È il tema dell’edizione 2019 de I Colloqui di Martina Franca. «È più che mai necessario ricordarci che il ruolo degli individui nella società è quello della responsabilità di comprendere che uso fare della conoscenza, della scienza, ricordandoci che stiamo andando in un mondo sconosciuto e non sappiamo se sopravviveremo. Per questo tutta la tecnologia, la velocità, la connessione, devono essere canalizzati per cooperare come genere umano»
Viviamo immersi e permeati all’interno di sistemi sempre più complessi. Modelli di riferimento economici e sociali che si fa sempre più fatica a gestire e soprattutto che rischiano di diventare instabili quando raggiungono livelli troppo complessi, rischiando di perdere la capacità di sopravvivere ai cambiamenti. Il rischio per l’uomo è di restarne schiacciato.
È stato questo il punto di partenza per l’edizione 2019 de I Colloqui di Martina Franca, «Semplinnovare. Relazione tra la complessità del sistema economico, resilienza, innovazione tecnologica e sociale», ultimo appuntamento del triennio che ha sviluppato il tema «2030 imprese possibili».
«Quotidianamente non ci rendiamo conto di quanto viviamo immersi nella complessità», ha messo subito in evidenza Vito Manzari, ideatore de I Colloqui e già presidente del consorzio Costellazione Apulia che li organizza ormai da sei anni, in apertura dei lavori; con l’attuale presidente del consorzio, Vincenzo Barbieri, che chiarisce come «La vera innovazione è riuscire a semplificare la complessità».
Lo scenario disegnato dai nove relatori ha tracciato strategie e immaginato futuri prossimi per le imprese, le città e l’uomo inteso sia come cittadino sia come lavoratore, imprenditore o amministratore della cosa pubblica. Il tutto tra le invasioni dei NasoNaso social clown ormai presenza imprescindibile ai Colloqui.
La rovina è sempre rapida
«La crescita è lenta, ma la rovina sempre molto rapida» ha spiegato Ugo Bardi, docente di chimica all’Università di Firenze e divulgatore scientifico sui temi connessi di energia e cambiamenti climatici, che ha spiegato un modello chiamato «l’effetto Seneca» una curva (definita anche dirupo o picco) che tende a salire con una certa difficoltà, ma a precipitare in modo molto più precipitoso. «I sistemi collassano quando raggiungono il massimo della complessità — ha detto Bardi — così come le industrie sovrasfruttano le loro risorse e poi crollano. Non solo, mentre la crescita è un processo lineare, la frattura, in quanto sistema complesso, non è prevedibile e si manifesta con salti irregolari».
Una imprevedibilità che può essere particolarmente grave e distruttiva se si prendono ad esempio i sistemi elettrici che alimentano gran parte delle nostre attività. L’effetto farfalla secondo cui se cade un albero in Svizzera, gran parte dell’Italia rischia di rimanere senza corrente elettrica, non è una semplice teoria matematica, ma una possibilità che si è già verificata, evidenziando tutte le fragilità di un sistema che è il più complesso e fragile al mondo.
«Quello che si può fare è solo cercare di minimizzare gli effetti che possono creare la disfunzione in un sistema elettrico — ha sottolineato Emanuele Ciapessoni, fisico esperto di resilienza dei sistemi elettrici — perché sarebbe impossibile rendere il sistema completamente sicuro. Costerebbe troppo, anche se nello stesso tempo non ci potremo permettere neanche di cadere nel dirupo di Seneca».
Servono città resilienti
Dalle imprese ecco la sfida si sposta nelle città dove spesso i livelli di complessità significano livelli più bassi per qualità della vita o addirittura generare conflitti. Piero Pelizzaro è l’unico manager in Italia che si occupa del progetto città resilienti e lavora per il Comune di Milano. «Il Comune di Milano è stato il primo a votare sull’onda dei venerdì di protesta innescati dall’attivista Greta Thunberg un piano di adattamento per l’emergenza climatica. Siamo una città che cresce di 30mila persone all’anno, dove sono state registrate negli ultimi anni +35 notti tropicali e temperature urbane sempre più alte. Il clima aumenta le disuguaglianze sociali perché allarga in maniera inversa la possibilità di accedere a servizi di mitigazione e nello stesso tempo ha forti ricadute economiche nella produttività, che significa rischiare di intaccare il primato di essere la locomotiva italiana, dove si produce l’11% del Pil nazionale. Ecco perché è indispensabile rendere le città più resilienti e lavorare sull’approvvigionamento idrico, il verde pubblico e l’abbassamento delle temperature urbane».
