L’amara analisi di Nello Biscotti, naturalista, ricercatore, scrittore e docente dopo le sue dimissioni. La storia delle tante riforme che non hanno prodotto nulla. Il ricordo del rapporto scuola ambiente ormai spezzato. Ed ora le aule sono strette in tempi di Covid-19… s’impone la didattica all’aperto e forse si tornerà a imparar di Natura
Il dibattito in Italia sulla riapertura della scuola è, da mesi, a dir poco nauseante: banchi con rotelle, mascherine sì/no, far ripartire le scuola in sicurezza, ecc. ecc. È ancora un dibattito banalmente politico (tra governo e opposizione), ovviamente strumentale, divisivo, come è tipico in Italia. Per la politica, «la scuola è una priorità».
Solo vuota retorica, ormai «rumore» che sentiamo da decenni ma con la pandemia lo è diventata veramente: l’Italia deve lavorare e i figli devono essere parcheggiati, «chiusi», custoditi, protetti, nelle scuole. L’insegnante nella pratica è diventato un «badante», con tutte le responsabilità che comporta.
Sono le conseguenze di percorso lungo, caratterizzato da assoluta mancanza di politiche scolastiche, di periodiche «riforme», spacciate come tali, sempre a costo zero (solo tagli). La didattica nel frattempo è morta! Con la sua morte si è compromessa gradualmente la socialità, che ha il suo riferimento nel «modello del dialogo socratico, fatto di critica e autocritica», diceva qualche anno fa Umberto Eco, che è infinitamente distante dal modello pseudo-partecipativo del web, che ci illude di dialogare con gli altri, in cui tutti siamo coinvolti.
Chi scrive, oltre 36 anni di insegnamento effettivo (Scuola Media, Liceo e anche Università), dal primo settembre 2020 ha lasciato la scuola, anche con un po’ di rabbia. Quasi un divorzio! Sono convinto di interpretare il sentimento di gran parte dei docenti italiani oggi, di qui le ragioni per parlare di scuola in questo articolo. Proverei a dare contenuti a queste sommarie premesse, certamente discutibili, opinabili, ma mi è necessario ricordare alcune tappe che hanno portato la scuola italiana a questo stato di cose.
Un po’ di storia
Comincia «l’illuminato» Luigi Berlinguer (Pd) con la sua scuola dell’autonomia del nulla, prosegue Gelmini (Forza Italia) con tagli mai visti prima (diminuzione ore di scienze, matematica, storia, geografia, insomma dimezzamento del personale docente e non docente), e contribuisce a sfasciarla completamente Matteo Renzi (Pd) con la sua Buona scuola che dà tante caramelle ai docenti (assunzioni, carta docenti, bonus) ma solo per realizzare il suo modello di «Scuola azienda» per nuovi manager (dirigenti scolastici), nella pratica le peggiori delle aziende. Lo stipendio è rimasto quello e gli insegnanti sono diventati «dipendenti» di queste aziende, impegnano tantissimo tempo a produrre carte, in riunioni inutili, e «astratti» progetti, in pratica altre carte. Non vi è ambito in Italia ove è entrata (da anni) con irruenza, da divenire banale e disgustevole, la parola «progetto». Termini come progettazione, pianificazione, programmazione sono spariti dalla politica (roba di comunisti) dall’economia, dall’urbanistica e sono entrate invece nella scuola. E qui non resisto alla tentazione di qualche altra considerazione, necessaria, per centrare al meglio il tema posto.
La pandemia ha reso noto a tutti i trentennali mali della scuola, dalla condizione degli edifici, alle classi pollaio, ecc., ma ha aperto soprattutto una questione cruciale e cioè di quello che dovrà essere nel futuro, il suo ruolo. Questione emersa con forza in questi ultimi anni con l’ultima riforma, verniciata come «Buona scuola».
Ma la narrazione oggi è un’altra: la scuola italiana è celebrata (non dagli insegnanti) come modello di scuola inclusiva, che promuove il successo formativo, concetto complesso, pure interessante. Su questo modello le scuole si fanno competizione con l’obbiettivo di «catturare» giovani che invece diminuiscono (calo demografico che pesa soprattutto nelle scuole dell’Italia dei borghi e dei paesi, che sono ancora tanti).
