Abbiamo già superato 4 confini planetari

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«Il risultato è che oggi siamo più pessimisti sul futuro globale di quanto non fossimo nel 1972. È amaro osservare che l’umanità ha sperperato questi ultimi trent’anni in futili dibattiti e risposte volenterose ma fiacche alla sfida ecologica globale. Non possiamo bloccarci per altri trent’anni. Dobbiamo cambiare molte cose se non vogliamo che nel XXI secolo il superamento dei limiti oggi in atto sfoci nel collasso». A 50 anni dal Club di Roma, intervista a Gianfranco Bologna


Gianfranco Bologna, direttore scientifico Wwf Italia e segretario generale Fondazione Aurelio Peccei-Club di Roma Italia, risponde alle nostre domande sul Club, sullo sviluppo sostenibile e sulle aspettative rispetto al Snpa.

Il 20 marzo parteciperà alla presentazione del Primo Rapporto ambiente del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente. Cosa si aspetta dal Snpa in termini di informazione ambientale?

Credo che la legge 132/2016 abbia ben posto le fondamenta di un sistema nazionale moderno di controllo pubblico in campo ambientale a supporto delle politiche di sostenibilità ambientale e di prevenzione a tutela della salute pubblica che vede Ispra interagire in maniera coordinata con il sistema delle Agenzie regionali di protezione ambientale (Arpa), grazie alla regia del Consiglio dei sistema nazionale. Da questo punto di vista diventa fondamentale per l’integrazione tra il sistema nazionale e le realtà regionali la definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni tecniche ambientali (Lepta) omogenei per tutto il territorio nazionale definendo protocolli uniformi per le attività di controllo, raccolta, valutazione e analisi dei dati ambientali. È altrettanto fondamentale la costituzione di banche dati che assicurino una piena e chiara informazione a chiunque la richieda.

Credo che oggi sia molto importante poter attingere a una qualificata informazione ambientale; la «rivoluzione» della sostenibilità passa inevitabilmente attraverso la sensibilizzazione, la conoscenza e la cultura e oggi dobbiamo essere in grado di diffondere nel miglior modo possibile lo straordinario avanzamento delle conoscenze che si stanno acquisendo nel campo dell’ambiente e della sostenibilità.

50 anni fa, nasceva il Club di Roma. Vuole ricordarci l’importanza di quell’avvenimento?

Il Club di Roma è stato ed è uno straordinario protagonista del dibattito sui nostri futuri possibili o desiderabili. Nell’aprile del 1968, Aurelio Peccei (1908 – 1984), economista e dirigente industriale, straordinaria figura umana ed intellettuale, con il quale ho intessuto una forte amicizia e che a tutti gli effetti considero il mio mentore, riunì a Roma, presso la prestigiosa Accademia dei Lincei, una trentina di studiosi provenienti da varie parti del mondo. Tutti accomunati da un forte interesse per il futuro. L’obiettivo di Peccei era quello di dar vita a una sorta di think-tank informale, libero e indipendente, dedicato a stimolare il dibattito sulle complesse dinamiche e sulle interconnessioni esistenti tra i sistemi naturali ed i sistemi sociali, tecnologici ed economici da noi creati e sulle loro prospettive di evoluzione futura.

Successivamente a questo meeting Peccei, con l’apporto di alcune figure internazionali di spicco, come lo scozzese Alexander King (1909 – 2007), altra figura di grande qualità, che, allora era direttore per l’educazione e la scienza all’Ocse, fondò il Club di Roma.

Sin dalla sua istituzione il Club di Roma è stato uno straordinario pioniere del dibattito internazionale su temi quali i limiti della nostra crescita economica, materiale e quantitativa (in un mondo dagli evidenti limiti biofisici), i limiti delle nostre capacità di comprensione della grande complessità dei problemi da noi stessi creati che esigono urgenti soluzioni, nonché del dibattito sulle straordinarie potenzialità per una nuova impostazione dell’economia che tenga conto del valore della natura e del reale benessere sociale e individuale e sulla necessità di impostare modelli di sviluppo sostenibili dal punto di vista ambientale e sociale (basti ricordare due bellissimi rapporti del Club di Roma «Dialogo sulla ricchezza e il benessere» di Orio Giarini del 1981 e «Taking Nature Into Account» curato da Wouter Van Dieren nel 1995).

