La morte di Lo Porto, un cooperante di professione. Partiva perché aveva un’idea di mondo che gli imponeva di mettersi al servizio degli altri, di chi vive nel bisogno. Perché era mosso da un senso urgente di altruismo e giustizia; perché credeva forse, che «siamo tutti uno», un’unica grande famiglia, quella umana e la sua solidarietà aveva varcato i confini degli Stati e unito popoli diversi ed etnie distanti
Il 15 Gennaio 2015, il trentasettenne italiano Giovanni Lo Porto (Giancarlo) veniva ucciso in una località pakistana al confine con l’Afghanistan, mentre era nelle mani di un gruppo armato facente capo ad Al Qaeda.
Giancarlo si trovava in Pakistan, nella città di Multan, in qualità di esperto al servizio di una importante Ong tedesca; era impegnato nel coordinamento di un progetto di emergenza che aveva l’obiettivo di prestare soccorso e supporto alle popolazioni di alcune aree della Regione del Punjab, devastate da una terribile alluvione.
Il 19 Gennaio del 2012 viene rapito dal suo compound da un gruppo di miliziani, insieme ad un collega tedesco, che verrà poi liberato nell’autunno del 2014.
Dal momento del suo rapimento, per quasi due anni, sulla vicenda cade un silenzio assordante, tanto mediatico, quanto istituzionale.
Dimenticato
Il caso Lo Porto trova pochissimo spazio tra le pagine dei maggiori quotidiani nazionali e quasi nessun rappresentate delle Istituzioni lo menziona.
Anche il mondo italiano della Cooperazione internazionale allo sviluppo mantiene diligentemente il riserbo, nella speranza di non compromettere un delicato processo diplomatico volto a riportare l’ostaggio a casa, sano e salvo. Vivo.
L’Italia intera ignora chi sia questo giovane siciliano inghiottito nel nulla al confine tra due ex «Stati canaglia», mentre metteva a disposizione le sue competenze a favore degli ultimi.
Sono gli anni clou del caso internazionale dei due fucilieri di marina trattenuti nella regione indiana del Kerala, con l’accusa di duplice omicidio.
Il circo mediatico italiano manda in onda le esibizioni di molti dei nostri politiclowns intenti a chiedere giustizia e rispetto per l’Italia, travestiti con t-shirts con le facce stampate di Latorre e Girone. Casi diversi, strategie diverse, certo.
Tuttavia la strategia messa in atto per riportare Giancarlo a casa, dopo ventidue mesi di stasi, pare non produrre grossi risultati.
Un appello come sasso nello stagno
È a questo punto che, nell’autunno del 2013, una rete di Ong decide di infrangere il muro di silenzio e di lanciare un appello volto a chiedere chiarezza e maggiore impegno da parte della Istituzioni italiane.
La tattica dei riflettori accesi, tesa a mantenere alta l’attenzione, sembra funzionare.
Nascono iniziative su Twitter e Facebook e la petizione «Vogliamo Giovanni Lo Porto libero», lanciata sulla piattaforma «Change.org», galoppa on line, raccogliendo migliaia di firme.
Media e politici sembrano maggiormente interessati alla vicenda.
Nell’Ottobre del 2014 il collega di Giancarlo, rapito con lui, il tedesco Bernd Muehlenbeck, viene liberato in Afghanistan. È un momento di gioia e soprattutto di speranza. Ma è solo un’illusione.
Quando nel Febbraio del 2015, in occasione del suo discorso di insediamento, il Presidente Mattarella lo menziona insieme agli altri due italiani rapiti, Padre Dall’Oglio e il medico Ignazio Scaravilli, Giancarlo in realtà è già morto. Ammazzato. Non dai terroristi islamici, ma dal «fuoco amico» dell’alleato a stelle e strisce.
La notizia ufficiale della sua morte sarà comunicata solo tre mesi più tardi, a fine Aprile, da uno speaker d’eccezione, il Presidente Usa Barack Obama, con tanto di pubbliche scuse per «l’errore».
Giancarlo, infatti, morirà a seguito di una bomba sganciata da un drone americano sull’edificio dove era segregato insieme ad un altro cittadino americano.
In quello stabile, oltre al nostro connazionale e al suo compagno di prigionia, l’imprenditore Warren Weinstein, vi erano anche due importanti esponenti di Al Qaeda: Ahmed Farouq e Adam Gadhan, entrambi con passaporto statunitense.
