Si continui l’opera di distruzione degli habitat e dell’assottigliamento della biodiversità. Poiché questo fenomeno è globale, non può sfuggire che la contemporanea comparsa di movimenti nazionalisti e primatisti, non appaia come una gigantesca arma di distrazione di massa. Per questo proponiamo questo post di Franco Tassi a favore degli alberi. Unica arma che ci è rimasta per aiutare il pianeta, noi e i nostri nipoti, dopo tutti i danni che stiamo facendo
È sconvolgente come di fronte al bollettino di guerra che ogni giorno ci presenta il pianeta noi si continua ad ignorare ogni cosa e, soprattutto in Italia, si continui l’opera di distruzione degli habitat e dell’assottigliamento della biodiversità. Poiché questo fenomeno è globale, dal Brasile agli Usa, dalla Siberia all’India e all’Australia, non può sfuggire che la contemporanea comparsa di movimenti nazionalisti e primatisti, contro emigrati, nomadi, poveri ecc. non appaia come una gigantesca arma di distrazione di massa. Speriamo di non doverci svegliare come all’indomani della fine della seconda guerra mondiale e scoprire sgomenti nuove carneficine e il deserto appena fuori i muri che nel frattempo abbiamo costruito.
Per questo proponiamo questo post di Franco Tassi a favore degli alberi. Unica arma che ci è rimasta per aiutare il pianeta, noi e i nostri nipoti, dopo tutti i danni che stiamo facendo.
Mentre in gran parte del mondo ci si incomincia a render conto di quali siano le vere cause del disastroso cambiamento climatico in cui stiamo precipitando, e si tenta finalmente di correre ai ripari, l’Italia un tempo culla di civiltà continua a percorrere una strada diversa, in senso diametralmente opposto a ciò che logica, buonsenso e scienza consiglierebbero.
Anziché proteggere alberi, e piantarne, si affanna a tagliarne quanti più possibile, affetta da quel terribile VirusTreeKill, che scatena attacchi incontenibili e contagiosi di «dendrofobìa».
Né ascolta l’Ipcc (International Panel on Climate Change), che dal 2018 esorta a bloccare la deforestazione, proteggere le selve naturali e piantare alberi su vasta scala, per assorbire l’eccesso di CO₂ oggi presente nell’atmosfera, immagazzinandolo nell’ecosistema.
E non considera che l’Uicn (Unione Mondiale per la Natura) aveva lanciato già nel 2011 con la Germania la «Sfida di Bonn», alla quale hanno aderito 59 Stati, per restaurare nei territori degradati 150 milioni di ettari di foresta entro l’anno 2020, e 350 entro l’anno 2030.
Poco importa, poi, che la Cina dal 2015 stia impiantando, per combattere la desertificazione, una muraglia di alberi lunga 500 km. O che in Africa, all’altezza del Sahel, nello stesso anno sia partita dal Senegal la creazione di una barriera verde trasversale lunga 7.500 km, che dovrà raggiungere l’Etiopia. Dove nel frattempo sono stati messi a dimora, battendo ogni record, ben 150 milioni di alberi.
Non smuove i nostri tetragoni «affettatori» di legno neanche il fatto che in India nel 2017, in una sola giornata, grazie al contributo di un milione e mezzo di volontari, siano stati piantati 66 milioni di alberi. Né li scuote minimamente l’Australia, che nel 2019 si è impegnata a piantare un miliardo di alberi, per salvare il clima in quel Paese sempre più minacciato dai gas-serra e dalla desertificazione.
L’Italia invece avanza imperterrita verso il baratro, indifferente alle ondate di calore, alle bombe d’acqua e alle esplosioni di grandine, alle alluvioni di fango, agli sbalzi meteo tra estremi climatici, alla perdita dell’effetto termoregolatore della foresta e alla soppressione delle molte funzioni benefiche degli alberi e dei viali urbani. Si crogiola beata nel culto della sua straordinaria «green economy» che sta distruggendo il Paese, e nell’illusione che il manto verde del pianeta possa essere coltivato come un bel campo di grano, e rappresenti davvero, come il sole e il vento, una comoda «risorsa rinnovabile». Parola magica, ovvero «password», grazie alla quale si crede di poter superare ogni barriera, e di penetrare nel sacro tempio dell’economia ecologica, o circolare…
Ma qualcuno dovrebbe spiegare, a questo popolo di frenetici tagliatori, che le vere foreste non sono affatto risorse rinnovabili, nel breve e medio periodo. Che il loro valore trascende mille volte quello del legname ricavabile. Che sul loro equilibrio dinamico si fonda la vita sulla terra. Che continuando a devastarle, sarebbe illusorio considerarle risorse durevoli e compatibili con la perpetuazione dell’ecosistema.
Concludendo, sarebbe assurdo continuare selvaggiamente a deforestare, abbattere alberi o massacrarli con potature, scorticare il suolo, preparare aridificazione e desertificazione, cancellare il manto verde del pianeta, accelerare con ogni mezzo il mutamento climatico… Pretendendo, oltretutto, che questa sia una meravigliosa «economia sostenibile».
Inutile esortare questi forzati del taglio a fermarsi, e a riflettere, spiegando loro le ragioni per cui, continuando così, si sprofonderà sempre più nel vortice climatico, con gravissime conseguenze per tutti. «Cosa dite mai? Volete tornare alla candela?», risponderanno, «Non si deve fermare il progresso! Del resto, questo “climate change”, o mutamento del clima, non è scientificamente provato». E così, tutto resterà come prima…
Eppure, il primo a denunciare il pericolo del riscaldamento del clima era stato, nel 1896, lo scienziato Svedese Premio Nobel Svante Arrhenius. Ma la comunità internazionale, dopo esitazioni e resistenze, riconobbe che aveva ragione solo nel 1988, quasi un secolo dopo.
Per capire il valore delle foreste, dovremo quindi aspettare ancora un altro secolo?
Franco Tassi