Intervista al geniale e controverso biologo ambientale ed evolutivo Roberto Cazzolla Gatti che ha teorizzato l’evoluzione e la riproduzione del nostro pianeta per mezzo degli esseri umani
Qualche giorno fa è stata pubblicata una rivoluzionaria teoria proposta dal biologo italiano Roberto Cazzolla Gatti secondo la quale saremmo noi esseri umani le cellule riproduttive del nostro pianeta vivente, ovvero di Gaia. In altre parole, secondo questa provocatoria idea, gli uomini rappresenterebbero gli spermatozoi della Terra e avrebbero il ruolo di propagarla nell’universo trasferendo su altri pianeti la vita che si è sviluppata su di essa.
La teoria proposta dal prof. Cazzolla Gatti, professore associato presso la Tomsk State University in Russia e ricercatore associato della Purdue University negli Usa, è stata presentata e discussa in un articolo da poco pubblicato sulla rivista scientifica «Futures» e anticipata sulla rivista «Theoretical Biology Forum» (110 [1-2]: 25-45, 2017).
L’idea ha suscitato interesse e sollevato perplessità. Alcuni si sono chiesti se questa teoria non possa cambiare l’idea che l’uomo ha del suo ruolo nel mondo, come accaduto per i cambiamenti climatici quando dopo l’avvio dei trattati internazionali e l’allargamento della coscienza popolare, la gente ha iniziato prima ad agire ma poi ha allentato gli sforzi quando si è iniziato a parlare di forze planetarie in gioco più grandi dell’uomo, come il sole, la rotazione terrestre, ecc. e, così, i petrolieri hanno riacquistato credito, tanto che Trump è salito alla Casa Bianca.
Abbiamo chiesto direttamente all’Autore della teoria di spiegarci in un linguaggio più divulgativo cosa afferma e cosa implica la sua idea.
Prof. Gatti, vuole innanzitutto spiegarci, in sintesi, questa teoria che ridà all’uomo un ruolo nello schema universale?
«Abbiamo scoperto, da molto tempo, che la vita stessa (ovvero l’insieme di piante, animali, alghe funghi e microorganismi) influenza lo sviluppo dell’ambiente planetario, cioè è in grado di influenzare il clima, la geologia, il ciclo dell’acqua, dell’azoto, etc. del nostro pianeta. In qualche modo, lo rende perfetto per la vita e abitabile per le specie con cui condividiamo il nostro breve passaggio nel mondo. È così da miliardi di anni e non è frutto del caso. Sappiamo anche che questo equilibrio tra specie viventi e Terra influenza anche la futura evoluzione della vita stessa in modo co-evolutivo, sarebbe a dire che animali, piante, etc. e il pianeta evolvono mano nella mano, adattandosi a vicenda. Questa è un’idea ormai accettata, ma da quando James Lovelock nel 1972 ha pubblicato l’ipotesi di Gaia molti critici, tra cui il noto biologo Richard Dawkins, hanno duramente attaccato l’idea che il nostro pianeta possa essere considerato vivente e in grado di adattarsi mediante l’evoluzione darwiniana».
Quindi, lei cosa ha proposto per superare l’impasse di un’ipotesi affascinante, come quella di Gaia, ma che ancora trova molti oppositori nel mondo scientifico?
«Contro l’ipotesi di Gaia (ma sarebbe meglio chiamarla teoria, visto che abbiamo prove sperimentali a suo sostegno), sono state avanzate critiche soprattutto in relazione al fatto che in essa sia implicito il concetto di “teleologia”, ovvero che si presupponga “un fine” nell’evoluzione del nostro pianeta. E prevedere un fine non è accettabile nell’attuale mondo scientifico. Questo approccio, per la maggioranza degli scienziati, rientra nella sfera religiosa. Inoltre, si è sempre sostenuto che l’assenza di selezione naturale a scala universale e di riproduzione planetaria fossero la conferma che Gaia, la nostra Terra, non possa essere considerata un organismo vivente autonomo e individuale. Io ho semplicemente analizzato nel dettaglio queste criticità della teoria e seguendo un ragionamento logico-deduttivo, accompagnato da alcuni esperimenti mentali (ovvero immaginando scenari assurdi e improbabili per comprendere meglio quelli più reali e probabili) e argomentazioni analogiche (cioè mediante associazioni funzionali tra differenti sistemi), ho dimostrato perché e suggerito come la nostra Terra, un pianeta formato dalla simbiosi, ovvero dal legame vitale e reciproco, tra la vita (la biosfera) e la materia inerte (l’atmosfera e la geosfera) che si adattano vicendevolmente, è viva in senso darwiniano».