Nella logica della «guerra al terrore» la morte di qualcuno può valere più della vita di qualcun altro, anche se al comando vi è, paradossalmente, un premio Nobel per la Pace.
E poi l’oblio
A peggiorare il quadro di una storia tanto triste, quanto assurda poteva intervenire solo l’oblio. Ed è così che accade.
Nonostante le dichiarazioni iniziali rilasciate dai rappresentanti delle Istituzioni immediatamente dopo l’annuncio della sua uccisione, proclami con cui il Governo si impegnava a fare luce sulla vicenda e a non dimenticare, la storia di Giancarlo, della sua vita e soprattutto della sua morte trovano posto, piuttosto frettolosamente, nel dimenticatoio politico-mediatico degli affari scomodi e imbarazzanti.
L’archiviazione dell’inchiesta volta a fare chiarezza sulla sua morte sembra la naturale e prevedibile evoluzione della vicenda.
La Procura di Roma considerò l’operazione che causò la morte di Giancarlo alla stregua di un’azione bellica, pur non essendo il Pakistan teatro di guerra. I PM parlarono di «impossibilità» di indagare sulle dinamiche della «guerra dei droni» condotta dagli Stati Uniti e la mancata collaborazione alle indagini da parte di questi ultimi fece il resto, come avvenuto con l’omicidio Calipari.
L’Italia, i cui rappresentanti istituzionali avevano fatto la voce grossa con l’India per il «Caso Marò» e che oggi blatera di «verità» per il «Caso Regeni», mentre con Fincantieri continua a vendere armamenti all’Egitto, dimentica il «Caso Lo Porto», che evapora in un silenzio che sembra essere più calcolato, che distratto.
Continuare a chiedere chiarezza sarebbe stato poco «garbato» e opportuno, tanto più se nella «guerra dei droni» promossa da Obama, l’Italia gioca un ruolo non marginale con la base militare di Sigonella, ironia della sorte, nella Sicilia di Lo Porto.
E così, come ha sostenuto Domenico Quirico, giornalista de «La Stampa» che sul caso ha scritto un libro («Morte di un ragazzo italiano», Neri Pozza Editore) Giancarlo «è morto due volte»: prima ammazzato e poi dimenticato.
La sua «colpa è stata quella di essere stato ucciso dagli americani» scrive. «Se uno viene ucciso dagli americani entra in una specie di purgatorio in cui non è più nulla, non è più vittima citabile», dichiarerà in un intervista rilasciata alla rivista «Altraeconomia».
Cancellato dalla memoria
Cancellato dalla memoria istituzionale e collettiva del nostro Paese, Giancarlo non viene menzionato neanche tra le vittime del terrorismo contemporaneo.
Dopotutto era un cooperante di professione, uno che quella vita al servizio degli ultimi ai margini della Terra, se l’era scelta e ben sapeva i rischi cui andava incontro.
«Avrebbe potuto starsene a casa» sentenzierebbe qualcuno e invece Giancarlo partiva. Partiva col suo bagaglio di esperienze. Partiva con la sua conoscenza attenta di una materia oltremodo complessa, qual è quella della Cooperazione allo Sviluppo.
Cooperanti non ci si improvvisa! Giancarlo partiva perché aveva un’idea di mondo che gli imponeva di mettersi al servizio degli altri, di chi vive nel bisogno. Perché era mosso da un senso urgente di altruismo e giustizia; perché credeva forse, che «siamo tutti uno», un’unica grande famiglia, quella umana e la sua solidarietà aveva varcato i confini degli Stati e unito popoli diversi ed etnie distanti. Partiva mosso probabilmente, dal bisogno impellente di tentare, nel proprio piccolo, di ripristinare un equilibrio tra Nord e Sud del Mondo; con l’urgenza, materiale e morale, di sistemare i conti tra quelli che devastano il Pianeta e quelli che ne pagano le conseguenze.
Quello di Giancarlo era più che un lavoro, piuttosto una vocazione fatta di ideali che ti muovono e che danno forma alla tua vita, il cui l’unico modo per estinguerli, mentre ti bruciano dentro, è morire con essi.
Un ragazzo così, nel mondo di oggi, nel mondo che brucia anch’esso di fumo, di violenza e orrore, dovrebbe essere un eroe e invece resta «un errore» e, come tale, è stato cancellato!
Ciao Giancarlo.
Ivana Guagnano