L’impiego a fini energetici di biomasse, come anche di sostanze organiche di risulta, ambientalmente ed energeticamente non sostenibile in tutte le sue accezioni, nonché rischiosa per la salute umana, sia nell’uso diretto combustivo che tramite digestione anaerobica. Attenzione al ciclo del fosforo
Credo necessaria un’attenta riflessione sulla questione dell’uso delle biomasse a fini energetici, che oggi troppo spesso viene indicata come scelta ecologica e sostenibile, e che addirittura rappresenterebbe uno dei fondamenti della futura economia circolare.
In primo luogo dobbiamo capirci su quali sono i criteri di base che dobbiamo adottare per formulare un giudizio su scelte di questa rilevanza, altrimenti rischiamo, come spesso accade, che anche nella totale onestà intellettuale, e lontano da interessi speculativi, giungiamo a due conclusioni di segno opposto, una delle quali probabilmente sbagliata rispetto all’intento che ci proponiamo (non sempre la verità sta nel mezzo).
Pensare globalmente e agire localmente
Un fondamentale criterio per definire la sostenibilità strategica delle azioni umane è il sempre valido principio del «pensare globalmente e agire localmente» (Carta di Aalborg), fondato sulla considerazione che il problema primario che deve affrontare l’umanità attiene all’alterazione di equilibri globali determinati dall’attuale modello di produzione e consumo, alterazioni che non sono attribuibili a macroscopiche sorgenti localizzate, come può avvenire per fenomeni catastrofici naturali (es. eruzioni dei megavulcani, brillamenti solari, meteoriti, ecc.) ma alla sommatoria diffusa di piccolissime e medie azioni locali, tutte orientate nella stessa direzione.
Quindi, se vogliamo contrastare e invertire i processi dannosi per il pianeta, dobbiamo farlo identificando la strategia efficace a livello globale, per poi applicarla a tutti i livelli, di cui quello locale è il principale e su cui le singole comunità possono agire. In altre parole, anche se difficile, bisogna fare molta attenzione a scelte che apparentemente tendono a risolvere problemi ambientali a corto raggio e in tempi brevi, ma non modificano i trend globali in atto, scaricando gli effetti su altre aree del pianeta o sul futuro.
Servono, quindi, azioni coerenti, tutte nella direzione opposta all’attuale. E questo richiama il secondo criterio da applicare per riconoscere la bontà delle scelte, nella sua accezione più semplice ed efficace: la sostenibilità. Essa è definita come la caratteristica di un processo o di uno stato che può essere mantenuto ad un certo livello indefinitamente (D.lgs 16 gennaio 2008, n. 4), e il concetto vale tanto per l’ambiente che per la società umana. Sembra banale, ma spesso lo si dimentica. Quindi un’azione è sostenibile se può continuare all’infinito (nei tempi terrestri e antropici, ovviamente), altrimenti non è classificabile in tal modo. Molto banalmente, sarà sostenibile ciò che non consuma risorse limitate che non si rinnovano, e non induce alterazioni che non si compensano e riparano nello stesso tempo in cui si generano.
Qui entra in gioco il terzo elemento di valutazione che ci serve come traccia per i nostri giudizi: i meccanismi alla base dell’equilibrio del pianeta: l’ecologia (nella sua accezione delle dinamiche ecosistemiche locali e globali; Biogeochemistry: An Analysis of Global Change. W. H. Schlesinger, Emily S. Bernhardt; Paperback, 2013). A questa si dovranno, gioco forza, anche aggiungere le dinamiche sociali come sfera collegata, ovvero si dovrà tener conto della vita (e non solo della sopravvivenza) della popolazione della terra, con un occhio alle differenze di partenza fra aree geografiche. Secondo il principio di precauzione è sempre possibile stimare, almeno qualitativamente, se l’iniziativa ipotizzata si allinea o meno con gli equilibri naturali e sociali, oppure se ne pone in netta distonia, compromettendone, più o meno, la resilienza o l’evoluzione virtuosa. Nel primo caso l’iniziativa risulterà sostenibile, mentre nel secondo no.
