Il tempo di scegliere
Il bivio di fronte al quale ci troviamo è netto ed evidente; i sofismi non ci aiutano. Siamo costretti a scegliere una ed una sola delle due strade: l’impegno a tempo pieno per cambiare la politica dei partiti e dei governi, partecipando alla politica istituzionale, oppure la costruzione con alte persone di veri e propri esempi di organizzazione socio-economica diversi, standoci e vivendoci personalmente, totalmente dentro
L’eterno quesito a cui nessun vero innovatore ha saputo fornire una risposta definitiva è sempre lo stesso: si cambia dal basso, costruendo micro e medi sistemi di vita alternativi, perché questi cambino come effetto il sistema generale, oppure bisogna necessariamente prima cambiare la «stanza dei bottoni»?
Sarebbe facile uscirsene alla maniera furbesca, tipica nostrana, del «entrambe le cose contemporaneamente»! Peccato che questa banale proposizione, certamente incontestabile, non serva a nulla. Perché non stiamo parlando di storia o filosofia, non stiamo a teorizzare di strategie salottiere o a confrontarci in un convegno; stiamo parlando del nostro impegno, del nostro tempo, insomma della nostra stessa vita di «gente a cui le cose non stanno bene così», e che si vuole impegnare a cambiarle.
E se questa è la cosa che vogliamo, il bivio di fronte al quale ci troviamo è netto ed evidente; i sofismi non ci aiutano. Siamo costretti a scegliere una ed una sola delle due strade: l’impegno a tempo pieno per cambiare la politica dei partiti e dei governi, partecipando alla politica istituzionale, oppure la costruzione con alte persone di veri e propri esempi di organizzazione socio-economica diversi, standoci e vivendoci personalmente, totalmente dentro.
Già mi fischiano le orecchie per i commenti: «ecco il solito estremista; tutto o bianco e nero; il bene e il male; o di qua o di là; la verità sta nel mezzo; perché mai non si possono fare tutte e due le cose», e così via.
Il fatto è che questi commenti sono corretti, per carità, ma si basano su un banale errore di prospettiva: la confusione fra dimensione individuale e collettiva. Per dirla breve, è ovvio che in un efficace progetto di cambiamento servano entrambe le due cose, l’impegno politico e la costruzione dell’esempio concreto, solo che ogni persona coinvolta deve scegliere singolarmente una sola di queste due opzioni. Non può farle bene entrambe, perché entrambe sono scelte di vita, abitudini, ambienti, legami, rapporti ed economie famigliari molto diverse fra loro e in sostanza inconciliabili. Forse si può migrare da una all’altra, e dico forse, ma non certamente farle contemporaneamente. Se si è gente seria, ovviamente, e si vuole realmente incidere sul cambiamento.
Cerco di spiegare meglio.
Vita da politico
La vita di un parlamentare serio si svolge in gran parte a Roma, ma anche nei giorni di rientro nel proprio collegio, bisogna mantenere i rapporti col territorio, portare informazioni, raccogliere proposte o segnalazioni, e così via. E di quel sistema, in quei luoghi, di quelle liturgie bisogna in qualche modo essere parte. Si possono evitare le tentazioni e deviazioni più perverse, che non mancano certamente, ma anche questo richiede un particolare impegno. Il clima pesa, e ci vuole tanta forza per non subirne il negativo.
Non c’è quasi tempo per una vita privata, figuriamoci per una vita «alternativa», fatta, per esempio, di economia e socialità agroecologiche o da piccolo borgo, oppure di quartiere sostenibile partecipato. Sono realtà che non si creano per semplice diffusione della proposta, oppure, una volta create, richiedono tutto l’impegno e lo sforzo possibile, col tempo necessario, per essere mantenute. Stesso destino, se pure a casa propria, per sindaci ed amministratori di grandi realtà; o per i rappresentanti/coordinatori di grossi sodalizi nazionali ed altri personaggi «importanti» come promotori o guide culturali del cambiamento.
Va poco, ma poco, meglio per un consigliere regionale o per un sindaco di paese, sempre parlando di gente genuinamente impegnata e profondamente innovatrice.
