Estinzione o evoluzione: la scelta all’umanità del presente
Ce lo dimostra il caso di Chernobyl: sta accadendo che, dopo che 116.000 residenti furono costretti ad andar via, lo spopolamento umano ha favorito la fauna selvatica. Se mai si dovesse registrare la temuta estinzione del genere umano, questa riguarderà i più poveri, deboli ed emarginati. Ciò perché le conseguenze del mutamento climatico non hanno impatto solo su ambiente ed economia. Ma hanno effetti di rilevante portata sulle crisi umanitarie in termini di sempre più difficile disponibilità di cibo e acqua
Riproponiamo un articolo di Ugo Leone, pubblicato su «Il Bo Live», un «magazine» con cui l’Università di Padova informa, dialoga, comunica, e dove Pietro Greco, Caporedattore, ne cura la validità anche scientifica.
Prove di estinzione? Certamente no, ma immagini.
Immagini di quello che potrebbe essere il dopo la sesta estinzione se l’umanità decidesse di suicidarsi ignorando i rischi legati alle conseguenze del costante mutamento del clima.
Oggi, Coronavirus imperante, gli umani si ammalano e quelli che non guariscono muoiono; le piante crescono favorite anche dal clima primaverile; gli animali, totalmente esenti da virus, prolificano. Michele Serra, nella sua «Amaca» del 4 aprile (A cosa serviamo, esattamente) sintetizza bene una situazione da molti osservata: «Il mare di Napoli pulito, quasi pulito il cielo sopra la Cina, i pesci nei canali di Venezia, Venere e Sirio che rilucono, enormi, nel cielo trasparente. La ritirata dell’uomo, con il suo strascico sontuoso di deiezioni, rinvigorisce la natura».
È quello che da tempo ricorda l’etologo Enrico Alleva sostenendo in una intervista a «Repubblica» dell’8 ottobre 2015 (Se l’uomo si allontana la natura rifiorisce) che «quando gli uomini abbandonano zone coltivate, lasciano agli animali un’esplosione di risorse… Le viti o gli alberi da frutto producono certo di meno senza la cura degli agricoltori, ma lasciano i loro prodotti agli animali. Uccelli e roditori se ne nutrono, favorendo così i serpenti che sfamano a loro volta i rapaci». Insomma «quando l’uomo va via, il bosco si espande. Gli scoiattoli sotterrano le ghiande e poi le dimenticano. Idem fanno le ghiandaie. Gli alberi crescono, a meno che il capriolo con i suoi denti a scalpello non li mangi da piccolo. E anche altre specie come lupi e cinghiali aumentano di numero».
E tutto questo Danilo Mainardi lo definisce «rigoglio evolutivo». Cioè la rinascita dell’ambiente originario, pur se profondamente modificato almeno in alcune delle sue componenti liberate dalla ingombrante presenza di quelle scomparse. È quello che è avvenuto dopo ciascuna delle cinque estinzioni che hanno preceduto, l’ipotetica sesta.
Come è abbastanza noto la Terra ha registrato cinque grandi estinzioni di massa. Perciò se ne ipotizza una sesta, perché, evidentemente, ce ne sono già state cinque. In realtà la gran massa, ormai anche i bambini specialmente dopo Jurassic Park, sa che 65 milioni di anni fa si estinsero i dinosauri. E quella fu la quinta e ultima. Quattro l’avevano preceduta e tutte provocate da mutamenti climatici. La maggiore si è verificata nel periodo geologico del Permiano, 225 milioni di anni fa. Un’estinzione nota in inglese col termine di Great Dying (grande moria) dal momento che pare che a morire sia stato il 96% delle specie viventi.
La sesta potrebbe essere provocata dalla estinzione del genere umano a causa degli eventi catastrofici legati al mutamento climatico e alla catena di fenomeni ad esso collegati: aumento delle temperature, scioglimento dei ghiacciai polari, innalzamento del livello di mari e oceani, incremento per numero e intensità degli «eventi estremi». Con tutte le conseguenze che prima ricordavo mutuandole da Alleva e Mainardi.
Quindi se l’umanità volesse autodistruggersi sino ad estinguersi s’odrebbe «augelli far festa», ma non toccherebbe a noi ascoltarli. Perché la «festa» deriverebbe dalla scomparsa della causa stessa che aveva prodotto l’estinzione. Ebbene, è fondamentale allora ricordarci che la sesta estinzione, quella il cui rischio si ipotizza di star vivendo, è il prodotto dei nostri disumani comportamenti.