Per doverosa completezza di questa premessa metateorica, è il caso di chiarire che qui non si intende affatto affermare il principio secondo cui tutte le azioni antropiche incoerenti con i cicli naturali debbano essere interrotte o impedite in futuro, ma si vuol riaffermare il principio della oculata contemperanza di tutti i fattori positivi e negativi di valutazione, nessuno escluso. In altre parole nell’analizzare una proposta di una nuova attività o strategia, ove queste si posizionino in contrasto con gli equilibri naturali e in presenza di alternative praticabili e ambientalmente sostenibili, appare doveroso orientare la scelta verso queste ultime. Solo in caso di assenza di alternative praticabili e di estrema necessità per gravi ragioni può diventare accettabile un sacrificio ambientale. Tutto ciò al netto delle valutazioni di carattere sanitario, che appaiono comunque prioritarie. Su queste basi proviamo a cimentarci con la nostra questione sull’impiego delle biomasse e sul loro destino vocazionale e sostenibile.
Rapporto fra biomasse ed equilibri del pianeta
L’equilibrio del pianeta terra, come si accennava, è garantito dalla ciclicità bio-geo-chimica degli elementi che la compongono, a differenza dei pianeti in cui non è presente la vita, sottesi anch’essi ad un equilibrio ma solo di tipo geo-chimico. La costante armonia delle tre componenti, ne garantisce il mantenimento stabile, condizione per la vivibilità di tutte le specie, genere umano incluso. Per definire il ruolo che assumono le biomasse in queste dinamiche bisogna rifarsi al ciclo del carbono (Biogeochemistry: An Analysis of Global Change. W. H. Schlesinger, Emily S. Bernhardt; Paperback, 2013), uno dei cicli degli elementi più alterato dall’azione antropica, assieme a quello del fosforo.
È ormai acclarato che l’impiego dei combustibili fossili ha spostato una enorme massa di carbonio dalla crosta terrestre, dove era depositata in forma di composti organici stabili nel sottosuolo (principalmente idrocarburi complessi e metano), all’atmosfera sotto forma di CO2; ciò contemporaneamente ad una netta riduzione delle superfici a verde che fungono da «sequestratori» della molecola, riportandola sulla crosta e sottraendola all’aria. Nel bilancio del ciclo si è quasi raddoppiata la componente in CO2 atmosferica in un solo secolo, da 270 a 400 ppm.
Le conseguenze sono alterazioni climatiche di cui abbiamo solo iniziato a vedere gli effetti, ma anche impatti negativi sugli oceani in cui il gas si scioglie, modificandone l’equilibrio acido-base oltre alle temperature. Il fenomeno è purtroppo progressivo: aree geografiche e grandi foreste, che in passato non erano soggette a incendi, a causa del clima sono colpite sempre più da devastanti roghi, capaci in pochi giorni di immettere in atmosfera ulteriori enormi masse di CO2 e contemporaneamente di eliminare per decenni la ricattura vegetale del gas in quelle aree (World Watch Institute; State of the World 2017).
Sempre il clima alterato, ma anche il consumo e lo sfruttamento del suolo, oltre a continuare a ridurre costantemente le superfici a verde, causano la progressiva perdita di sostanza organica dei terreni, aumentando la desertificazione nelle aree a rischio e riducendo ulteriormente la cattura di CO2 dall’atmosfera.
La lista dei fenomeni è ancora lunga, ma ne citiamo solo un altro: l’immissione in atmosfera di metano. Fonti naturali di metano, in crescita a causa del clima, sono i fenomeni putrefattivi e la dissoluzione dei depositi dei fondali dove è congelato. Incidono anche fonti antropiche, quali discariche, perdite diffuse (dall’estrazione e trasporto, dai digestori anaerobici e da allevamenti intensivi). A tali immissioni di metano si attribuisce il 18% degli effetti climalteranti, gravi poiché in atmosfera il metano si degrada lentamente per effetto fotochimico troposferico, quindi tende a lunghe permanenze.
Alla luce di tali elementi la logica, prima ancora delle direttive di accordi mondiali, delle direttive e delle norme europee e nazionali, impone di limitare al massimo le emissioni di CO2 e di incrementarne la ricattura e la conservazione come sostanza organica sulla crosta terrestre (sequestro); ciò grazie alla concomitanza di quattro indirizzi strategici: la sospensione più rapida possibile dell’impiego di fonti fossili, la difesa e l’aumento di aree a verde stabile, la chiusura dei cicli dell’organico a livello territoriale con l’impiego al suolo (agricolo e naturalistico) delle biomasse di supero, la riduzione della combustione diretta e indiretta delle biomasse.