E cosa rende, allora, Gaia viva?
«Nel mio articolo scientifico e nella mia teoria sostengo che Gaia possa andare incontro a situazioni di coesistenza o competizione con altri pianeti, esattamente come avviene tra gli individui di due specie diverse o anche della stessa specie. Questo dipende dall’adattabilità del suo patrimonio biologico (ovvero degli esseri che si sono evoluti dentro di lei per 3,5-4 miliardi di anni) rispetto a quello di altre biosfere riproduttive (ovvero di altri pianeti con vita nell’universo), dove potrebbe essere trasferito per mezzo delle tecnologie umane. Questa possibilità di coesistere o competere con altri “individui” planetari nell’universo dimostra che Gaia può, almeno potenzialmente, riprodursi ed evolvere nel senso darwiniano del termine».
In quale modo, dunque, la nostra terra potrebbe riprodursi?
«La nostra specie, come risultato di miliardi di anni di evoluzione e differenziazione simbiotica all’interno di Gaia, ha la possibilità e il privilegio di consentirne la continuazione, l’evoluzione e la riproduzione. Questo risultato può essere raggiunto solo se manterremo in buona salute la sua biodiversità e i suoi ecosistemi, vivendo in lei, e se continueremo a studiarli e proteggerli perché essi sono le componenti fondamentali e di supporto del corpo di Gaia. Inoltre, dovremmo investire e dedicare i nostri sforzi nella ricerca di altri pianeti gaiani (ovvero che potrebbero potenzialmente sostenere la vita) nell’Universo e, cosa più importante, nel progresso tecnologico per trasferire il genoma di Gaia su altri siti riproduttivi potenzialmente idonei (pianeti disabitati e/o potenzialmente abitati)».
Dopo le recenti scoperte della Nasa di pianeti simili al nostro in altri sistemi solari, secondo alcuni scienziati, ci sono almeno mezzo milione di pianeti gaiani solo nella Via Lattea. Questo significa che ci sono molti potenziali partner per Gaia sparsi ovunque, secondo la sua nuova idea, e che potrebbero essere adatti alla riproduzione del nostro pianeta?
«La nostra terra è a circa tre quarti della sua vita (1,75-3,25 miliardi di anni sono rimasti prima che il sole si riscaldi così tanto da eliminare ogni essere vivente), ma non siamo ancora in grado di trasferire le informazioni genetiche evolutesi in Gaia su altri potenziali pianeti. Per questo, abbiamo una ragione in più, forse quella fondamentale, per cui dobbiamo permettere a Gaia di vivere il più a lungo possibile: la nostra specie deve avere abbastanza tempo per sviluppare i mezzi tecnologici per raggiungere l’obiettivo della riproduzione planetaria. È necessario che le agenzie spaziali, insieme a team multidisciplinari composti da astrobiologi, ecologi, microbiologi, biochimici, etc. avviino al più presto un programma di ricerca specifico diviso in due fasi per cercare il mix più adatto, vario e geneticamente rappresentativo di microrganismi viventi sulla nostra Terra che possano sopravvivere, evolversi e riprodursi anche su altri pianeti. Questi cocktail di microorganismi (che potrebbero essere formati da archea e batteri metanogeni, estremofili, fototrofici e chemotropici, etc.) rappresentanti la vita così come si è evoluta qui, all’interno di Gaia, potranno essere trasferiti in ciò che ho chiamato “biofore” (dal greco: βίος, “vita” e φορά, “trasportare”, in altre parole: capsule trasportatrici di vita)».
In pratica, lei propone di «contaminare» l’universo con i microorganismi di Gaia?
«Esatto! E questo non deve sorprenderci o scandalizzarci perché è ciò che è sempre avvenuto e avviene in Natura: le specie si riproducono e diffondono il più possibile cercando di colonizzare nuovi territori per favorire la loro evoluzione, adattandosi a nuove condizioni, a volte anche estreme. Basti pensare che esistono forme di vita persino nel permafrost e a centinaia di chilometri di profondità negli oceani. La vita cerca sempre nuove strade e, se presupponiamo che Gaia sia viva, noi potremmo rappresentare il mezzo con cui riprodurla nell’universo».
