Una storiaccia all’italiana: i fanghi di depurazione

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Quella di decretare solo sui limiti, e in emergenza, è stata una scelta discutibile. Necessaria? Probabile. Lungimirante? Non direi. Dannosa per i suoli e la salute? Alla lunga non si può escludere. Efficace? Molto più per gestori senza troppi scrupoli. Completa? No. Sostenibile? Assolutamente no. Nel decreto si poteva aggiungere una parte prescrittiva che contenesse già quegli elementi di «prevenzione» utili. Ora attendiamo la promessa riforma organica della materia

La questione dell’utilizzazione dei fanghi di depurazione in agricoltura, e più in generale del loro destino, continua a tenere banco in diversi ambiti, dal mondo agricolo al settore del trattamento acque, da settori tecnologici industriali, alla sanità, dalla ricerca all’ambientalismo. E alla politica, ovviamente.

Penne di notevole «spessore» sono state svuotate d’inchiostro, riempiendo pagine di tutti i possibili mezzi di comunicazione, con le più disparate considerazioni e conclusioni. Sono state liberate, in alcuni casi, anche le più sfrenate fantasie evocative di scenari ora catastrofici, ora rassicuranti, talvolta veramente fantascientifici. E anche il sottoscritto ci ha messo del suo: come resistere, del resto, ad un così invitante dibattito, possedendo la presunzione di «avere qualche idea in proposito»?

Qui provo a trattare l’argomento per i lettori di «Villaggio Globale», chiarendo subito i presupposti di approccio al problema, senza i quali è possibile tirar fuori tutto e il contrario di tutto, ma aggiungendo solo una dannosa confusione, di cui non si sente affatto il bisogno.

Il criterio da applicare in questa analisi non può che essere comunque quello della sostenibilità, nella sua classica accezione ecologica, sociale e, perché no, anche economica; questo per scartare da subito strade sbagliate in quanto non sostenibili.

E iniziamo dalla prima questione, ovvero se questi fanghi devono necessariamente prodursi o no.

Fanghi o non fanghi

Fino a ieri si sarebbe detto di sì, ovvero che tutti i processi di depurazione delle acque urbane producono una certa quota più o meno standard di questo materiale, come risultato del trattamento (circa 2,5 litri al giorno per ognuno di noi):

  • una prima parte è costituita da ciò che i depuratori tolgono all’acqua reflua per «pulirla» del suo «sporco solido» (fango primario);
  • una seconda parte è fatta dei batteri «spazzini» che abitualmente si allevano nei depuratori per pulire l’acqua dalle sostanze disciolte, e che facendolo crescono in numero (fango secondario).

Quindi bisognava sempre separare queste frazioni di fango dall’acqua e gestirle come materiale a parte.

Oggi, invece, si sente parlare di ricerche su processi depurativi che potrebbero non produrre affatto fanghi. Ma siccome in natura nulla si crea e nulla si distrugge, siamo costretti ad attendere solidi risultati scientifici per capire bene come ciò accade, ovvero se veramente il problema sembrerebbe risolto grazie a superbatteri che demoliscono tutto ma non crescono affatto. In tal caso è evidente che, per il citato principio di conservazione della materia, la massa di carbonio rimossa da questi «superspazzini», se non rimane nell’acqua a scapito della depurazione, viene pompata in atmosfera. E questo qualche problema di coerenza con lo stop all’emissione di gas climalteranti ce lo crea.

Qualche cosa di simile, anche se meno «spaziale» come tecnologia, si otterrebbe con l’evoluzione dei così detti processi naturali, come la fitodepurazione, oggi applicabili anche ai reflui tal quali: processi autosostenuti che costituiscono di fatto ecosistemi completi, la cui manutenzione si fa estraendo prevalentemente materia vegetale utilizzabile e non problematiche (e più inquietanti) masse fangose.

In ogni caso parliamo ancora di sperimentazioni o soluzioni per piccole comunità che, ove mai tradotte in processi diffusi in larga scala sostitutivi degli attuali, richiederanno molti anni; nel frattempo ragioniamo con le produzioni di fanghi classiche, che poi sono quelle da gestire oggi. E sono quantità enormi: per un totale, solo in Puglia, di circa 380.000 tonnellate l’anno.

Secondo principio di sostenibilità biogeochimica sarebbero prevalentemente sostanza organica, nutrienti e minerali vocazionalmente destinate a chiudere i cicli del suolo, mantenendolo vivo e fertile, oltre che attivo per i servizi ecosistemici che fornisce e contrastandone la desertificazione. Come il naturale destino delle deiezioni e dei cascami biologici di tutti i viventi terrestri.

Ma il condizionale è d’obbligo, in questo caso.