Soffermiamoci sugli ultimi due indirizzi, che appaiono concettualmente più controversi.
L’impiego diretto agricolo o ambientale delle biomasse, nella loro forma compatibile col suolo (materiale naturalmente già compatibile o compostato o digestato-compostato), non può che avere la priorità sull’uso energetico, per le finalità di cattura della CO2 che superino in massa le immissioni (il bilancio neutro non è sufficiente, come già dimostrato). Ma anche per il contrasto alla desertificazione tramite incremento della frazione organica del tessuto e per la fertilità stessa del suolo, con particolare riferimento al fosforo.
Infatti questo elemento è il vero tallone d’Achille della vita sulla terra, e ciò non dipende strutturalmente dall’uomo, ma dai cicli naturali. Quando l’elemento, veicolato dalle acque che scorrono in superficie e lo sottraggono al suolo, raggiunge gli oceani in buona parte precipita nei sedimenti profondi e non viene recuperato dai cicli naturali, né l’uomo può andarlo a recuperare da lì. Tornerà in superficie solo dopo tempi lunghissimi, praticamente ere geologiche, come roccia riaffiorante spinta dalla deriva dei continenti. Quindi il fosforo, nell’arco di una era geologica, è costantemente in diminuzione nella sua disponibilità. A breve non ci sarebbe nessun serio problema per gli ecosistemi guidati dai ritmi naturali, poiché il loro equilibrio naturalmente circolare ne limita moltissimo la perdita verso il mare e ne conserva la disponibilità sostanziale in superficie.
Le attività antropiche sono oggi impostate, però, sull’estrazione industriale di fosfati dalle riserve, rappresentate prevalentemente dai depositi di guano (cacca di uccelli, per intenderci) per l’industria dei fertilizzanti e altri prodotti a base di fosfati (conservanti, scrostanti, ecc.). Questa quantità in gran parte si perde dopo l’uso con le acque piovane e reflue che finiscono in mare, accelerando la perdita definitiva dell’elemento. Le riserve minerarie sono, perciò, in rapido esaurimento, e fra pochissimo (30/40 anni secondo il Global Phosphorous Research Initiative) saranno del tutto consumate.
La moderna agricoltura «al fertilizzante» cesserà ineluttabilmente di esistere.
Bisogna, quindi, subito arrestare la perdita dell’elemento, razionando molto le riserve, ma anche accelerando la transizione a un’agricoltura in cui il fertilizzante sia rappresentato da una risorsa rinnovabile e meno disperdibile, cioè un’agricoltura per nulla intensiva e basata sul riciclo di tutti gli scarti organici, col loro intatto contenuto di fosforo organico; questo, rendendosi disponibile lentamente, viene naturalmente riutilizzato e non va disperso in grandi quantità.
Essendo questa agricoltura molto meno produttiva, ci servirà molto più suolo per produrre quanto basta, ma contemporaneamente senza deforestare, anzi incrementando anche le foreste, come dicevamo. Probabilmente (ma il calcolo non è difficile) non ci resta suolo per coltivare biomasse vegetali da impiegare solo a fini energetici; questo è evidente soprattutto in paesi come il nostro, dove il consumo di suolo ha già di gran lunga superato la soglia minima dell’Impronta ecologica della popolazione (Impronta ecologica è la quantità di territorio necessaria a fornire risorse a una popolazione, assorbendone e riciclandone anche i sottoprodotti).
Possiamo già guadagnare, allora, un primo punto fermo di questa trattazione: Non sono auspicabili coltivazioni a specifica destinazione energetica.
Il criterio potrebbe risultare valido anche nei casi di coltivazioni a fini di fitoremediation (bonifica di siti inquinati), laddove da un’attenta valutazione del ciclo di vita completo del materiale vegetale impiegato, dovesse risultare che gli inquinanti che si intendo rimuovere dal suolo o dalle acque, o loro sottoprodotti, dovessero andare a costituire, a loro volta, rifiuti pericolosi di difficile gestione nel corso o al termine dell’impiego energetico del materiale stesso.