Aurelio Peccei è scomparso nel 1984, privando il Club di Roma e il mondo intero di una figura straordinaria, con eccezionali qualità umane, culturali, intellettuali e notevolissime capacità organizzative che lo portarono ad aggregare intelligenze diverse di ogni paese in un progetto unificante, innovativo e coraggioso, con un eccezionale capacità di «visione» del futuro.

Il primo passo di questa affascinante avventura ebbe luogo nel 1972 quando presso la Smithsonian Institution a Washington, un gruppo di giovani studiosi del System Dynamics Group dell’autorevole Massachusetts Institute of Technology (Mit), coordinati da Donella e Dennis Meadows, presentò, insieme a Aurelio Peccei, il primo rapporto voluto dal Club di Roma, con un titolo molto chiaro «The Limits to Growth».

Il rapporto utilizzava un primo modello computerizzato del mondo per analizzare gli scenari del nostro futuro, facendo tesoro delle avanzate ricerche del direttore della Sloan School of Management del MIT, Jay Wright Forrester (scomparso due anni fa a 98 anni di età), fondatore della dinamica dei sistemi e grande esperto dei primi modelli mondiali che furono allora elaborati.

Il volume, destinato a fare epoca, presentava le analisi, le riflessioni e i risultati di una ricerca che (impiegando per la prima volta elaboratori elettronici per la costruzione di modelli di simulazione matematica del sistema mondiale) cercava di comprendere le tendenze e le interazioni di cinque importanti fattori dai quali dipende la sorte delle società umane nel loro insieme (l’aumento della popolazione, la disponibilità di cibo, le riserve ed i consumi di materie prime, lo sviluppo industriale e l’inquinamento) in un periodo relativo ai successivi 130 anni.

Il volume fu pubblicato quando ancora non si disponeva delle notevoli conoscenze che abbiamo successivamente raccolto, nell’arco dei decenni dopo, grazie anche all’utilizzo dei satelliti da telerilevamento, come i Landsat della Nasa (il primo dei quali fu lanciato in orbita nel luglio del 1972), nonché dalle profonde ricerche nel campo delle scienze del sistema Terra e dalla capacità di utilizzo attuale dei megasupercomputer (oggi il megasupercomputer più potente è quello del National Supercomputing Center di Wuxi in Cina capace di 93.014 Teraflops al secondo).

Nonostante le carenze che allora ancora avevamo sulle conoscenze della dinamica del sistema Terra, il rapporto del Mit al Club di Roma scatenò un dibattito internazionale di enormi proporzioni. Al di là di alcune intrinseche debolezze dovute alla semplificazione dell’intero modello mondiale in una simulazione elettronica ancora sperimentale ma ben impostata, esso ha avuto e manterrà sempre il grande merito di aver eroso seriamente il mito della crescita che ha sempre avuto un ruolo egemone nella cultura delle nostre società, in particolare nell’ultimo secolo.

Non è un caso che in quegli anni gli attacchi al rapporto provenissero da tutti quei fronti ideologici e politici che non mettevano minimamente in discussione il concetto di crescita economica materiale e quantitativa delle società umane ritenendo improponibile la nostra impossibilità di sorpassare i limiti dei sistemi naturali del nostro pianeta.

Il rapporto faceva presente che nell’ipotesi di una crescita inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità è destinata a raggiungere i limiti naturali della crescita entro i prossimi cento anni. Il risultato più probabile potrebbe essere un improvviso, incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale.