Già, perché questo destino sarebbe perfetto se non giocassero a suo sfavore due importanti fattori:

  1. la loro attuale composizione, «sporcata» da tutto ciò che non è biologico o è nocivo per qualità e concentrazione, a causa di tutto quello che finisce nei depuratori tramite le fogne, e una certa spregiudicatezza di alcuni attuali smaltitori, soprattutto del nord;
  2. gli appetiti speculativi di settori industriali nuovi rispetto ai grossolani smaltitori attuali, che vorrebbero lucrare dal loro «trattamento più complesso» (e le due cose sembra vadano perfettamente d’accordo).

I due fenomeni citati sono alla base di spinte fortissime a stoppare del tutto la pratica ancora prevalente all’impiego agronomico di questo materiale, consentito da una legge vecchia di 28 anni e poco aggiornata (D. Lgs 99/92), oggi carente in termini di precise definizioni di qualità per la salvaguardia del suolo, delle falde sottostanti e dei prodotti alimentari coltivati su quei suoli.

Sono sorte così due scuole di pensiero (ma anche di parole, opere e qualche omissione):

  • una unisce oggettivamente il fronte dei «preoccupati» a quello degli «speculatori» (con l’ovvio distinguo etico e morale, ovviamente) in un atteggiamento molto severo verso l’impiego ambientale dei fanghi;
  • l’altra accomuna chi è disposto anche ad accettare qualche vago rischio ambientale, pur di scongiurare trattamenti distruttivi (incenerimento, inertizzazione, produzione di biocarburanti, ecc.) di quella che viene considerata una preziosa (ed economica) risorsa per il terreno, e gli attuali smaltitori più disinvolti (anche qui i distinguo sono evidenti).

In mezzo una sparuta truppa di appassionati della «complessità» che propalano un ragionamento intricato, dall’aspetto del vaso di cristallo sospeso fra due incombenti rocce granitiche, e propugna un approccio tanto corretto quanto difficile da attuare, come vedremo. Ma prima un pochino di storia recente.

Un po’ di storia

In questo scenario di confronto, che procedeva alquanto sornionamente fra mostre, convegni e dibattiti senza gravi conseguenze, avviene che una sentenza della Corte di Cassazione del 2017 si affaccia al problema fissando un limite per gli idrocarburi più lunghi (50 mg/Kg) perché i fanghi si possano utilizzare in agricoltura, di fatto aggiungendolo ai limiti della citata norma del 1992 che non contemplava tale parametro, se non in forma indistinta e qualitativa insieme a tutte le sostanze che potrebbero arrecare danno.

Praticamente nessun fango italiano rientra in quel limite, però, prima di tutto perché il metodo analitico ufficiale non è specifico per gli idrocarburi di origine minerale e misura anche grosse molecole naturali, di origine animale e vegetale, del tutto innocue se non addirittura benefiche per il suolo, ma che concorrono a fornire un valore analitico del parametro molto più alto del limite indicato.

Scoppia la buriana, con grida di allarme da tutta Italia, compreso dall’Acquedotto pugliese che invece ha grosse quantità di fango «buono» (tanto che lo ritirano anche in Lombardia per migliorare la miscela dei fanghi locali) e che non sa più dove accumulare.

Il ministro Costa deve cercare di sbrogliare la questione, che sta diventando esplosiva; parte allora una corsa all’introduzione nella legge per Genova di un articolo specifico (Art. 41), che però, nel corso della sua elaborata e contestata scrittura, si arricchisce man mano di nuovi parametri e di nuovi diversi limiti analitici, fino a includere, oltre agli idrocarburi portati a un limite probabilmente più elevato del necessario, anche metalli pesanti, solventi e i temutissimi Diossine e PCB.

Apriti cielo! Un delirio di tesi e controtesi, che rafforzano la polarizzazione degli schieramenti, secondo le scuole di pensiero citate sopra (e con in mezzo i vasetti di cristallo, sempre più fragili).

I detrattori del provvedimento additano i limiti troppo permissivi per i composti più pericolosi, paventando danni e accumuli al suolo e lungo la catena alimentare, fino a rappresentare un serio rischio per gli ecosistemi e per la salute umana.

Preoccupazioni per nulla infondate, in generale, ma che si basano su un equivoco di fondo: si confronta il valore limite fissato per il fango utilizzabile in agricoltura con quello che definisce un suolo inquinato o meno, evidenziando tutti i valori nei fanghi che sono già superiori ai limiti del suolo (Allegati alla parte V – D. Lgs 152/2006, Allegato 5, Tab 1, Colonna A) o ne sono prossimi.

Lo scenario evocato sarebbe quello di suoli che, subito dopo l’impiego di questi fanghi, dovrebbero essere classificati come contaminati, quindi interdetti alle produzioni agricole e soggetti a obbligo di bonifica. Secondo tale visuale, i grandi smaltitori di fango si potevano allegramente liberare di tutti quei materiali utilizzando la «discarica diffusa» dei terreni intorno, e chi s’è visto s’è visto.

