Nei tempi remoti, il rapporto uomo-ambiente era in equilibrio, c’era il tempo che si dava alla natura di riparare i danni. Ora il rapporto è invertito, e da qui l’ingegnerizzazione si sostituisce alla natura
La naturale tendenza dell’uomo di forgiare se stesso e la realtà circostante in base alle proprie necessità, in fondo la molla che ci ha fatto progredire ed arrivare fino a questo punto, sta attraversando un momento critico. Si ha l’impressione che la spinta al nuovo stia superando la capacità dell’ambiente di reggere le trasformazioni e principalmente perché le trame del nostro pianeta sono ancora largamente da esplorare.
Soprattutto i meccanismi dell’atmosfera e del clima sono al centro di scontri da parte dei ricercatori che hanno portato all’immobilismo delle azioni compreso il ben noto e concordato principio precauzionale.
Il risultato è che ci stiamo avventurando in un campo sconosciuto e stiamo patendo le conseguenze dell’avventurismo politico, economico e scientifico.
Come si può ri-creare un qualcosa quando non si conosce l’esistente che ci circonda?
Ma l’uomo conta sulla sua capacità senza contare che ha inanellato una serie di sconfitte che ci stanno portando all’instabilità planetaria.
Questo numero di «Villaggio Globale», il n. 87 appena messo on line, vuole dare un contributo alla riflessione e alla discussione.
Proponiamo, come sempre l’Editoriale del Direttore.
L’ingegnerizzazione, anche della nostra vita quotidiana, attraverso la trasformazione degli oggetti e degli strumenti che usiamo quotidianamente, è così penetrante che fa parte integrante della nostra cultura e dei nostri stili di vita.
Si riesce sempre con maggiore difficoltà ad apprezzare e, soprattutto, fare apprezzare, quello che prima era vita quotidiana.
Andare a comprare il pane, aspettare il rientro delle barche il pomeriggio, acquistare la carne il giorno di macellazione, gustare le primizie della frutta di stagione… non che si voglia fermare il mondo e imporre abitudini e tempi anacronistici, ma giusto per capire di che stiamo parlando.
Se questa è la tendenza presa dalla nostra società, nulla in contrario, si sa che l’uomo sta plasmando l’ambiente sulla base delle sue esigenze; ma l’intelligenza, di cui l’uomo sembra dotato e che lo fa spiccare sugli altri esseri viventi, dovrebbe portarlo a mediare esigenze e limiti del pianeta.
Purtroppo non è così. Il ritmo e l’insensatezza con cui distruggiamo il nostro territorio è simile all’utilizzo che ne facevano i primitivi quando disboscavano una zona e dopo averla resa inutilizzabile si spostavano in un’altra.
Secondo un rapporto di Greenpeace tra il 2010 e il 2020 almeno 50 milioni di ettari di foresta, un’area delle dimensioni della Spagna, saranno stati distrutti per fare spazio alla produzione industriale di materie prime agricole. Forse ha ragione Roberto Cazzolla Gatti che in questo numero, ricordando una sua teoria, sostiene che ha fallito la green economy.
È quindi cambiato poco. Nei tempi remoti, però, il rapporto uomo-ambiente era in equilibrio, c’era il tempo che si dava alla natura di riparare i danni. Ora il rapporto è invertito, e da qui l’ingegnerizzazione si sostituisce alla natura.
Ogm, orti verticali, orti di città, carne non-carne… e se spariscono le api sono pronti i mini droni. Gli alberi? c’è chi pensa ad alberi di plastica… Finisce lo spazio sulla terra? c’è quello nel cielo…
Ora si parla di «space advertising», previsto dal 2021 con l’invio dei satelliti detti Orbital Display: funzioneranno come banner luminosi che dal cielo «detteranno» cosa comprare, come vestirsi e che mangiare a sette miliardi di umani. Così come i 60 nuovi satelliti, già in orbita, disegneranno con il progetto Starlink, di Elon Musk, un nuovo cielo, con lo scopo di portare Internet dovunque sulla Terra.
Eppure, anche se andiamo verso un restyling del pianeta, ci sono segnali di una resistenza di nuovo genere che però, fino ad ora, non viene ostacolata.
Sono le città senz’auto, i paesi che sorgono senza l’aiuto dei fossili, i cittadini che scelgono il km 0, che si fanno l’orto sul terrazzo o nel quartiere e stanno sorgendo anche le foreste urbane alimentari.
Ad Atlanta, in Georgia, per sconfiggere la povertà, sono stati richiesti finanziamenti per la realizzare una foresta urbana alimentare. Non solo alberi ma piante e frutti commestibili a disposizione degli abitanti.
E non è l’unico caso, a Seattle c’è la Beacon Food Forest, ad Asheville il George Washington Carver Edible Park, e in tutta l’America se ne contano più di 70.
E state pur certi che queste filosofia, questo nuovo rapporto con la natura andrà avanti perché l’uomo è natura a dispetto dell’ingegnerizzazione.
Ignazio Lippolis