«I conflitti ambientali hanno sempre a che fare con l’istinto di sopravvivenza — spiega Marica Di Pierri attivista tra i fondatori del Centro di documentazione sui conflitti ambientali di Roma —. Le comunità che si sentono escluse dai processi decisionali si attivano, spesso acquisendo più competenze degli stessi esperti, pretendendo giustizia sociale ed ambientale. È il superamento della sindrome Nimby, le comunità non chiedono solo di spostare il problema ma dettano alternative. Sui circa 160 casi di conflitti ambientali in Italia tre sono i filoni principali: l’insediamento e l’attività industriale, la gestione dei rifiuti e la produzione di energia».
La complessità usata per confondere
E quando le comunità si ribellano può nascere di tutto, come ha evidenziato Massimo Lettieri, fondatore della cooperativa RiMaflow nata dalle ceneri di una industria chiusa a Trezzano sul Naviglio. Oggi RiMaflow, attraverso l’occupazione dello spazio-fabbrica ha dato vita ad una economia informale, dove gruppi di persone tentano di resistere reinventandosi in autogestione lavori, reddito e dignità. La storia di Massimo, che ha pagato duramente la sua scelta anche con il carcere, ha avuto come contr’altare quella di Marco Cabassi presidente e azionista del gruppo Bastogi di Milano, la più antica azienda quotata in borsa da 1863, con una storia tutt’altro che facile, anzi per alcuni anni sempre sull’orlo del fallimento.
«Spesso la complessità è utilizzata da pochi per confondere e come strumento di potere» è emerso durante il dibattito, ed ecco perché è tanto più essenziale per il cittadino conoscerne i meccanismi e smontare certi processi. «Semplificare la complessità può significare liberarci delle cose inutili, condividere le informazioni, educarci al pensiero critico dove i processi culturali possano avere il sopravvento».
Cultura e comunicazione, quindi, come armi contro la complessità. «Prenderci cura dell’altro cambia tutte le prospettive — ha messo in evidenza la Di Pierri — ci dobbiamo sforzare di sciogliere il nostro IO nel NOI».
«I veri innovatori sono quelli che sanno vedere le connessioni tra i vari sistemi e trovare soluzioni — fa eco Boian Videnoff direttore dell’orchestra filarmonica di Mannheim — e con la giusta educazione tutti possono diventate innovatori».
Cultura, educazione, scelte etiche è questo che può evitare all’uomo di precipitare vittima della complessità che lui stesso ha creato. «Gli esseri umani hanno la complessità nel loro cervello — ha spiegato Giovanni Semeraro — docente di informatica all’Università di Bari e che da anni porta avanti ricerche sull’utilizzo di tecniche di intelligenza artificiale – ma abbiamo anche gli elementi per riuscire a semplificare».
Governare la tecnologia
«La tecnologia va governata per evitare che sorgano conflitti — ha concluso Vito Albino, ingegnere, docente al Politecnico di Bari e nel comitato scientifico dei Colloqui —. Oggi stiamo evolvendo in un mondo sconosciuto dove non sappiamo se sopravvivremo. Per resistere dobbiamo incanalare tutta la nostra energia nella cooperazione. Per sopravvivere come specie dovremmo diventare esperti di fallimenti, trarre vantaggio dagli errori del sistema. Come si gestisce la complessità ai tempi del collasso? Senza il timore di trasformare tutto e senza timore di infrangere regole false. Il punto è che la tecnologia avanza e che la società non tiene il passo, ne è spiazzata. Questo è stato il tema dei Colloqui 2019. Il cambiamento tecnologico è autonomo dalla società, apprendendo che si arriva a un numero tale di connessioni che non si riescono più a governare. Il primo istinto che abbiamo, appunto, è provare a governare l’evoluzione tecnologica, perché essa è solo uno strumento. Ma spesso, ormai, l’innovazione è di per sé stessa un fine e con questo dobbiamo confrontarci, perché questo duplice ruolo ci spinge in territori non tracciati, sconosciuti. Per questo è più che mai necessario ricordarci che il ruolo degli individui nella società è quello della responsabilità di comprendere che uso fare della conoscenza, della scienza, ricordandoci che stiamo andando in un mondo sconosciuto e non sappiamo se sopravviveremo. Per questo tutta la tecnologia, la velocità, la connessione, devono essere canalizzati per cooperare come genere umano. Altrimenti i Colloqui di Martina Franca 2119 saranno tenuti dalle formiche».
Rita Schena