Il possibile paradosso non era certo sfuggito agli estensori dell’articolo 41, che avevano però sviluppato un diverso ragionamento, certamente non insensibile alle esigenze degli smaltitori del Nord, ma non così spregiudicato come sembrava. In sostanza bisognava considerare che il fango non viene (meglio, non dovrebbe) essere semplicemente gettato a strato sui suoli di destinazione, ma «applicato» come suol dirsi, secondo «buona pratica agricola». In altre parole miscelato col terreno, con l’effetto di una grossa diluizione del suo contenuto; in questa maniera i composti e gli elementi incriminati contenuti nei fanghi si riteneva non potessero in alcun caso raggiungere nel suolo i livelli soglia di contaminazione, come temuto. A conforto studi e documenti internazionali che lo dimostrerebbero in maniera rigorosa (riferimento nella scheda tecnica).

Nonostante le opposizioni, l’articolo 41 passa così com’è nell’attuale versione, e da allora cala il silenzio.

Che cosa dobbiamo temere

Ma che cosa dobbiamo temere veramente che accada adesso?

In quanti anni di questa pratica si raggiunge il limite di contaminazione del suolo? Ma lo raggiungiamo sicuramente?

Nella scheda tecnica è riportato un esercizio nel quale mi sono cimentato ipotizzando una scala di combinazioni fra diversa qualità del fango, diversa base di partenza di qualità del suolo, applicazione delle quantità di fango massime consentite per ettaro e diversa pratica di impiego, dal semplice spandimento e abbandono in superficie all’applicazione miscelata con 30 cm di suolo (la buona pratica sarebbe 50 cm). Il parametro scelto è quello forse più critico a causa della sua nocività e persistenza ambientale: la somma Diossine + PCB. Ne emerge una forchetta estremamente ampia, che va da un limite minimo teorico di 15 anni a uno massimo in cui il limite di legge non si raggiunge mai.

Sento di poter escludere il primo caso, a cui darei una probabilità bassissima, mentre il secondo sembra possibile, a condizione che si adottino le misure che indico di seguito, dandoci tutto il tempo per modificare i nostri sistemi produttivi, di consumo e depurazione tanto da chiudere senza rischi i cicli della materia.

Comunque ci stiamo concentrando solo sulla parte terminale di un processo, complesso e articolato, senza ampliare la visuale e mettere a fuoco il vero problema.

Tanto per iniziare bisogna considerare, lo ribadisco, che se i fanghi non vanno in agricoltura, vanno in discarica o, molto più probabilmente, bruciati o trasformati in combustibili: emissione di micro e macroinquinanti, produzione di ceneri pericolose e polveri di abbattimento ancora più pericolose; comunque emissione di CO2. E addio economia circolare e recupero di sostanza organica dei terreni.

Poi va ricordato ciò che sporca i fanghi: i reflui industriali che arrivano ai depuratori, ma anche tanti prodotti e comportamenti di uso comune domestico, che nulla hanno a che vedere con la materia biologica. Infine, lo abbiamo già detto, che delle due tipologie di fango prodotto dagli impianti solo il primario rischia di «sporcarsi» significativamente; il secondario molto meno. Quindi, un approccio serio e ragionato all’intera problematica, che il Ministero pure promise all’epoca dell’emanazione del famigerato Art. 41, richiederebbe:

  1. Segregare gli scarichi industriali da quelli civili.
  2. Iniziare a promuovere la riformulazione dei prodotti dannosi di uso domestico e norme disincentivanti i comportamenti sociali sbagliati (es. cambio olio auto comprato al supermercato e sversamento dell’esausto nel water).
  3. Prescrivere la separazione gestionale dei fanghi primari (più sporchi) e fanghi secondari.
  4. Prescrivere stringenti limiti di valenza ambientale e sanitaria scientificamente definiti, ma supportati da nuovi metodi analitici più accurati e specifici.
  5. Prescrivere la corretta applicazione dei fanghi al suolo (non lo spandimento in superficie e l’abbandono).
  6. Costruire un efficace sistema di gestione e controlli dell’intera filiera, nonché un piano di monitoraggio progressivo degli effetti della pratica del riuso su suolo e ambiente.

Quella di decretare solo sui limiti, e in emergenza, è stata una scelta discutibile.
Necessaria? Probabile. Lungimirante? Non direi. Dannosa per i suoli e la salute? Alla lunga non si può escludere. Efficace? Molto più per gestori senza troppi scrupoli. Completa? No. Sostenibile? Assolutamente no. Nel decreto si poteva aggiungere una parte prescrittiva che contenesse già quegli elementi di «prevenzione» utili.

Ora attendiamo la promessa riforma organica della materia, sperando che parta dall’origine e ponderi bene gli impatti ambientali delle scelte che si operano.

 

Massimo Blonda, Biologo ricercatore Cnr