Gli alunni diminuiscono e le scuole aumentano l’offerta formativa: ogni istituto ha minimo due o tre indirizzi (dal musicale, al classico, a quello odontoiatrico), un po’ sulla scia di quello che è successo nelle università con l’istituzione di infiniti corsi di laurea, gran parte dei quali poi chiusi, mortificando scelte di tantissimi studenti.
Nella scuola azienda il successo, il rendimento, nella pratica si misura in quanti promossi ha prodotto, perseguendo quella che qualche anno fa fu definita «pedagogia dell’indulto», quella cioè di trovare sempre mille giustificazioni (familiare, sociale, ambientale, ecc…), per non bocciare. Diversamente bisognerebbe bocciare la scuola tutta. Ma la colpa di mancati successi è poi del docente, perché non sa insegnare, non sa interrogare, non sa valutare: è la narrazione delle famiglie soprattutto che denunciano l’incapacità della scuola di dare una corretta valutazione del rendimento scolastico, oppure la volontà persecutoria di docenti nei confronti dei figli, per cui la bocciatura è vista quasi sempre come punizione (in ragione di cattivi comportamenti, presunte antipatie).
Un’altra narrazione, più convincente, è che solo così la scuola, sempre più di massa, giustamente, è potuta andare avanti, inventandosi di tutto, pur di continuare a svolgere il suo ruolo educativo, formativo in una società in rapida e continua evoluzione, sostituendosi alle famiglie, a un sociale che profila nuovi, complessi e variegati modelli valoriali e misurandosi con facebook, instagram, internet, nuove tecnologie, in ultimo toc toc.
Le contraddizioni
Poi però vi è l’esame di Stato, nazionale, dove gli alunni dovrebbero sapere di matematica o chimica, ma alla fine «bisogna» comunque promuoverli. Ma poi vi sono i test di medicina ove si affollano le scelte dei ragazzi, sempre meno numerosi che si iscrivono all’Università (nel 2017 si sono iscritti appena il 45% dei diplomati) che selezionano (a loro dire) i futuri medici con domande anche sul Signore degli anelli.
Ogni anno uno sparuto gruppo di studenti protesta contro i test, il numero chiuso, ma niente da fare, politici e accademici persistono (non è difficile capire a chi giova il numero chiuso), perché «le aule, i laboratori, sono insufficienti e bisogna selezionare», dicono. E allora miglioriamo le strutture? Qualche altro aggiunge che i «livelli di preparazione nelle scuole superiori sono molto diversi tra loro». Ma scusate non avete voluto la scuola dell’autonomia?
In più vi è l’evidenza che l’8 di un liceo di Milano, dicono anche i ragazzi, non è uguale a quello di Vico del Gargano, un’altra narrazione: le differenze tra scuole di città e quelle di provincia, in realtà si sono accentuate come non mai, e il calo demografico (emigrazione, spopolamento specialmente al Sud) ha investito soprattutto queste ultime, per cui bocciare pone seri problemi di dispersione o abbandono scolastico.
Ci hanno provato da sempre a introdurre il numero chiuso nelle università ma negli anni Settanta i giovani riempivano le piazze, da anni non succede più, ecco perché sono passati decenni e il numero chiuso, che ha compromesso le scelte di famiglie e diverse generazioni di giovani, rimane e dà spazio a menti contorte del Ministero a inventarsi assurdi quiz. Altre folle si vedono nella facoltà di Economia e ingegneria, ma chi vuole puntare in alto ha già messo in conto di andare all’estero a dare forza al management di Irlanda, Bruxelles, Francia, Olanda e Germania, senza contare Hong Kong o Dubai. In Italia non servono! Se riescono ad accedere a qualche stage formativi non avranno più di 400/500 al mese e senza alcuna garanzia. I dottorati di ricerca in Italia non servono se non per la carriera universitaria, per i pochissimi che ci riescono ma con percorsi lunghi e frustranti.
I pochi che studiano nelle nostre scuole diventano eccellenze, quelle vere si compromettono per l’abbassamento progressivo del livello di studio, apprendimento e profitti. Per cui solo se dietro quell’eccellenza fisiologica vi è una famiglia disposta a spendere soldi per la sua formazione (viaggi all’estero, ecc.) allora si salva, altrimenti è persa. E poi in Italia «studiare non serve»! È il luogo comune che attraversa i giovani da anni e così il 14,5% di essi (dati 2018, 598mila giovani) è fuori dal sistema d’istruzione. Dov’è questa scuola inclusiva? Poi ci voleva la pandemia per far ergere di fronte a chi studia, agli scienziati, ai competenti i loro nemici proclamati: «i populisti che oppongono – scrive in “Radical choc”, Raffaele Alberto Ventura, in un bel libro appena uscito che consiglio di leggere – alla retorica della minoranza istruita quella del popolo, ai radical chic, un radical choc».