Certo, questo richiederebbe uno sforzo tecnologico e innovativo enorme…
«Sarà necessario investire nello sviluppo di tecnologie in grado di trasferire le “biofore” su lunghe distanze. Questo trasferimento potrà essere, poi, diretto (se gli esseri umani saranno in grado di trasportare le biofore direttamente su altri pianeti) o indiretto (se la diffusione potrà avvenire solo per mezzo di dispositivi tecnologici) e passivo (se la dispersione sarà effettuata su pianeti-bersagli preselezionati, come semi di piante dispersi dal vento) o attivo (se le biofore verranno inviate su pianeti idonei già rilevati in precedenza dalle agenzie spaziali). Ad ogni modo, questi sforzi saranno ben ripagati se la preziosissima vita evolutasi sul nostro pianeta potrà continuare a esistere anche dopo che il nostro sistema solare sarà stato risucchiato in un buco nero dopo il collasso della nostra stella».
Questa ricerca appare davvero futuristica (non per nulla è stata pubblicata su una rivista di nome «Futures»), ma in molti sostengono che l’essere umano non potrà mai agire come uno spermatozoo per Gaia, più che per ragioni biologiche, per egoismo, perché le risorse economiche per creare un futuro di cui non possiamo far parte anche noi uomini non verranno mai investite da alcun paese. L’uomo non sacrificherà mai la propria possibilità di sfruttamento per far sopravvivere Gaia ed è quello che stiamo già vedendo. Per quanto rivoluzionaria, questa idea è molto in anticipo sui tempi, almeno rispetto al livello di coscienza umana.
«È vero, l’uomo sembra già preoccuparsi poco del mantenimento in vita degli ecosistemi e della biodiversità di Gaia, che l’idea di potere investire delle risorse scientifiche, umane ed economiche per far riprodurre il nostro pianeta e permettere alla sua vita di sopravvivere, pur se noi uomini non faremo certamente parte di quel futuro, sembra un’utopia. Eppure, la nostra specie può davvero agire come una cellula germinale, trasferire il genoma di Gaia e consentirne la riproduzione, oppure, se continueremo a crescere incondizionatamente e a consumare le risorse fondamentali per la sopravvivenza degli altri componenti della biosfera, essere la cellula cancerosa che danneggia Gaia, come se fossimo una sua malattia che le impedirebbe ogni possibilità di riproduzione (se escludiamo la diffusione accidentale della vita nell’universo dovuta agli impatti degli asteroidi)».
Quindi, che cosa possiamo, concretamente, fare noi per essere spermatozoi sani e non cellule malate di Gaia?
«Lo scienziato russo Vladimir Vernadsky (che con la sua idea di “Biosfera” ha fornito l’ispirazione per lo sviluppo della teoria di Gaia da parte di James Lovelock e Lynn Margulis, e per la mia conseguente idea di “biofore” in grado di permettere la riproduzione di Gaia) ha sempre ritenuto che la vita esistesse nell’universo prima di iniziare a prosperare sulla Terra, seguendo le leggi universali dell’evoluzione verso la Noosfera, e iniziò una speculazione sulla possibile origine extraterrestre della vita sul nostro pianeta (teoria nota come “panspermia”). L’ipotesi più accreditata sulla panspermia, fino ad ora, è che i meteoriti potrebbero aver portato la vita sulla Terra dallo spazio profondo. Nella mia teoria ho dimostrato che gli esseri umani possono, allo stesso modo, ma consapevolmente, agire come “cellule della panspermia”, permettendo a Gaia di riprodursi. Appare ovvio, però, che, come un qualunque organismo biologico, solo se un pianeta vivente è sano e differenziato è in grado di evolvere fino al suo stadio riproduttivo. Se la biodiversità e gli ecosistemi non verranno preservati intatti fino alla riproduzione della nostra Terra, la propagazione della vita “gaiana” non potrà procedere. La maggior parte degli scienziati concorda sul fatto che le attività umane durante l’Antropocene (cioè dall’avvento dell’uomo industrializzato) hanno accelerato il tasso di estinzione delle specie che sta causando la sesta maggiore estinzione mai avvenuta sulla Terra. Questa rapida perdita della biodiversità è prevalentemente causata dall’impatto dell’uomo sugli ecosistemi e legata alla sovrappopolazione, all’inquinamento, al sovrasfruttamento delle risorse naturali (ad es. con la deforestazione, la pesca eccessiva, ecc.), alle emissioni di gas serra (GHG), ecc. Numerosi studi hanno mostrato che molte specie animali e vegetali che vivevano sulla Terra prima dell’inizio dell’Antropocene sono già estinte, minacciando la base anche per la stessa esistenza umana. Inoltre, uno degli impatti più evidenti derivanti dall’attività umana è il recente aumento del quantitativo di anidride carbonica atmosferica (CO2) da 280 parti per milione (ppm) nell’era pre-in industriale (circa dal 1750) a più di 400 ppm nel 2017. Da queste considerazioni, consegue che l’Homo sapiens sapiens è una specie importante, capace persino di influenzare un’epoca geologica (e di assegnarsene un nome), ma non è la più importante per Gaia. Gli esseri umani potrebbero agire da cellule riproduttive che trasportano un genoma planetario specifico, ma è davvero improbabile che possano riprodursi (o sopravvivere disconnessi da Gaia) su un altro pianeta vivente. Come uno spermatozoo, che perde il suo flagello e acrosoma mentre entra nell’ovulo di un altro corpo e, quindi, cambia la sua identità, un essere umano può essere considerato come portatore dell’informazione genetica del suo corpo planetario (ovvero di Gaia) e non di sé stesso; come un mezzo più che di un obiettivo. Molte altre specie avrebbero potuto evolversi ed essere state in grado di agire come unità di propagazione riproduttiva, ciò che in effetti potrebbe accadere su altri pianeti “gaiani”».