Ma faceva anche presente che è possibile modificare questa linea di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica ed economica in grado di protrarsi nel futuro. La condizione di equilibrio globale potrebbe corrispondere alla soddisfazione dei bisogni materiali degli abitanti della Terra e all’opportunità per ciascuno di realizzare compiutamente il proprio potenziale umano. Sottolineava infine che se l’umanità opterà per questa seconda alternativa, invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto essa comincerà a operare in tale direzione.

Nel 1992, l’anno della grande conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro, più noto come il Summit della Terra, Donella e Dennis Meadows e Jorgen Randers, autori del rapporto originale del Mit del 1972, pubblicarono, a distanza di venti anni, un’ottima rivisitazione di quel rapporto intitolato «Oltre i limiti dello sviluppo» che confermava quanto bisognasse agire rapidamente e non perdere ulteriore tempo per avviare società sostenibili rispetto alle attuali.

Nel 2004 sempre gli stessi autori hanno pubblicato una nuova messa a punto dei limiti della crescita, arricchita delle nuove conoscenze e consapevolezze acquisite in un altro decennio di ricerche ed analisi, con il rapporto «I nuovi limiti dello sviluppo».

Nell’ultimo rapporto gli autori affermano: «Il risultato è che oggi siamo più pessimisti sul futuro globale di quanto non fossimo nel 1972. È amaro osservare che l’umanità ha sperperato questi ultimi trent’anni in futili dibattiti e risposte volenterose ma fiacche alla sfida ecologica globale. Non possiamo bloccarci per altri trent’anni. Dobbiamo cambiare molte cose se non vogliamo che nel XXI secolo il superamento dei limiti oggi in atto sfoci nel collasso».

Le analisi scientifiche degli ultimi anni ci hanno ormai condotto alla sempre più dettagliata verifica della drammatica situazione del rapporto specie umana e sistemi naturali e si sono anche arricchite di straordinari stimoli per il cambiamento e per la capacità e possibilità di imboccare strade concrete per un autentico sviluppo sostenibile. E il Club di Roma ha promosso e intercettato gli stimolanti avanzamenti teorici e pratici che hanno sin qui avuto luogo, realizzando oltre 40 rapporti, testimonianza di questi percorsi innovativi e anticipativi che sono alla base della costruzione di società sostenibili.

Per l’anniversario dei 50 anni il Club ha pubblicato un apposito rapporto curato dai due attuali copresidenti del Club stesso, Ernst von Weizsaecker e Anders Wijkman con la collaborazione di un’altra trentina di membri del Club, dal titolo «Come On!» edito da Springer e del quale sto curando l’edizione italiana.

Il rapporto costituisce un quadro estremamente utile e costruttivo su come oggi sia possibile attuare percorsi concreti di sostenibilità per quanto riguarda l’attuazione di processi circolari, da sempre seguiti dalla natura, che sostituiscano i processi lineari, seguiti invece dal nostro sistema economico, che producono inevitabilmente scarti, rifiuti, inquinamenti. Un rapporto che si pone il problema di trovare soluzioni a come riuscire a vivere, in modo prospero e sostenibile, un «mondo pieno» (Full World) quale è oggi il nostro mondo (pieno di esseri umani e dei loro flussi di materia e di energia), e a come cercare di promuovere una nuova economia che oggi sta ormai concretizzandosi in proposte e azioni tutte assolutamente praticabili e operative.

Il 17 e 18 ottobre prossimi avrà luogo a Roma una grande conferenza internazionale del Club di Roma per segnare questi 50 anni e per lanciarsi nelle straordinarie e affascinanti sfide del futuro.

Oggi la Fondazione Peccei partecipa all’attuale Club di Roma. Vuole dirci quali sono le attività più significative che vengono promosse?

La Fondazione Aurelio Peccei ha sempre rappresentato, sin dalla sua nascita, quello che si può definire il «capitolo italiano» del Club di Roma. È nata nel 1985, l’anno dopo la scomparsa di Aurelio Peccei che, nel frattempo, era stato insignito «alla memoria» del primo premio internazionale sull’ambiente attribuito dalle Nazioni Unite, il Sasakawa Environment Prize, un premio prestigioso rappresentato allora da 100 milioni di lire che la famiglia Peccei ha deciso di utilizzare istituendo una Fondazione a nome di Aurelio Peccei.

