Incombe il problema della Peste Suina Africana di cui non si hanno notizie. L’attività di abbattimento di specie selvatiche che determinano verificati squilibri ecologici ovvero problemi sanitari e di tutela delle produzioni e del patrimonio culturale, non è un’attività venatoria. Per mettere a punto piani di controllo numerico di una specie c’è bisogno di dati raccolti in un lasso di tempo adeguato (anni) ed elaborati su basi scientifiche
La pandemia da Sars-CoV-2 ha ridotto la pressione umana sugli ecosistemi e specie come i cinghiali hanno continuato a proliferare incrementando il numero e, allo stesso tempo, quantità e valore dei danni arrecati anche agli ecosistemi. Aumentati esponenzialmente negli ultimi decenni a causa delle immissioni in natura da parte dei cacciatori, ora i cinghiali rappresentano, ben oltre le opportunità di prelievo venatorio, un rischio per l’economia, già provata, con la Peste suina africana (Psa) dietro l’angolo.
Sulla Peste Suina Africana zero notizie in Puglia
Ci siamo occupati della faccenda chiedendo che si mettesse in atto un programma di prevenzione e di sorveglianza attiva dell’epidemia giunta ormai, proprio con i cinghiali, quasi alle porte del nostro Paese. Nessuno ha risposto a livello regionale; è come se la Psa non fosse affar nostro. E, allora, si parla continuamente, oziosamente, del rischio cinghiali per le colture e per la sicurezza dei cittadini. Così sui mezzi d’informazione vengono riportate (ingigantite) le notizie di «attacchi» da parte di cinghiali nei confronti di bipedi umani. L’ultima, nel Parco regionale dei Castelli Romani, a Castel Gandolfo (residenza estiva papale) con un ragazzino in bicicletta urtato e «morso» da un cinghiale spuntato fuori da un cespuglio. Altri episodi sono accaduti anche in Puglia. Le occasioni sono tali per cui, ad esempio, sui maggiori mezzi d’informazione si chiedono provvedimenti draconiani: una sorta di soluzione finale in stile Goering mediante fucilazione (tipo quella avvenuta a Roma tra i palazzi).
Gli abbattimenti selettivi non sono attività venatoria
Lungi, da parte di chi scrive, affrontare la questione con animo animalista ché non gli appartiene, val la pena ricordare che l’attività di abbattimento di specie selvatiche che determinano verificati squilibri ecologici ovvero problemi sanitari e di tutela delle produzioni e del patrimonio culturale, non è un’attività venatoria ma, appunto di ripristino degli equilibri ecologici. Ed infatti la legge (sulla caccia, n. 157/1992, art. 19) prevede che i piani di controllo delle specie in sovrannumero vengano attuati principalmente con metodi ecologici su parere dell’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra) e solo dopo che lo stesso Istituto abbia verificato l’inefficacia di questi si passi ai piani di abbattimento. Capita a fagiolo che, in questi giorni, la Corte Costituzionale si sia pronunciata sulla legittimità di una legge della Regione Toscana in parte modificando il proprio orientamento espresso ancora nella sentenza n. 217/2018 con cui si escludevano i cacciatori tout-court dall’attuazione dei piani di abbattimento, riservandola agli agenti dei corpi di polizia regionale, provinciale e comunale ed ai proprietari e conduttori dei fondi su cui effettuare le operazioni, purché tutti muniti di licenza di caccia. Un elenco fin ad allora ritenuto «tassativo».
Il cambio di rotta della Consulta
Questa volta, con la sentenza n. 21/2021, la Consulta ha sancito il principio per cui all’attuazione dei piani di abbattimento di specie in sovrannumero (nel caso di specie, il cinghiale), oltre che gli agenti dei corpi di polizia, possano contribuire, sotto il coordinamento dei primi, anche i cacciatori e le guardie giurate formati ed abilitati a seguito di specifico corso con programmi concordati con Ispra. Ciò anche a causa del quadro istituzionale nel frattempo ingarbugliatosi con la perdita di competenze da parte delle province e con lo smembramento dei corpi di polizia provinciale. Insomma, un favore ai cacciatori purché «formati». Nulla quaestio. Ora, però, in Puglia si faccia quel che si deve per ridurre il numero di cinghiali, come prevede la legge. Ossia, fuori dalle aree protette, prima di tutto con metodi ecologici (che sono vari ed anche sperimentali, inclusa a questo punto anche la sterilizzazione chirurgica, e devono essere ponderati) e poi il resto. Il problema vero è che per mettere a punto piani di controllo numerico di una specie c’è bisogno di dati raccolti in un lasso di tempo adeguato (anni) ed elaborati su basi scientifiche. Quello che ancora oggi in Puglia, ad esclusione di un Parco nazionale, non esiste. E si continua a blaterare ed a stracciarsi le vesti.
Fabio Modesti