E in nome di questo popolo da anni si nutre la politica tutta, la cultura, e non solo italiana, si distrugge la credibilità di chi studia, dei competenti (scienziati, epidemiologici, virologi), nonostante tutti sappiamo che si è trattato di un qualcosa del tutto nuovo e imprevedibile soprattutto. Quando abbiamo paura pretendiamo dai competenti la soluzione: se abbiamo un serio mal di pancia cerchiamo un dottore e non un «populista» della rete.
L’ambiente cancellato
Il Covid ci impone di ridurre il numero di alunni per classe, le aule sono comunque strette, per cui «uscire dall’aula» è diventata una necessità. Dopo anni di «strane didattiche», l’ultima «la didattica rovesciata», la didattica all’aperto, tornerà ad essere strategica. Finalmente! Con essa (didattica ambientale, naturalistica), la scuola italiana aveva accumulato «biblioteche» di esperienze di straordinaria valenza pedagogica, cancellate dalle periodiche riforme, una per ogni governo, che si facevano solo per sottrarre fondi alla scuola pubblica, senza contare la progressiva demolizione del diritto allo studio. Erano gli anni in cui la scuola era in prima linea sul fronte dell’educazione ambientale. Cresce il valore delle aree protette (riserve, parchi), si fanno belle leggi ambientali; si formano generazioni di giovani che sapranno molto di Natura, di comportamenti rispettosi, ma la società continuerà a «distruggere», come non aveva mai fatto prima. Insomma la scuola educava e la società dava cattivi esempi. E si arriva a una saturazione educativa per cui in questi ultimi dieci/quindici anni, l’ambiente, la Natura, i parchi, «spariscono» dalle scuole e con la crisi del 2008, dalla società, dalla politica.
La mia docenza è cresciuta, è maturata, insomma si è svolta in gran parte in una scuola fondata sulla collegialità e il «preside», come si chiamava giustamente una volta, era una figura che presiedeva appunto, una figura di riferimento di ogni scuola per la sua autorevolezza culturale. In queste condizioni la scuola imparava, sperimentava quotidianamente, cresceva poiché era la creatività il fondamento di ogni azione didattica, per definizione intesa come «arte». I presupposti erano il senso di comunità e la libertà d’insegnamento, fondamentali per fronteggiare quotidianamente il mutevole contesto classe, le crescenti questioni sociali, educative, che obbligava gli insegnanti a «inventarsi» sempre nuove lezioni, magari utilizzando quella mattina il cortile della stessa scuola o una semplice passeggiata nella città.
Era la didattica all’aperto che occupava un giusto spazio nella scuola, quella didattica, da sempre la più autentica, una vera e propria arte, quella cioè di saper cogliere gli infiniti spunti didattici, educativi, formativi, che l’ambiente, la Natura offrono. Solo così i nostri giovani impareranno a leggere, decifrare, comprendere, interpretare il loro intorno, l’ambiente appunto, oggi più che mai complesso.
Chi scrive l’ha fatto da sempre e il ricordo forte, frequente, dei miei alunni, a distanza di anni, sono state proprio queste lezioni «all’aperto» (il resto non ha lasciato evidentemente alcun segno). Erano questi i fondamenti di quella che sarà definita «didattica ambientale» (un’evoluzione di quella che era l’Educazione ambientale) entrata nelle facoltà di Pedagogia (Scienza dell’educazione); il messaggio-chiave era che la scuola doveva tornare a «imparare dall’ambiente» per misurarci con la crisi ambientale.
Tra le diverse scuole universitarie mi piace ricordare quella di Paolo Orefice (onorato di una sua prefazione a un mio libro sulla didattica ambientale), Preside della Facoltà di Scienza della formazione a Firenze, oggi emerito, cattedra Unesco. Paolo Orefice nel 1996 sarà il direttore (straordinarie le sue lezioni) di un seminario di 6 giorni (Follonica, aprile) in cui partecipavamo 90 docenti (scelti dai Provveditorati) provenienti da tutte le province italiane; un utile e interessante approfondimento dei temi ambientali (cambiamenti climatici, rifiuti, sostenibilità) avendo come riferimento i nuovi paradigmi delle scienze umane, biologiche, naturalistiche che la crisi ambientale ci aveva imposto (concetto di complessità, limite, rete, gestione del rischio).