L’uscita dal Coronavirus deve tener conto anche di questo. Ma c’è davvero da allarmarsi?
Come che sia, quando si affronta il problema dei mutamenti climatici, come ormai avviene sempre più spesso e da sempre più versanti, la preoccupazione per il futuro è palpabile. Perché la Terra potrebbe diventare quasi inabitabile in meno di cent’anni.
Tra gli altri ne ha scritto David Wallace-Wells (La fine del mondo) sul «New York Magazine» dell’8 settembre 2017 che ha fatto discutere gli esperti di clima i quali cercano di stabilire il confine tra allarme (che è sempre scientificamente corretto) e allarmismo che va affrontato con la dovuta prudenza. La tesi di Wallas-Wells è che noi (comuni mortali) non sappiamo come stanno veramente le cose.
E questo non sapere come stanno le cose sarebbe un’altra ignoranza di cui tener conto insieme con quella più recente del Coronavirus Covid-19. Ma è realistico il timore e il conseguente allarme per la sesta estinzione?
È difficile rispondere senza essere condizionati dalle proprie intuizioni o speranze se si preferisce. Per quanto mi riguarda dubito vi sia. Per lo meno non con le caratteristiche delle cinque che l’hanno preceduta. Intendo dire che se non è immaginabile che la Terra torni allo stato in cui era (la resilienza), le modifiche che si saranno verificate richiederanno un possibile, necessario e non drammatico, adattamento. Non tutti se lo potranno consentire e se mai si dovesse registrare la temuta estinzione del genere umano, questa riguarderà i più poveri, deboli ed emarginati. Ciò perché le conseguenze del mutamento climatico non hanno impatto solo su ambiente ed economia. Ma hanno effetti di rilevante portata sulle crisi umanitarie in termini di sempre più difficile disponibilità di cibo e acqua.
Inoltre non si deve trascurare che i mutamenti climatici non provocano solo l’incremento delle temperature, ma ancor più immediatamente, sono alla base dell’incremento del numero e della intensità degli eventi definiti estremi: uragani, alluvioni, disastri naturali in genere. Tutti eventi il cui verificarsi incide negativamente soprattutto sulle popolazioni più povere incrementando i drammatici flussi migratori dei profughi ambientali.
D’altra parte non è possibile trascurare le posizioni di studiosi della materia quali Giulio Giorello (L’Apocalisse? C’è già stata in «Ambiente Rischio Comunicazione» n. 10, 2015 ) il quale ricorda che più volte la Terra ha conosciuto enormi estinzioni di massa ma ora la catastrofe potrebbe avvenire per mano dell’uomo. Così anche, sulla stessa rivista, Telmo Pievani (Una predizione corretta, sfortunatamente) che ricostruisce cause, effetti e «proiezioni» future ricordando che «l’estinzione di massa del Permiano è quasi inimmaginabile: è la madre di tutte le estinzioni di massa. Non oltre il 10% delle specie è riuscita a sopravvivere. Da questa piccola percentuale, fu ricostruita l’intera biodiversità, in un lento processo di ripresa che, secondo Benton, si è realizzato forse in 100 milioni di anni.
L’albero della vita subì una potatura radicale: il 90% dei rami vennero tagliati, in tutte le nicchie ecologiche e in tutti i settori degli esseri viventi». E, d’altra parte, come scrive Pietro Greco nella stessa rivista (I due volti della catastrofe), alle catastrofi noi Homo sapiens dobbiamo tutto se appena ci fermiamo a ricordare che «il Big Bang è stato il più grande e creativo evento catastrofico di cui abbiamo notizia». Ma, come conclude Pievani, «il paradosso dell’Homo sapiens, come causa della sesta estinzione di massa è difficile da risolvere per due motivi: uno politico, cioè la mancanza di coordinamento internazionale; e l’altro psicologico, cioè la mancanza di capacità di previsione. Una singola nazione può fare ben poco se le altre non collaborano. Le dinamiche ecologiche non rispettano la stretta tempistica delle campagne elettorali e le leggi della popolarità, possono quindi improvvisamente venire meno i servizi forniti dall’ecosistema. Realizzare una buona pratica di conservazione oggi porterà i suoi frutti tra almeno un paio di generazioni. Certo, non è facile investire soldi e prendere un impegno etico in favore di qualcuno che ancora non esiste, ma dobbiamo armarci di fantasia e cercare di farlo. Dopotutto, potrebbe essere un modo intelligente per marcare ciò che ci differenzia dai dinosauri».
