Produrre, una corsa che vale la pena?

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I nostri governanti continuano ad educarci alla competizione, alla supremazia, al razzismo per continuare a gestire un potere che altrimenti dovrebbero passare di mano a coloro che hanno a cuore la pace e la sostenibilità. La solidarietà al posto dell’egoismo


È on line il numero 84 del nostro Trimestrale «Villaggio Globale». Quest’anno è stato dedicato alla «Produzione», un mantra della nostra epoca. Quasi un sinonimo di crescita. Solo ora, al tirar delle somme, ci si sta accorgendo che forse, il produrre, non è poi tanto obbligatorio, che forse il riciclo e l’economia circolare, portano più benessere. Nel numero pubblicato ci siamo occupati dell’Industria. L’attività tipica del produrre. A seguire riportiamo l’Editoriale del nostro Direttore.

 

L’industria, nell’immaginario collettivo, ha significato l’inizio della modernità, l’affrancamento dalla povertà contadina e dai condizionamenti meteorologici. Ha significato anche il passaggio dal villaggio alla città.

Insieme ai tanti benefici e alla spinta verso un passaggio epocale dei nostri stili di vita, molti anche gli aspetti negativi, celebrati nell’arte, nella musica, nei film. Come non ricordare «Tempi moderni» (Modern Times) del 1936 interpretato, scritto, diretto e prodotto da Charlie Chaplin?

Ma è con «Mon oncle» (Mio zio), un film del 1958 scritto, diretto e interpretato da Jacques Tati, ed ancor meglio con «Playtime» (Tempi di divertimento), del 1967, che Jacques Tati esprime la sua filosofia verso il modernismo spinto della vita quotidiana, gli stili di vita, l’uso di tecnologie e materiali che allora potevano sembrare escamotage umoristici ma che oggi rivestono la drammaticità di sindromi, inquinamenti, problematiche anche tragiche.

Stiamo parlando di «visioni» di 51-60 anni fa! E si accentua la meraviglia dell’aggravarsi dei problemi e, soprattutto, della «cecità» persistente nel confronto fra tesi diverse per tentare un cambiamento di rotta.

Ancora velatamente emerge il ricatto occupazionale, la prefigurazione di un benessere economico, la contrapposizione fra la certezza e l’incertezza…

Nessun discorso su una visione diversa della vita, sulla possibilità di uno sviluppo armonico e non di una crescita soffocante. Correre, comprare, vendere, produrre. È qui il nodo di una visione del mondo che per giustificare il proprio cammino ha bisogno di negare, uccidere, trasformare… per stare nelle «spese».

Siamo ancora ingabbiati in schemi vecchi che ci stanno portando all’autodistruzione. Come se, all’alba dei prossimi 8 miliardi di abitanti sul Pianeta, si abbia bisogno di bombe atomiche, armamenti sofisticati, muri e trincee per vivere bene. Come se le popolazioni del mondo non vogliano tutti la stessa cosa: la pace.

E i nostri governanti continuano ad educarci alla competizione, alla supremazia, al razzismo per continuare a gestire un potere che altrimenti dovrebbero passare di mano a coloro che hanno a cuore la pace e la sostenibilità. La solidarietà al posto dell’egoismo.

Serve una planetaria riconversione verso modelli di sviluppo che mettano al primo posto il benessere, quello vero, e non la ricchezza economica.

Il nostro mercato, così, sarebbe di 8 miliardi…

Ma per raggiungere quest’obiettivo di vero benessere vanno tolti i veli dell’ipocrisia, cancellare le parole equivoche che si sono impossessate di significati che non le appartengono.

È necessario che ambiente, ecologia, verde, biologico tornino a significare quello che vogliono dire. Serve che etica sia veramente etica e non scoprire, dopo, che industrie blasonate, magari venerate come modelli, in realtà smaltivano rifiuti in modo irregolare e producevano con l’impiego di sostante tossiche.

Vivere del lavoro deve essere possibile e non deve più essere tollerato che vada avanti la distruzione del pianeta. Dopo c’è solo morte e il deserto. Per tutti.

Ignazio Lippolis