare spiccata per tutta la durata della vita dell’organismo a livello dello strato più interno dell’epidermide.
Da quest’ultimo originano infatti cellule che in parte si vanno differenziando attraverso un processo di morte cellulare programmata (apoptosi), in piccole lamelle cornee che vanno esfogliandosi dallo strato superficiale, in parte rimangono nello strato più interno dell’epidermide mantenendo attiva la divisione cellulare. Entrambe le tipologie derivano però dallo stesso ovulo fecondato, lo zigote che si dividerà attivamente creando cellule che andranno a costituire, specializzandosi, tutte le unità base dell’individuo.
Cellule diverse, quindi, hanno all’interno del proprio patrimonio genetico le stesse istruzioni per la vita di gruppo: quello che ne determina la specializzazione in una direzione (neurone) piuttosto che nell’altra (cheratinocita) dipende solo da quali geni vengono letti e quali resi silenti in un caso e nell’altro. Già dalla clonazione della pecora Dolly i ricercatori avevano capito che le cellule di mammifero contenevano quindi le stesse informazioni di base che, in fase embrionale, venivano opportunamente stimolate o meno.
In un recente studio sulla prestigiosa rivista «Nature», il Dottor Katsuhiko Hayashi, biologo riproduttivo alla Kyushu University a Fukuoka in Giappone, ha dimostrato che cellule mature e differenziate possono essere riprogrammare per diventare altro: basta trovare la giusta combinazione chimica per silenziare i geni responsabili della specializzazione. Il fine ultimo dei suoi esperimenti era trovare un giusto mix chimico/procedurale che permettesse la formazione di gameti femminili (gli oociti che si fonderanno con gli spermatozoi del partner a formare lo zigote, inteso come la cellula da cui originerà il nuovo individuo) per permettere di effettuare fecondazioni incrociate (ovuli ricreati in provetta a partire da cellule di epidermide con spermatozoi prelevati da topo maschio).
Il tutto finalizzato in un futuro ancora lontano a generare una metodologia di fecondazione in vitro (IVF) nell’uomo meno invasiva ed estenuante rispetto a quella attualmente in uso. Solo negli Stati Uniti più del 10% dei maschi presenta dei problemi di fertilità e la percentuale è simile nelle donne. Attualmente sono molte le coppie che si appoggiano alle metodiche di procreazione assistita per avere un figlio: le metodologie per fare IVF spesso sono difficili da adottare fisicamente e infruttuose.
Le donne, per esempio, si sottopongono a stimolazioni ormonali che si protraggono anche per due settimane per permettere il rilascio multiplo di oociti: questi vengono raccolti e fecondati in provetta con spermatozoi del partner. Gli embrioni più promettenti vengono poi impiantati nell’utero della donna. Il 65% dei processi di fecondazione assistita non vanno a buon fine a causa della scarsa qualità degli ovuli o dello sperma. Esistono poi casi limite in cui l’IVF non può essere applicata per mancanza di ovuli o spermatozoi.
Immaginiamo un mondo dove oociti competenti e pronti per essere fecondati possano essere ricavati a partire dalle cellule del sangue o da quelle dell’epidermide, attraverso un processo meno invasivo e molto meno costoso: sicuramente sarebbe un ottimo esempio di applicazione tecnologica tesa a migliorare enormemente la qualità di vita di coloro che ne fanno uso.
Lo stesso Katsuhiko però afferma che le applicazioni terapeutiche sull’uomo sono ancora ben lontane dall’essere messe in opera. Bisogna sottolineare inoltre che gli esperimenti di Katsuhiko sono ancora ben poco redditivi dal punto di vista pratico: dei numerosi tentativi fatti per fecondare un ovulo generato in provetta dalla dedifferenziazione di cellule specializzate, in realtà, solo pochi hanno generato topi perfettamente in salute che sono sopravvissuti alla gestazione in utero materno, segno che la metodica deve essere ancora affinata.
Sono innumerevoli però gli articoli che parlano della produzione di gameti a partire da cellule completamente differenziate: il che dimostra l’enorme interesse che ruota intorno all’argomento. Il fatto che si sia ancora lontani dalla sperimentazione umana permette di discutere anche di questioni etiche circa la responsabilità morale insita nell’utilizzo di questa nuova tecnologia.
Oltre al discorso etico, infatti, riguardante la possibilità di generare un oocita a partire da cellule di un individuo, senza che questo dia un esplicito consenso, la sperimentazione per fini di ricerca e l’applicazione della metodologia in ambito clinico sicuramente si scontreranno con le regole base che comitati di ricerca si sono dati circa l’utilizzo di embrioni umani: in entrambi i casi si genera in laboratorio un elevato quantitativo di embrioni per avere numeri statisticamente validi e dati riproducibili.
Attualmente nei paesi dove la sperimentazione su embrioni umani è permessa è stata adottata in tal senso la regola dei 14 giorni per la sua regolamentazione. Questo lasso di tempo intercorre dalla fecondazione alla formazione della linea primitiva, intesa come la prima grande specializzazione cellulare in cui si distinguono chiaramente le cellule che andranno a costituire l’individuo vero e proprio da tutte quelle che costituiranno il complesso sistema degli annessi embrionali, inteso come una serie di strutture presenti al di fuori dell’embrione che ne garantiscono il corretto sviluppo.
Prima della formazione della linea primitiva, infatti, le cellule dell’embrione sono tutte uguali e fortemente indifferenziate: questa caratteristica ne permette una facile manipolazione in laboratorio. Dopo la formazione della linea primitiva, non è possibile fare sperimentazione embrionale.
Come spesso accade la scienza corre su binari rapidissimi: sarà compito dei legislatori stare al passo e regolamentarne l’utilizzo. Sarà interessante vedere come si giocherà questa partita nei prossimi anni.