Non solo latte, il ruolo eco della pastorizia

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Un prato destinato al pascolo svolge: cattura di CO2, filtrazione delle acque, riduzione del rischio incendi, riduzione della biomassa erbacea nei boschi ai fini anti incendio, presenza di insetti impollinatori utili all’agricoltura o per la produzione di miele, produzione di erbe officinali, regolazione e riduzione del dilavamento del terreno dai suoli scoscesi ed altro ancora

Pecore e Parchi. Parafrasando lo splendido libro di Valerio Giacomini e Valerio Romani «Uomini e Parchi» del 1982 che ha formato ed orientato tanti operatori e gestori di aree protette in Italia e non solo, potremmo così intitolare un ipotetico studio sul rapporto quasi indissolubile tra ovini e protezione della natura principalmente nella Regione biogeografica mediterranea. E, nell’articolare ipotetici capitoli, ci viene in soccorso quel che sta accadendo in questi giorni in Sardegna, dove la protesta dei pastori di quell’isola per ottenere un prezzo del latte ovino più remunerativo pone all’attenzione del grande pubblico la rilevanza economica ed ambientale di un’economia considerata «marginale»: quella legata alla pastorizia nomade o seminomade.

Vi è un’indissolubile legame tra l’allevamento ovino e la conservazione di alcuni habitat naturali (o seminaturali), in special modo nel Mediterraneo. Ne è esempio la prateria arida che contraddistingue alcune zone di rilevantissimo interesse conservazionistico: dalla penisola Iberica ai Balcani, passando per l’Italia. Qui, nel nostro Paese, quella prateria (o pseudosteppa mediterranea) è distribuita con maggiore estensione soprattutto tra Sardegna (nel mai decollato Parco nazionale del Golfo di Orosei e del Gennargentu), appunto, Basilicata, Puglia (in particolare nel Parco nazionale dell’Alta Murgia), Calabria e Sicilia. Si tratta di habitat considerati dall’Unione europea prioritari, e perciò tutelati, ai fini della conservazione di una serie di specie vegetali ed animali, in particolare di uccelli selvatici legati a questi spazi aperti con vegetazione erbacea e con la quasi totale assenza di arbusti o alberi.

Ebbene, il rapporto tra presenza ovina e questi habitat è talmente stretto che la riduzione del pascolamento determina la graduale loro scomparsa con un’evoluzione vegetale perlopiù verso l’affermazione di arbusti e poi, eventualmente, alberi. Insomma, gli spazi aperti connotati da una ricchezza floristica straordinaria, selezionata proprio da quell’attività, e da una biodiversità ai massimi livelli, man mano si chiudono riducendo di molto questi indici.

Il pascolo ovino, quindi, rende un servizio (ecosistemico) straordinariamente importante per la conservazione di questi habitat e sol per questo gli allevatori andrebbero compensati adeguatamente da parte della comunità che ne usufruisce.

A quanto potrebbe ammontare questo compenso per i servizi ecosistemici resi dagli allevatori e dalle loro pecore, lo si può calcolare abbastanza agevolmente partendo dalle funzioni che un suolo naturale di quel tipo svolge: cattura di CO2, filtrazione delle acque, riduzione del rischio incendi, riduzione della biomassa erbacea nei boschi ai fini anti incendio, presenza di insetti impollinatori utili all’agricoltura o per la produzione di miele, produzione di erbe officinali, regolazione e riduzione del dilavamento del terreno dai suoli scoscesi ed altro ancora.

Esistono ormai modelli per stabilire a quanto ammonta il «valore» di questi servizi. Li si applichi, quindi, pagando queste prestazioni con compensi veri e propri oppure intervenendo sulla fiscalità, anche locale, generando vantaggi per chi offre alla comunità la protezione e la riproduzione di beni inestimabili ed irriproducibili.

Non è evidentemente un caso, poi, che la gran parte dei suoli destinati al pascolo ovino sia tutelata dalla presenza di aree protette nazionali e regionali e da Siti Natura 2000 dell’Unione europea.

Quel che dovrebbero fare gli enti di gestione di queste aree dovrebbe essere esattamente quel che si è prima rappresentato, ponendosi come pagatori per i servizi resi da allevatori e greggi ma anche da intermediari con le Amministrazioni pubbliche (nazionali e locali) che gestiscono la fiscalità per creare un circuito virtuoso dove, a quel punto, il prezzo del latte di pecora risulterebbe un elemento tutto sommato non principale per la formazione del reddito.

Fabio Modesti