Il seminario era solo l’inizio di quello che era un accordo di programma tra il ministero dell’Istruzione e dell’Ambiente per fare della didattica ambientale la strategia necessariamente trasversale (coinvolte tutte le discipline) per affrontare concretamente la crisi ambientale che su queste basi nei primi anni Novanta del Novecento aveva raggiunto livelli di sensibilità e impegno sociale, culturale, scientifico, mai visti prima.
Si formeranno due o tre generazioni di giovani che impareranno di ambiente (flora, fauna, territorio), che ripongono nella protezione della Natura le loro attese, speranze, anche professionali; in tanti sceglieranno indirizzi universitari spesso trascurati (Scienze naturali) o innovativi (Scienze ambientali, Ingegneria ambientale), con il sogno di spendersi professionalmente nei Parchi, nelle aree protette che dovevano sperimentare modelli socio-economici sostenibili dell’Ambiente. Illusione pura! I parchi sono diventati tutt’altro e i naturalisti che ci lavorano sono pochissima cosa o non vi sono affatto (vedi Parco del Gargano).
La scuola stravolta
La scuola nel frattempo è cambiata e molto. Le scuole sono i dirigenti scolastici, nel bene e nel male, con essi si rappresentano, si celebrano, si identificano, gli utenti sono le famiglie, i docenti sono spariti. Maestri, professori trovano spazio in frustrate e amare «lettere» ai giornali, riviste, attraverso cui si può avere una idea reale della condizione degli insegnati e più in generale della scuola oggi.
Sono spesso lettere disperate di professionisti della scuola che «non ce la fanno» più; diversamente basta parlare con qualsiasi docente per toccare con mano ansie, frustrazioni, paure, stanchezza, all’origine delle quali vi è spesso un rapporto conflittuale, tensivo, timoroso (la continua a abusata minaccia di licenziamento) con i dirigenti scolastici; un clima che ha ucciso il senso comunitario della scuola e di conseguenza la creatività, lo spirito d’iniziativa, la passione, il «sale» della didattica.
Non vi è più spazio per la collegialità (i collaboratori sono scelti dal dirigente), senso di comunità che da sempre ha caratterizzato la scuola. La scuola azienda ha creato due fronti: da una parte il dirigente e il suo staff, dall’altra i docenti, ormai ridotti a puri dipendenti, impiegati, che hanno dovuto «umiliarsi» in tante scuole a timbrare il «cartellino» (badge timbratura), sprecando denaro pubblico, quando il docente è naturalmente «controllato» da sempre, dal suono della campanella; solo alcune queste delle tante assurdità introdotte nelle scuole-azienda.
In ultimo, in un liceo di Roma il digerente vieta ai ragazzi la minigonna «per evitare gli sguardi dei professori». Questa spaccatura non fa bene in alcun modo alla scuola poiché genera spesso inutili conflitti, tensioni, che gli erano estranei, in più non fa ben quel sottile ma evidente clima di paura del «capo». Senza serenità, gioia, lo hanno capito da tempo le vere aziende, non si lavora bene, si ferisce molto la didattica nel suo complesso e soprattutto la didattica ambientale: uscire dall’aula per un docente è divenuto un percorso tortuoso, inutile, di carte (programmazione, progetto, autorizzazioni, ecc.) e soprattutto di responsabilità ( si fa male un ragazzo è l’angoscia e nello stesso tempo il ricatto) che sono diventate esclusive del docente, per cui nella maggior parte delle volte ci si rinuncia.
Far fare la ricreazione all’aperto, nel cortile, può essere rischioso, e si ripiega tutto nei corridoi, nelle classi ove i rischi poi alla fine sono gli stessi, se non maggiori. Serve un «responsabile» nella scuola azienda, un docente a cui poi dare la colpa. È un clima che si respira un po’ ovunque in Italia, ma che alla scuola fa molto male, perché tutto si basa su un rapporto continuo, gerarchizzato ormai, di ordini, tra dirigenza e docenza che ha compromesso le stesse relazioni, sempre più conflittuali, tra docenti e alunni, ormai sindacalizzati, e docenti e famiglie. Mai visti nella scuola tanti avvocati: negli ultimi vent’anni i soli procedimenti disciplinari sono cresciuti in modo abnorme in conseguenza dell’anomalia che interessa la scuola.