Questo, però, non esaurisce affatto la valutazione sulla possibilità di impiego a fini energetici di altre biomasse se non contaminate, non prodotte a tale esclusivo scopo ma residuali di altri processi. Ciò perché nella nostra economia di vita, proprio perché il nostro territorio non basta a sfamarci tutti, importiamo alimenti e altre masse organiche, la cui quota variamente esuberante (scarti agricoli o industriali biodegradabili, umido urbano, fanghi di depurazione), potrebbe non essere per intero conferibile a chiusura di cicli dei suoli, che a loro volta non possono essere sovraccaricati di organico.
Ma il fatto è che oggi siamo ben lungi dal raggiungimento di questo virtuoso limite, mentre incombono decisioni e scelte strategiche che ci potrebbero vincolare per il futuro a obbiettivi miseri o del tutto sbagliati in termini di sostenibilità. Ciò giustifica l’affermazione, già riportata, che nella gestione delle biomasse di supero l’obbiettivo strategico prioritario deve essere il riequilibrio organico naturale, a cui è possibile porre gerarchicamente in parallelo, per le quote eventualmente in eccesso di biomasse prevalentemente vegetali, l’utilizzo in industria, edilizia e sistemazione ambientale, coerenti col sequestro di carbonio in forma stabile. Solo ad esempio, è recente un premio per l’uso dei residui della coltivazione del riso come isolante in bioedilizia (Premio Sostenibilità 2017 nella categoria Edilizia Ristrutturazione/Restauro).
Il calcolo sulle disponibilità totali, sulla loro distribuzione territoriale, e sulla capacità/necessità dei suoli di riceverle, può essere fatto in base ad uno studio specifico, che però dovrebbe anche considerare l’auspicabile tendenza a ridurre nel tempo i resti di natura alimentare, componente importante della massa totale oggi disponibile. L’esubero consolidato, rispetto alle opzioni precedenti, potrebbe ragionevolmente costituire il patrimonio in biomasse su cui dimensionare complessivamente processi di impiego energetico (dei quali tratteremo specificamente in seguito), che risulterebbero, pertanto, sostenibili in tempo medio (quindi non indefinitamente), a condizione che il loro impiego vada efficacemente a sostituire da subito quote energeticamente equivalenti di fonti fossili.
Questo a livello di responsabilità pianificatoria e valutativa pubblica, nulla togliendo al sacrosanto diritto privato di singole aziende agricole o piccoli consorzi di richiedere autorizzazione ad utilizzare accertati esuberi di biomassa dei propri cicli interni per generare energia nelle forme necessarie (calore, elettricità, combustibile per i mezzi agricoli e macchinari), secondo logiche di economia circolare. Sempre laddove tali quote rientrassero nel novero delle qualità e quantità disponibili a tale scopo da una pianificazione generale.
Tecnologie di impiego energetico delle biomasse
In questo paragrafo approfondiamo le diverse tecnologie di impiego energetico delle biomasse con i loro effetti, in maniera da considerare anche tali parametri nelle valutazioni finali sulla strategia in questione.
a) Combustione di biomasse tal quali
La combustione convenzionale di biomasse ai fini della produzione di calore o di energia elettrica o di entrambi (cogenerazione) rappresenta certamente la tecnologia più controversa, essendo riconosciuta come una delle principali cause di emissione e immissione atmosferica di particolato e composti pericolosi per la salute nelle aree densamente popolate, con una graduazione dell’entità del fenomeno che dipende dai sistemi di combustione e abbattimento delle emissioni adottato.
Ad esclusione dell’impiego di materiali di origine vegetale e legnosa presso singoli isolati insediamenti di modeste dimensioni (e aggiungiamo fino ad un completo ammodernamento degli stessi su base solare, geotermica e minieolica e di risparmio energetico, sempre preferibili), tale pratica andrebbe disincentivata. Inoltre, e in riferimento alle problematiche già trattate sull’incidenza della pratica sul ciclo del carbonio e del fosforo, le ceneri di combustione, anche se riutilizzabili per l’impiego agricolo, non contengono significative quantità di carbonio e fosfati organici a lento rilascio.