Allora finalmente possiamo dare un senso biologico, ma anche filosofico, alla nostra esistenza individuale e come specie e smetterla di dire «meglio che l’uomo si estingua al più presto per salvare il pianeta»?
«Secondo lo stesso Vernadsky, gli esseri umani avrebbero prima o poi dovuto assumersi qualche nuova responsabilità come conseguenza naturale del progresso della scienza. L’attività umana, come fenomeno planetario, avrebbe raggiunto inevitabilmente ciò che Vernadsky propose con il concetto di Noosfera, ovvero “l’ultimo e più grande sviluppo morfologico nell’evoluzione della materia vivente”. Ciò che sostengo nella mia teoria è che il nostro (simbiotico) pianeta, trasferendo il suo genoma planetario mediante le biofore trasportate o inviate dalle sue cellule riproduttive umane, potrebbe iniziare la riproduzione delle “infinite forme bellissime”, come le definiva Darwin e con le quali condividiamo la nostra vita sulla Terra, su altri pianeti dell’universo. In questo modo, la Noosfera, considerata come “una forma di conoscenza scientifica e la sua applicazione tecnologica” potrà essere ritenuta il risultato di un fenomeno evolutivo e l’emergere dell’“uomo tecnologico” (ovvero dell’uomo moderno, di noi, insomma) come il risultato dell’evoluzione paleontologica. Alla fine, la nostra specie troverà un significato e un ruolo nell’universo in evoluzione se saremo in grado di proteggere la vita dentro Gaia e le daremo la possibilità di riprodursi al di fuori di essa».
Per concludere, lei ha recentemente dichiarato che nel formulare questa geniale e, al tempo stesso, provocatoria idea ha solo provato a salire sulle spalle di giganti come James Lovelock, Lynn Margulis, Albert Einstein e Konrad Lorenz per «guardare più lontano». Siamo certi, però, che questa sua teoria continuerà a far molto discutere e c’è già chi la definisce un genio o un pazzo. Lei in cosa preferisce identificarsi?
«Non saprei… il filosofo Aristotele diceva: “Non è mai esistito un genio senza un po’ di pazzia” e quindi credo che entrambe le componenti siano necessarie in alcuni casi. D’altronde, anche se questa teoria potrebbe sembrare ad alcuni abbastanza speculativa e filosofica, piuttosto che scientifica, mi piace ricordare le parole di Karl Jaspers secondo il quale “la ricerca scientifica diventa filosofica quando si spinge coscientemente verso i limiti e le origini della nostra esistenza”».
E il cerchio si chiude con qualche inquietante interrogativo. Questa complessificazione porta ad una coscientizzazione da parte dell’umanità che completa così la biosfera con la noosfera. Quell’involucro planetario delle capacità del pensiero umano che sta trasformando la vita stessa dell’umanità. Questo ulteriore sviluppo dell’uomo era stato descritto nel 1945 da Vladimir Vernadsky in «The biosphere and the noosphere» e ulteriormente sviluppato da Teilhard de Chardin a partire dal lavoro «Le phénomène humain» scritto tra il 1938 e il 1940.
La sua straordinaria visione profetica lo portò a vedere nelle esplosioni nucleari di Bikini «la nascita di un’umanità interiormente ed esteriormente pacificata» e l’avvento di uno «spirito della Terra». Purtroppo, su quest’ultimo punto, forse sbagliò, la storia successiva dell’umanità sta indicando un percorso diverso…
Ignazio Lippolis