Per favore non chiamatelo più «ambientalista»

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ambiente mare conchiglie
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Il nodo logico dell’attribuzione del titolo di ambientalista, che la rende oramai inaccettabile, sta nell’assurda separazione concettuale fra ambiente e uomo, ecosistemi naturali ed antropizzati, in fondo fra città e campagna. E non perché non siano ambiti oggettivamente molto diversi fra loro, ma perché la loro separazione non esiste, non può materialmente esistere e non esisterà mai. L’uomo non ambientalista è un ossimoro logico: l’uomo è il suo ambiente e l’ambiente è l’uomo

Non chiamateci più «Ambientalisti»!

Sì, per favore, almeno me. Non fatelo più.

Non ha più nessun senso e non mi/ci identifica o qualifica più.

Un tempo, quando non si sapeva o non si capiva nulla delle conseguenze dei modelli e dei comportamenti umani sull’ambiente e sulla stessa salute delle persone, qualcuno che ne parlava come pioniere culturale poteva essere chiamato così, a denotare una sua specifica sensibilità spiccata per la natura, gli ecosistemi, il «creato».

Una categoria culturale, insomma, talvolta ideologica, che sfociò nel paradosso della fondazione addirittura di organizzazioni politiche tematiche.

Tollerata, guardata con curiosità, altre volte per brevi periodi sostenuta, questa categoria era comunque vista come innocuamente decorativa; gente con la pancia piena che si può permettere di sparare cazzate teoriche e irrealizzabili.

Poi nacque l’«ambientalismo scientifico», altro termine di difficile accettabilità (di cui porto una quota di colpa) come se tutto quello che si era detto e fatto fino a quel momento fosse basato su tutt’altro che scienza e conoscenza. Una perla di nonsenso!

Ma il nodo logico dell’attribuzione del titolo di ambientalista, che la rende oramai inaccettabile, sta nell’assurda separazione concettuale fra ambiente e uomo, ecosistemi naturali ed antropizzati, in fondo fra città e campagna. E non perché non siano ambiti oggettivamente molto diversi fra loro, ma perché la loro separazione non esiste, non può materialmente esistere e non esisterà mai. Appartiene alla cultura, molto alla psicologia, certamente all’immagine, ma assolutamente non alla fisica, alla chimica e alla biologia.

L’uomo non ambientalista è un ossimoro logico: l’uomo è il suo ambiente e l’ambiente è l’uomo. Qualcuno può ancora nutrire dubbi in merito?

Noi siamo fatti di ciò che mangiamo, beviamo e respiriamo; l’intero nostro corpo si demolisce e ricostruisce praticamente per intero più volte nell’arco della vita, scaricando il materiale di risulta di questo smontaggio nell’ambiente, e recuperando i mattoni per la nuova edificazione sempre dall’ambiente e dai suoi prodotti.

Questo, oramai, sta diventando inconscia percezione diffusa, se non consapevolezza matura.

Ed è proprio questa percezione che genera due nette e distinte reazioni, che hanno una profonda radice psicologica, prima di manifestarsi come espressione culturale, politica e infine comportamentale: l’insicurezza e la paura.

Essere così soggetti alle leggi e ai meccanismi della natura, non esserne affatto protetti, è accettabile solo per coscienze avanzate, che con la mortalità hanno intrapreso un percorso dialettico, non «negazionista». Paradossalmente è forte chi accetta la propria fragilità, la propria dipendenza dai processi vitali e la sua temporaneità su questa terra. Viceversa è debole chi cerca di negarla e si costruisce un’immagine dell’antropismo come un processo di elevazione tecnologica artificiale, che lo dispensi ed esoneri da quella che viene assunta come schiavitù dalla natura, dentro e fuori di sé; se una cosa l’inventa l’uomo è sicura ed efficace, e ci dà lunga vita.

Quanto sia falsa, irrealistica e pericolosa la seconda convinzione non ha bisogno di dimostrazioni, essendo proprio la causa della patologica relazione fra noi e la terra su cui viviamo, a sua volta alla base delle patologie che a questa causiamo e che ci tornano per intero come nostre patologie fisiche e mentali, poi tradotte in patologie socio-politiche.

È anche facile intuire come la prima maturazione sia compagna di sensibilità più aperte alla condivisione e all’armonia, mentre la negazione della propria natura, e la paura che ne deriva, giochi un ruolo importante in tutte le forme di egoismo, ingordigia e aggressività, proprio alla base del malato rapporto con gli altri e col mondo esterno.

Orbene, per tornare al tema originario di questa forse troppo didascalica trattazione, è chiaro perché non ha alcun senso chiamare ambientalisti quelli che si sforzano di approfondire e divulgare le dimostrazioni delle cause e dei risultati di questa patologia di rapporto in cui tutti viviamo, o che si spingono a suggerire modelli e percorsi per fermarsi e cambiare strada, a progredire, finalmente, accettando l’evidente realtà dei fatti.

E per certi versi la definizione fa comodo solo ai negazionisti del disastro (i deboli di prima), che in questa maniera vorrebbero confinare chi cerca di ragionare in maniera sana in un ghetto culturale da «pance piene», che non si rendono conto dell’impossibilità di cambiare e non accettano il realismo lungimirante degli attuali modelli di produzione, consumo e vita.

Allora, almeno per quanto mi riguarda, voglio affrancarmi dalla definizione.

Da oggi non sono più un ambientalista, né scientifico, né tanto meno «tecnologico» come qualcuno si è da poco inventato.

Sono solo uno a cui piace riflettere, studiare e ragionare.

Come si chiamano quelli così?

Massimo Blonda