Tutto ciò da un punto di vista prettamente antropocentrico. Se giriamo l’osservazione dalla parte degli animali le cose cambiano radicalmente. Ce lo dimostra il caso di Chernobyl che non pochi scienziati stanno prendendo in considerazione. Sta accadendo, infatti che in quest’area dell’Ucraina drammaticamente colpita dall’incidente nucleare del 1986, 116.000 residenti furono costretti ad andar via. Ora, secondo «Current Biology», l’abbondanza di cervi, cinghiali, capriole, lupi e altri mammiferi dimostra che lo spopolamento umano ha favorito la fauna selvatica. Il che porta a concludere che la presenza umana con la caccia, l’agricoltura e la silvicoltura ha sull’ambiente e le sue componenti animali un impatto più forte delle radiazioni nucleari. In perfetta sintonia con quanto ricordavo sostenuto da Enrico Alleva.
Insomma tra estinzione e evoluzione la scelta tocca all’umanità. Ed è una scelta per la quale, come notava Pievani, è indispensabile il coordinamento internazionale perché una singola nazione può fare ben poco se le altre non collaborano. Anche se si tratta dei due sub-continenti India e Cina che hanno intrapreso la via delle «buone pratiche».
D’altra parte il problema dell’estinzione è di antichissima data.
Platone ha scritto (Protagora) che gli dei dopo averne modellato «le immagini nel cuore della terra» per le specie mortali, ordinarono a Prometeo e a Epimeteo di rifinire l’opera e distribuire a ciascuna specie le qualità più adatte. Prometeo concesse questo compito ad Epimeteo che lo desiderava. E Epimeteo lo fece escogitando «tante trovate con la preoccupazione che nessuna specie dovesse estinguersi». Ma poiché non brillava per intelligenza, non si accorse di aver dato fondo alle qualità naturali spartendole fra gli animali irragionevoli e quando gli toccò di distribuirne alla specie umana non ne aveva più.
Di conseguenza, quando Prometeo si recò ad ispezionare la distribuzione, vide «gli altri animali equipaggiati di tutto punto, mentre l’uomo se ne stava nudo, scalzo, esposto, disarmato.» Ma ormai «era il giorno deciso dal destino: l’uomo doveva uscire dalla terra e venire alla luce».
Come rimediare alla assenza di «qualità naturali»? Prometeo allora rubò a Efesto e ad Atena la loro abilità tecnica, insieme al fuoco, perché senza il fuoco la tecnica nessuno la possiede veramente e nessuno può giovarsene. E ne fece dono all’uomo».
A questo punto quello che mancava era «l’arte della politica» che apparteneva a Zeus e senza la quale il genere umano soccombeva agli assalti delle bestie feroci «perché non avevano ancora l’arte della politica, di cui l’arte della guerra è una componente».
Allora Zeus iniziò a temere che la nostra specie dovesse estinguersi da cima a fondo, e inviò Hermes perché portasse fra gli uomini senso del rispetto e senso della giustizia, in modo da dare origine agli ordinamenti civili e a tutti quei legami che creano fratellanza.
Ma Hermes interrogò Zeus: in che modo doveva distribuire agli uomini senso del rispetto e senso della giustizia? «Come le altre abilità tecniche? Devo fare allo stesso modo? Le abilità tecniche si sono distribuite così: un solo medico basta per molta gente comune, e così gli specialisti di ogni altro mestiere. Senso del rispetto e senso della giustizia devo distribuirli così, fra gli uomini? O devo distribuirli a tutti?». «A tutti», disse Zeus, «e che tutti ne abbiano una parte: perché altrimenti non potranno esistere comunità, se solo poche persone ne godranno il privilegio, com’è per le altre specialità professionali. E stabilisci una legge, da parte mia: chi non ha senso del rispetto e senso della giustizia lo si mandi a morte, perché è come una peste per lo Stato».
«Chi non ha senso del rispetto e senso della giustizia», magari oggi, 2500 anni dopo Platone, si potrebbe evitare di mandarlo a morte, ma punirlo come merita sì.
Ugo Leone