Particolarmente problematica appare l’applicazione di tale processo a biomasse di rifiuto misto (termovalorizzazione) o derivanti da processi di bonifica di siti contaminati; in tali casi, infatti, non solo i livelli emissivi di composti pericolosi possono essere più elevati, ma le ceneri di combustione possono rappresentare un rifiuto in assoluto molto difficile da recuperare e smaltire, contenendo in forma concentrata la componente in metalli pesanti originariamente presente nella biomassa.
In conclusione la pratica della combustione diretta di biomasse non può essere considerata strategicamente sostenibile o da sostenere, se non come tecnologia molto marginale e residuale.
b) Digestione anaerobica di biomasse
Il processo di digestione (trattamento) anaerobica può essere impiegato per la conversione (estrazione) di metano e/o idrogeno dalle biomasse, destinando tali gas (biogas) alla generazione di energia. Pratica antichissima in uso domestico (Cina), impiega un processo biochimico presente in natura nel ciclo del detrito in assenza di ossigeno: sinteticamente gran parte del carbonio organico presente nella matrice può essere convertito massivamente in CO2 e metano gassoso (CH4); il processo può essere spinto in condizioni più estreme fino alla produzione di idrogeno (H2), ma in tal caso si riduce la produzione di metano e aumenta quella di CO2 e di carbonio organico residuo nel digestato. (Blonda et. Al. 1991, Aspetti biochimici e microbiologici dell’ecosistema anaerobico. IRSA-CNR R/134).
In una scala di valore sul bilancio del ciclo del carbonio, quindi, e sull’emissione di CO2 a confronto con la quantità di carbonio sequestrato, la metanizzazione, come pure la più difficile generazione di idrogeno, si pongono in posizione migliore della combustione diretta delle biomasse, ma certamente molto peggiore del loro impiego come materia agricolo, ambientale o industriale (tal quale o via compostaggio).
Tale gerarchia è sancita da norma, anche se in riferimento specifico alla frazione organica dei rifiuti. La Direttiva quadro 2008/98/CE, recepita con il D.LGS 205/2010, all’articolo 179, comma 1, stabilisce le priorità secondo cui deve essere gestita qualsiasi frazione merceologica dei rifiuti, quindi anche la Frazione Organica dei Rifiuti Solidi Urbani (Forsu): la gestione dei rifiuti avviene nel rispetto della seguente gerarchia: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento. È evidente che la digestione anaerobica si caratterizzi prevalentemente quale recupero energetico e non di prevenzione, preparazione per il riutilizzo o riciclaggio (il digestato tal quale non ne ha le caratteristiche), quindi in quarta e penultima posizione gerarchica da norma. Di rilievo appaiono anche le implicazioni sanitarie correlate all’impiego dell’anaerobico, sia in termini di emissioni che, soprattutto, di prevenzione da agenti patogeni nella gestione del digestato.
I fondamenti ecologico-sanitari ed economici di tale gerarchia sono altrettanto validi se riferiti a biomasse non da rifiuto urbano.
Sul piano delle tecnologie disponibili, però, è necessario un rapido approfondimento che, come si vedrà, diventa determinante nel valutare il ruolo strategico di questa pratica.
Viene comunemente asserito che il trattamento anaerobico, seguito dal compostaggio del digestato, genera minori emissioni odorigene del compostaggio classico. L’emissione odorigena disturbante è misura della liberazione di composti ridotti dello zolfo, ammine, ammoniaca e acidi grassi, ecc. tutti frutto di processi prevalentemente anossico/anaerobici.
Un processo di compostaggio correttamente eseguito non genera i succitati composti in quantità significative, in quanto è un processo ossidativo aerobico e microaerobico. Viceversa un processo anaerobico perfettamente gestito (ovvero con efficienze di metanizzazione molto alte e ambiente red-ox basso) lascia sempre nel digestato aliquote di composti altamente ridotti, rendendo necessaria una sua ulteriore fase di stabilizzazione aerobica per la loro trasformazione; tale fase presenta problematiche simili (se non maggiori) di quelle del compostaggio diretto della biomassa di partenza, specie nei casi (frequenti) di una digestione non spinta e completa. Pertanto l’affermazione appare forzatamente veritiera, ma solo nel confronto fra una cattiva fase di compostaggio e una perfetta fase anaerobico-aerobica e in assenza di sistemi di abbattimento odori; questi ultimi, però, sono sempre necessari a scopo cautelativo, azzerando di fatto possibili differenze di impatto, ma rendendo la sequenza anaerobico-aerobico molto più complicata del compostaggio.