Ci sono sicuramente scuole dove tutto questo non si verifica, e non è difficile capirne le ragioni. Addio libertà d’insegnamento!
La scuola-azienda spazzata via dalla pandemia
La pandemia ha però reso quasi obbligata anche la didattica all’aperto. È drammatica la condizione, ma chi scrive ne è felice perché finalmente si dovrà riprendere, recuperare la didattica ambientale, il cui presupposto è «uscire dall’aula», per educare concretamente i giovani al rispetto della Natura, che in questi anni è divenuta la questione cruciale del futuro dell’Umanità che dovrà misurarsi con crisi climatiche e anche pandemie.
La scuola riapre e tutto dipenderà ancora una volta dalla figura del docente che saprà costruirsi il giusto rapporto con i suoi alunni, un rapporto che non può essere diretto, progettato, burocratizzato. Il resto sono «chiacchiere, chiacchiere, chiacchiere». La pandemia ha dimostrato che la scuola-azienda è solo un mito «legato all’ideologia neoliberista».
Nelle settimane di confinamento la scuola italiana si è «retta solo sull’impegno e la dedizione degli insegnanti e sulla tenuta di una comunità democratica che ha le sue fondamenta nella partecipazione attiva e nella cooperazione dei suoi membri» (Massimo Baldacci, ordinario di Pedagogia Urbino).
Qualche anno fa (2017) l’appello degli insegnanti, firmato da 1200 intellettuali e accademici (Salvatore Settis, Massimo Cacciari, Tomaso Montanari, Umberto Galimberti, Nadia Urbinati, Michela Marzano, Romano Luperini, il filosofo Roberto Esposito, gli storici Giovanni De Luna e Adriano Prosperi, il sociologo Alessandro Dal Lago, i pedagogisti Benedetto Vertecchi, Massimo Baldacci) per liberarci di una scuola fondata su «modelli produttivistici, inadeguati all’esigenza di una formazione umana e critica integrale». Con questi modelli si è indiscutibilmente abbassato il livello di conoscenza, abilità dei nostri alunni, che non leggono, che non sanno scrivere, senza contare che sanno poco di chimica, biologia, matematica. La scuola pseudo azienda ha fatto della didattica delle competenze la sua falsa missione, nell’illusione di corrispondere alle imprese con la fallimentare alternanza Scuola-lavoro della legge 107 (Buona Scuola); di qui una inconcepibile sudditanza della scuola al mondo del lavoro quando la scuola per definizione non può che formare solo ed esclusivamente «capitale umano» precisa ancora Baldacci, proprio quello che manca all’Italia da anni. «Una scuola di qualità — si legge nel documento appello — è basata sulla centralità della conoscenza e del sapere costruiti a partire dalle discipline. Letteratura, Matematica, Arte, Scienza, Storia, Geografia, Filosofia, in tutte le loro declinazioni, sono la chiave di lettura del mondo».
La centralità del docente
La pandemia ancora una volta ha dimostrato la centralità del docente, che da solo ha imparato a fare didattica on line, tutto frutto di inventiva, creatività e passione e senza «carte e progetti», avviata in molti casi ancor prima che partissero ordini di Ministri e Dirigenti scolastici. Una dimostrazione che non servono aule, banchi, dirigenze, e tutto si risolve nel rapporto alunno/docente, strategico per «educare al pensiero critico» che non troverà mai spazio didattico in una scuola azienda, surreale anche sul piano concettuale, in una istituzione che deve produrre cultura e non scatolette di tonno.
Una cultura che deve misurarsi con un mondo ornai globalizzato, interconnesso che fa spostare un virus nell’arco di 24 ore, quando 30/40 anni fa ci avrebbe messo anni o forse non si sarebbe proprio spostato. Perché è stato il nostro sistema tecnologico ad averlo trasformato in una pandemia.
Le nostre società della sicurezza sono diventate nello stesso tempo società del rischio aveva scritta qualche anno fa Unlirich Bek nel suo libro «La società della sicurezza» (Carocci, 2013). «La nostra società ne produce troppi di rischi — sottolinea Ventura nel libro citato — non soltanto non possiamo prevederli tutti ma ogni azione o non azione ne produce di nuovi». Quale sarà la missione della scuola in questa realtà con la quale dobbiamo ancora imparare a convivere? La pandemia ci obbliga questa volta a trovare la risposta, Covid permettendo.
Nello Biscotti