Da allora ad oggi la Fondazione ha avuto tre presidenti, il prof. Giuseppe Montalenti, genetista di fama internazionale e presidente dell’Accademia del Lincei, il prof. Umberto Colombo, chimico e manager della ricerca che ha ricoperto importanti ruoli, come quello di Presidente dell’Enea e ministro della ricerca scientifica, e il prof. Roberto Peccei, figlio maggiore di Aurelio, fisico ed astrofisico, professore emerito all’University California Los Angeles (Ucla).

La Fondazione, pur nei suoi ristretti limiti economici, in diversi anni è riuscita ad attribuire alcune borse di studio Peccei per giovani studiosi di paesi terzi in Italia, a svolgere ogni anno, dal 1986, una Aurelio Peccei Lecture alle quali hanno partecipato le maggiori personalità della sostenibilità a livello internazionale e che sono state spesso occasione di presentazione delle edizioni italiane di importanti volumi che costituiscono le basi della sostenibilità (in diversi casi di rapporti del Club), ad organizzare un grande evento internazionale nel 2008 in occasione del centenario della nascita di Aurelio Peccei presso l’Auditorium Parco della Musica a Roma, ecc.

La prospettiva di uno sviluppo sostenibile che, di fatto è derivata dalla intuizione del Club di Roma, cosa significa oggi per lei?

Ormai è veramente difficile immaginare che una continua crescita economica, scontrandosi sempre di più con i limiti ambientali, possa proseguire indisturbata ed è francamente preoccupante che questa «visione» sia ancora dominante nella politica e nell’economia mondiali.

Siamo sempre più consapevoli che non può esistere una sostenibilità del nostro sviluppo sociale ed economico, se cerchiamo continuamente di oltrepassare i limiti delle dimensioni biofisiche dei sistemi naturali e se indeboliamo la loro vitalità.

Diventa per questo sempre più urgente e necessario «voltare pagina», come saggiamente ci indicavano oltre quattro decenni fa gli autori del primo rapporto voluto dal Club di Roma. Oggi siamo in un momento particolarmente affascinante nel campo delle conoscenze relative alle relazioni tra sistemi naturali e sistemi sociali ed è realmente drammatico pensare che tutta questa ricchezza conoscitiva non venga utilizzata al meglio dai decisori, dalla politica e dall’economia. In questi ultimi decenni abbiamo registrato un incredibile avanzamento nelle Earth System Sciences che hanno saputo approfondire l’analisi degli effetti che l’intervento umano sta esercitando su tutte le sfere del nostro pianeta (atmosfera, pedosfera, litosfera, idrosfera, biosfera, antroposfera) e che costituiscono la base di quegli ambiti di indagine che oggi definiamo Global Sustainability e Sustainability Science. La comunità internazionale è stata capace, nonostante i soliti atteggiamenti attendisti e rimandatori che aleggiano sempre nel prendere impegni immediati e concreti, di approvare l’Agenda 2030 con i suoi 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, che tutti i paesi del mondo si sono impegnati a concretizzare, e di approvare l’Accordo di Parigi sul cambiamento climatico, nell’ambito della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite rendendolo operativo già l’anno successivo alla firma. Oggi siamo sempre più consapevoli che ci troviamo realmente in un nuovo periodo geologico che, come ha suggerito nel 2000 il premio Nobel per la chimica, Paul Crutzen possiamo definire Antropocene a dimostrazione della pervasività della pressione umana su tutti i sistemi naturali della Terra.

Credo che oggi sviluppo sostenibile significhi fondamentalmente imparare a vivere, in maniera prospera, entro i limiti biofisici di un solo Pianeta. Abbiamo uno spazio operativo sicuro per farlo e dobbiamo essere capaci di farlo sul serio.