E ciò riduce di molto l’ipotetico vantaggio economico-energetico derivante dall’impiego del biogas.
Infatti, perché il processo anaerobico sia spinto ad alti livelli di efficienza, necessitano diverse condizioni operative: lunghi tempi di permanenza (grandi volumi di impianto), perfetta miscelazione meccanica, riscaldamento dei digestori (ideale è il range termofilo a 55 gradi, anche per fini igienici), correzioni di alcalinità con aggiunta di reattivi (preferibile bicarbonato di sodio), purificazione del biogas per eliminare CO, solfuri e altre impurità (con generazione di residui da smaltire), a cui si aggiungono i consumi della successiva fase di stabilizzazione aerobica del digestato. Un confronto tra i costi di investimento tra Compostaggio e Digestione Anaerobica, considerando le migliori tecnologie disponibili (BAT), mostra costi per tonnellata annua trattata che possono arrivare al doppio nel caso di digestione anaerobica. Escludendo i consumi del post compostaggio, e a seconda delle rese di metanizzazione, il bilancio energetico dell’anaerobico si chiude con un esubero netto utilizzabile tra il 20% il 50% dell’energia impiegata (esperienza della digestione fanghi secondo AQP S.p.A).
Restano comunque alcune occasioni in cui la digestione anaerobica resta ipotizzabile, essenzialmente quelle legate alla presenza di reflui della zootecnia per un pretrattamento a monte del compostaggio. Sempre comunque in piccoli impianti e previa post igienizzazione termica (contro spore anaerobiche).
In fin dei conti il trattamento anaerobico non può essere qualificato come generalmente preferibile al compostaggio, anzi assume una valenza sistemica negativa rispetto a questo.
Ciò, come si è già accennato, non significa affatto che nelle situazioni in cui tali impianti siano stati già realizzati (digestori fanghi di depurazione) non si debba mantenere e perfezionare il processo, né che a livello di singola azienda o piccolo consorzio non si possa adottare il processo per gestire esuberi di biomasse rispetto alle esigenze agricole e industriali, ma che la tecnologia in questione non può essere in priorità strategica nelle future pianificazioni di sistema, soprattutto per la Forsu.
c) Altre tecnologie a fini energetici
Senza dilungarsi sulle numerose tecnologie di trasformazione delle biomasse a fini energetici (biocarburanti e altro), tutte comunque soggette alle stesse considerazioni già fatte sulle gerarchie ecologiche di impiego, vale solo la pena di citare una frontiera di ricerca che appare particolarmente interessante per la gestione di quelle frazioni che risultano in esubero ai fini del reimpiego diretto, soprattutto per la loro qualità inidonea alla reimmissione in ambiente. Trattasi della produzione diretta di energia elettrica per via batterica nelle così dette Microbial Fuel Cells. Il processo, ancora allo studio per eventuali messe a punto produttive, genera energia elettrica di origine biologica senza il passaggio da biogas e combustione di questo, o da produzione di idrogeno e utilizzazione dello stesso via motori termici o celle a combustibile. I vantaggi termodinamici sono evidenti anche se sul piano del sequestro di carbonio i bilanci potrebbero essere paragonabili a quelli dell’anaerobico.
Conclusioni
La conclusione di questa speditiva riflessione conduce a considerare comunque l’impiego a fini energetici di biomasse, come anche di sostanze organiche di risulta, ambientalmente ed energeticamente non sostenibile in tutte le sue accezioni, nonché rischiosa per la salute umana, sia nell’uso diretto combustivo che tramite digestione anaerobica. Non può, pertanto, essere adottata come linea strategica primaria nella gestione della Forsu nel piano rifiuti della Regione Puglia.
Residuali margini di accettabilità del processo di trattamento anaerobico rimangono per ridotte dimensioni e in circuiti localizzati per matrici realmente esuberanti la possibilità di riutilizzo tal quale o previo compostaggio aerobico.
Massimo Blonda, Biologo, Ricercatore Cnr-Irsa