Parimenti, chi ha abbandonato l’apparente zona di comfort convenzionale, lanciandosi nell’avventura di realizzazione e condivisione di modelli di economia e vita sani, sostenibili, socialmente avanzati, di comunità resilienti, basati sulla produzione primaria agroecologica, a «territorio zero» come si usa dire, non ha proprio il tempo e forse la testa per impegnarsi efficacemente nel cambiamento della «stanza dei bottoni». E questo non certo perché non gli interessi, tutt’altro, ma perché quello che ha scelto e lo impegna è tutta la sua vita, come tempo, spazio, cuore, rapporti e benessere. Separarsene è difficile, specie sapendo a che cosa si va incontro, e che non è affatto una cavalcata trionfale verso luminosi orizzonti.
Chi sceglie una vita «politica» (parlando sempre di quella con la P maiuscola, ovviamente) e non lo fa per soddisfare un ego ipertrofico o per darsi un’opportunità di cambiamento della propria personale vita, deve avere una motivazione bella forte; e l’unica può solo essere quella di farlo per una comunità e un sistema di vita che ha bisogno di essere difeso e diffuso, che lo sostenga e ne apprezzi il sacrificio, ma che ne reclami il ritorno appena possibile, in questo incontrando lo stesso struggente desiderio della coraggiosa o coraggioso di turno.
Diversamente, almeno oggi, il mondo di «quelli che contano» la/lo lusingherà fino a fagocitarli, facendogli perdere ogni coerenza con i motivi iniziali della scelta. Se la scelta iniziale è solo ideale, anche con le migliori intenzioni, questo sembra un destino segnato, e non serve cercare esempi recenti del fenomeno. Se, invece, è la comunità in cui si vive per scelta che richiede l’impegno di livello superiore, per un tempo limitato da non generare assuefazione, forse sussistono le condizioni per svolgere un utile servizio senza rovinarsi la propria esistenza futura.
Ma parliamo di pochi individui e di rari casi, ad elevato grado etico e che ne abbiano in qualche modo «la stoffa», come si dice. Io sono fortunato a conoscerne qualcuno.
Idea o pratica?
Fatto sta che ogni persona che senta una spinta di cambiamento, ma vive ancora un’esistenza «convenzionale» si trova gioco forza di fronte a questa scelta: mi dedico ad una idea o provo a praticarla?
Alibi per scegliere la prima ce ne sono a bizzeffe, ma a ben riflettere sono solo tali. È più comoda, si porta avanti come e quando si vuole senza strappi alle abitudini, garantisce passioni da stadio e fa credere di essere nel giusto; ma siccome, poi, solo qualcuno può fare il salto nel corridoio verso la stanza dei bottoni, rimarranno sempre le delusioni, le frustrazioni, l’amarezza della sconfitta e l’acredine per «i traditori». Dopo ogni strazio, si sarà pronti a far da bastone a qualche nuovo eroe del cambiamento, comparso dal nulla dalla sua agiata esistenza, pronto a dirsi diverso, e il gioco può ricominciare.
Ciò che voglio dire è che una nuova classe dirigente oggi non sembra poter nascere sulla base di idee, anche perfette, ma non già vissute e praticate, cioè solo fra le pieghe dell’attuale sistema di selezione della stessa e sfruttando l’attuale processo di raccolta del consenso. E forse è proprio il concetto stesso di classe dirigente che andrebbe rivisitato profondamente.
Chiunque, invece, può dedicare il tempo che ha o riesce a salvare per iniziare percorsi di modifica della propria esistenza in modo concreto, fattivo, quotidiano, entrando in relazione con chi già lo fa.
«Sii il cambiamento che vuoi», o meglio «comportati come se quello che fai facesse la differenza: la fa!». Oggi sono tutt’altro che frasi fatte, perché le realtà «nuove» stanno aumentando di numero ogni giorno, fanno rete, moltiplicano le buone pratiche, crescono in autosostentamento e resilienza.
Sono queste che cambieranno il sistema, quando la maggioranza di noi cambierà dentro di sé e finalmente le sentirà come l’unica strada possibile, decidendo di seguirla nei fatti di tutti i giorni.
Poi, come già inizia ad accadere, da questa rete di vita usciranno anche le/i leader, come e quando serviranno e per il tempo che serviranno; incorruttibili, non per cervello o volontà, ma per mancanza di attrattiva delle sirene di oggi, già abbandonate da tempo.
E mi sa che saranno più delle lei, che dei lui. Mi sa!
Massimo Blonda