Per questo autorevoli scienziati, guidati da Johan Rockstrom e Will Steffen, hanno documentato come il nostro impatto sui sistemi naturali è ormai vicino o ha già sorpassato delle soglie, che una volta oltrepassate possono provocare effetti a cascata ritenuti ingovernabili e devastanti per l’umanità. E per questo si sono spinti ad indicare dei «confini planetari» (Planetary Boundaries) che l’intervento umano non può superare, pena effetti veramente negativi e drammatici per tutti i sistemi sociali.

Si tratta di nove grandi problemi planetari tra di loro strettamente connessi e interdipendenti: il cambiamento climatico, l’acidificazione degli oceani, la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera, la modificazione del ciclo biogeochimico dell’azoto e del fosforo, l’utilizzo globale di acqua, i cambiamenti nell’utilizzo del suolo, la perdita di biodiversità, la diffusione di aerosol atmosferici, l’inquinamento dovuto ai prodotti chimici antropogenici.

Per quattro di questi e cioè il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, la modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo e le modificazioni dell’uso dei suoli ci troviamo già oltre il confine indicato dagli studiosi.

Complessivamente, i nove confini planetari individuati dagli studiosi, possono essere concepiti come parte integrante di un cerchio e così possiamo definire quell’area come «uno spazio operativo sicuro per l’umanità» (Safe Operating Space, S.O.S.).

Il dibattito scientifico e le applicazioni pratiche del concetto dei confini planetari si è andato sempre più diffondendo e ampliando nei dibattiti di politica internazionale incrociandosi con le riflessioni di carattere sociale ed economico.

Per questo l’economista Kate Raworth ha ampliato queste ricerche sui confini planetari con le riflessioni di ambito sociale, cercando di individuare uno spazio equo e sicuro per l’umanità. Il benessere umano dipende infatti oltre che dal mantenimento dell’uso complessivo delle risorse in un buono stato naturale complessivo che non scenda sotto certe soglie, anche e in misura uguale, dalle necessità dei singoli individui di soddisfare alcune esigenze fondamentali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità. Quindi come esiste un confine esterno all’uso delle risorse, un «tetto» oltre cui il degrado ambientale diventa inaccettabile, così esiste un confine interno al prelievo di risorse, un «livello sociale di base» (un «pavimento») sotto cui la deprivazione umana diventa inaccettabile.

La Raworth ha individuato 11 priorità sociali quali la privazione del cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria, il reddito, l’istruzione, l’energia, i posti di lavoro, il diritto di espressione, la parità di genere, l’equità sociale e la resilienza agli shock indicandole come una base sociale esemplificativa e incrociandole con i confini planetari. Si viene così a formare, tra questi diritti di base sociali (una sorta di «pavimento sociale») e i «tetti ambientali» dei confini planetari, una fascia a forma di ciambella che può essere definita sicura per l’ambiente e socialmente giusta per l’umanità. Questa analisi della Raworth viene comunemente definita l’economia della ciambella (Doughnut Economics). Una combinazione di confini sociali e planetari di questo tipo crea una nuova prospettiva di sviluppo sostenibile. La grande sfida per raggiungere la sostenibilità del nostro sviluppo nell’immediato futuro è quella di riuscire a comprendere quale sia il numero ottimale della nostra popolazione e il relativo stile di vita necessario a rispettare le capacità rigenerative e ricettive dei sistemi naturali che ci sostengono. Per questo il Wwf Italia ha elaborato un apposito Manifesto SOS lanciato nell’ultima Aurelio Peccei Lecture tenutasi nel 2017 proprio con Kate Raworth, che è già stato sottoscritto da imprese, fondazioni, Ngo, istituzioni universitarie ecc. Se non saremo capaci di imparare a vivere negli ormai evidenti limiti biofisici dei sistemi che ci sostengono e a imitare la natura nei nostri processi di produzione e consumo, non potremo raggiungere uno sviluppo sostenibile.

(Fonte Newsletter Ambiente Informa, n. 93)