Siamo all’«emergenza sabbia»

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La riduzione del bagnasciuga è frutto di un vuoto incolmabile tra estrazione e naturale ciclo di sostituzione della sabbia. Un granello di sabbia può impiegare dai cento a mille anni per arrivare dalle rocce erose alle coste, mentre il ritmo degli scavi sembra destinato ad aumentare per rispondere alla crescente urbanizzazione

In questi mesi sono molti i turisti che si riversano sulle coste, approfittando della bellezza naturale di alcune delle migliori spiagge affacciate sul Mediterraneo. Eppure, se non si opera al più presto per la salvaguardia del bagnasciuga, questi paesaggi naturali potrebbero diventare mero ricordo del passato.

Le radici di questa problematica hanno le basi nel settore edile, fondamentale per lo sviluppo di città ed infrastrutture e, come ben risaputo, fortemente dipendente dalle estrazioni di sabbia marina. Il fatto che sia proprio la sabbia delle coste (e non quella del deserto) ad essere utilizzata per la formazione del calcestruzzo, si deve alla sua peculiare struttura, capace di aggregarsi efficacemente al cemento in fase di miscelazione. Non c’è quindi da sorprendersi se una città come Dubai, in pieno deserto, faccia arrivare la sabbia da costruzione direttamente dall’Australia per le sue imponenti opere edili (moltiplicando l’impatto ambientale a causa del trasporto navale).

La continua estrazione, che cresce ad un ritmo esagerato, sta però portando ad una vera e propria «emergenza sabbia». I numeri parlano chiaro e, per rendere il tutto più tangibile, si potrebbe citare il caso della Cina: nel biennio 2016-’17, sotto la guida di Xi Jinping, ha utilizzato più cemento di quanto abbiano fatto gli Stati Uniti in tutto il XX secolo. Sapendo che poi, nella formazione del calcestruzzo, il cemento è meno della metà della sabbia impiegata, va da sé che l’emergenza assuma dimensioni mastodontiche.

La riduzione del bagnasciuga è frutto di un vuoto incolmabile tra estrazione e naturale ciclo di sostituzione della sabbia. Un granello di sabbia può impiegare dai cento a mille anni per arrivare dalle rocce erose alle coste, mentre il ritmo degli scavi sembra destinato ad aumentare per rispondere alla crescente urbanizzazione.

Per fermare questa catastrofe ambientale sono nati diversi progetti che, nonostante non abbiano ancora portato ad uno standard alternativo, hanno messo sul tavolo delle proposte che sono risultate efficaci in diversi casi.

L’Ance (Associazione nazionale costruttori edili) ha già proposto che vengano istituite figure adibite al reimpiego e smaltimento dei rifiuti prodotti dai cantieri, che rappresentano una ingente percentuale rispetto al totale. Le strutture per il reimpiego di materiale di scarto dovrebbero essere vicine al cantiere e capaci di operare tramite un sistema di frantumazione e filtraggio delle impurità. In questo modo si potrebbe, ad esempio, utilizzare calcestruzzo riciclato per la costruzione di ulteriori edifici, riducendo l’impatto ambientale ed ottimizzando l’uso di sabbia marina. Ovviamente questo materiale di riciclo deve sottostare a delle norme che ne assicurino idoneità e qualità.

A ciò si aggiunge anche l’utilizzo del vetro che può convertirsi in spuma, grazie all’idea innovativa di due ricercatori americani, e andare a formare blocchi idonei alla costruzione di edifici (come documentato da The Blue Economy). Anche l’Unione europea ha approvato questo materiale in ambito edile, dato che è sia impermeabile, sia resistente alla formazione di funghi o muffe. L’unico scoglio sembra rappresentato dal fabbisogno energetico richiesto dai processi di lavorazione, anche se le prospettive per il futuro sembrano aprire uno spiraglio.

La gamma delle opzioni alternative alla sabbia è però variegata ed annovera metodi di costruzione che sembravano esser stati accantonati in nome di un progresso tecnologico capace di rispondere velocemente al bisogno di abitazioni, a scapito dell’impatto sull’ambiente.

Tra i metodi di costruzione più antichi si potrebbe citare la tecnica del pisé, ossia la costruzione di mura tramite la compattazione di terra umida. Ancora oggi è possibile vedere queste costruzioni nel piemontese, famose con il nome di «case di terra della fraschetta». Purtroppo non è ancora possibile fare una stima di quanto questo metodo possa sopperire alla mancanza di struttura abitative, specie a fronte del flusso migratorio dalle periferie verso i centri urbani.

La speranza è che sia proprio il progresso tecnologico a dare una risposta immediata a questa crisi ambientale, magari creando in laboratorio un sostitutivo efficace della sabbia marina; specie se si vuole lasciar godere le generazioni future dei paradisi naturali che danno tanto prestigio al bel paese.

È possibile avere una panoramica sul tema, con fonti per i vari dati, nella infografica-report Perché a breve non ci sarà più sabbia, dove viene inoltre citato anche il problema della criminalità organizzata orbitante attorno al mercato nero della sabbia. L’emergenza sabbia presenta varie sfaccettature ed è indubbio che la strada per una risoluzione sia ancora in salita. Ciò nonostante sono molti gli spiragli aperti affinché si possa finalmente uscire da un’impasse che, a lungo andare, potrebbe causare danni irreversibili alla geografia del pianeta.

 

(Fonte Arpat, testo a cura di Diego Parravano)