Serve un’antropologia dell’abbandono

2655
abbandono ruderi
Tempo di lettura: 4 minuti

Vito Teti dice che «restare significa riscoprire la bellezza della “sosta”, della “lentezza”, del silenzio, dello stare insieme, anche con disagio, del donare, della verità del viaggiare e del camminare». Oltre al guadagno, al profitto esiste altro, esiste la ricchezza dello stare insieme per condividere semplici momenti di quotidianità

Nel 1965 Lévi-Strauss all’epoca delle grandi esplorazioni etnografiche, quando gli altri abitavano altrove, scriveva dell’odio per i viaggi e contemporaneamente della necessità di mettersi in viaggio. Oggi, forse, occorrerebbe pensare ad una antropologia legata al «restare», al «sostare». Come magistralmente ci insegna l’antropologo Vito Teti, oggi occorrerebbe parlare e scrivere della fatica del restare e insieme della bellezza e della necessità della sosta.

Basilicata abbandonoAfferma Teti che «i rimasti, come i ruderi e come le reliquie, sono la testimonianza di un corpo frantumato, di un universo esploso, le cui schegge si sono spostate in mille luoghi. Ma non sono memorie inerti e sterili.

I «rimasti» sono una nuova categoria sociale, culturale, mentale che nasce con l’emigrazione di fine Ottocento, con l’erosione e con la fine dell’antico mondo. Sono i doppi di coloro che sono partiti. Ma coloro che sono rimasti non sono fermi, non sono legati sterilmente all’antico mondo. Rimasti e partiti […]nascono insieme con l’esplosione dell’antica società» (V. Teti, Mediterraneum. Geografie dell’interno, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003).

Oggi, in pieno regime di società globalizzata e cultura massificante, occorre più che mai pensare ad una «antropologia dell’abbandono» e ad una «storiografia dei luoghi abbandonati» per sottrarli definitivamente all’idea che essi, per il semplice fatto di essere abbandonati, abbiano cessato di vivere.

Di questa nuova concezione antropologica la Basilicata ha veramente bisogno se non vuole smarrire la sua vera e più intima identità. Dei 131 Comuni lucani, la maggior parte, soprattutto quelli interni, rischia l’estinzione; la sua popolazione, principalmente anziana, vive in un costante isolamento; allora la domanda da porsi è la seguente: quale futuro per queste aree e per le persone che ci vivono? Ma soprattutto, come considerare queste realtà periferiche e marginali? Per cercare di fornire una risposta esaustiva a queste domande, bisogna considerare (o riconsiderare) il concetto di «restare». Oggi cosa significa veramente «restare»?

Non certo star lì a contare le macerie, accompagnare i defunti e i ricordi, custodire e consegnare memorie. Restare, ci insegna Vito Teti ne «Il senso dei luoghi», «significa mantenere il sentimento dei luoghi e camminare per costruire qui ed ora un mondo nuovo, anche a partire dalle rovine del vecchio.[…]Restare significa cercare, aspettare, incontrare l’altro che oggi viene da noi.[…]Restare significa riscoprire la bellezza della “sosta”, della “lentezza”, del silenzio, dello stare insieme, anche con disagio, del donare, della verità del viaggiare e del camminare».

Ecco allora come l’antropologia dell’abbandono può essere utile per la società lucana, per i suoi piccoli paesi che rischiano l’estinzione; ma può essere utile, e lo è, per l’intera società contemporanea in quanto offre la possibilità di riconsiderare aspetti e valori che nel trambusto attuale non consideriamo.

basilicata abbandono1Cosa vuol dire oggi in una società affannata, in una perenne corsa contro il tempo contemplare la bellezza, della sosta, del silenzio, della lentezza, dello stare insieme? Questo insegnamento oggi la Basilicata lo può offrire al mondo sfruttando la vetrina di Matera Capitale europea della Cultura 2019, e lo può fare con i suoi piccoli borghi disseminati tra le montagne del Pollino o tra le Dolomiti lucane. Piccoli centri come Carbone, Calvera, Castelmezzano, San Paolo Albanese, Craco e tanti altri sono testimonianze viventi di come un altro tipo di società sia possibile; di come «restare» non faccia assolutamente rima con «essere abbandonati» ma, al contrario, significhi avere la possibilità di godere di momenti di riflessione, di silenzio, di raccoglimento con se stessi; di rapportarsi con la natura circostante per trovare (o ritrovare) la vera e intima essenza delle cose; di fermarsi per capire che oltre al guadagno, al profitto esiste altro, esiste la ricchezza dello stare insieme per condividere semplici momenti di quotidianità.

Ciò che le piccole realtà possono offrire alla società attuale ci viene ancora una volta descritto da Vito Teti quando, parlando di Roghudi, un centro in parte abbandonato della provincia di Reggio Calabria, riporta il pensiero di un suo abitante che ha dovuto abbandonare il paese. «Era una vita tranquilla, piena di solidarietà perché basata su alcuni principi antichissimi, in cui tutto si svolgeva in modo quasi istintivo, non in maniera organizzata, ma era una cosa quasi perfetta, era una vita armoniosa che non è possibile più riscontrare in altri posti. Questa è la vita che io ricordo e certamente era una vita misera, ma coloro che andavano a lavorare all’estero con tanti sacrifici, quando ritornavano contribuivano con il loro sacrificio ad arricchire il paese» (V. Teti, Il senso dei luoghi, p. 61).

Semplicità, convivialità, senso di appartenenza, aiuto reciproco: finché le piccole realtà marginali della Basilicata riusciranno ad esprimere questi valori allora ci sarà una speranza ed un futuro anche per la nostra società globalizzata e la loro marginalità non sarà realmente tale.

 

Nicola Alfano