Disegnare il futuro o è la fine

1767
foto di V. De Palmis
Taranto, foto di V. De Palmis
Tempo di lettura: 3 minuti

Ilva, rinnovabili, semplificazioni

Resta solo da vedere se la politica riuscirà finalmente ad assumersi l’onere di un responsabile cambio di passo. Soprattutto, oltre il governo di Mario Draghi. Ecco la vera scommessa

Mario Draghi nel suo discorso al Parlamento ha affermato, tra l’altro, che la cosa più importante da fare perché il Paese sia in grado di resistere al dopo pandemia, va ben oltre la durata di un governo. Niente sarà più come prima: la pandemia ha sconvolto le relazioni sociali, cambiato i nostri stili di vita, modificato così profondamente perfino i nostri piccoli gesti quotidiani.
La selezione delle attività da proteggere e quelle da accompagnare al cambiamento implica scelte anche dolorose.
Finora l’Italia, fra mille contraddizioni e sprechi inenarrabili di energie umane e risorse finanziarie, è andata avanti senza avere una politica industriale, mettendo a dura prova anche i conti pubblici. È andata avanti grazie alle piccole e medie imprese, spesso seguendo l’onda dell’economia mondiale, quasi sempre in posizione di rincalzo, perché, a differenza degli altri Paesi europei, non riusciamo ad esercitare un’azione consapevole. Senza parlare del peso della burocrazia.
Ora siamo di fronte a scelte che la nostra politica ha sempre accuratamente evitato di fare. Ora bisogna pensare al futuro, e non soltanto ai prossimi cinque anni, ossia l’arco di tempo entro il quale sarà possibile utilizzare i 209 miliardi in arrivo da Bruxelles.
In sostanza il Programma nazionale di ripresa e resilienza dovrà indicare obiettivi non solo per il prossimo decennio ma dovrà essere la base di un piano di politica industriale di ampio respiro che l’Italia non ha da decenni.
Sarà compito del governo proteggere i lavoratori, tutti i lavoratori, ma sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche. Alcune dovranno cambiare, anche radicalmente. E la scelta di quali attività proteggere e quali accompagnare nel cambiamento è il difficile compito che la politica economica dovrà affrontare.
La questione si presenta assai delicata: il ruolo dello Stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione, fermo restando che sarà sempre compito dello Stato utilizzare le leve della spesa per attuare politiche strutturali che facilitino l’innovazione, di politiche finanziarie che facilitino l’accesso delle imprese capaci di accedere al credito e di politiche monetarie e fiscali espansive che agevolino gli investimenti e creino domanda per le nuove attività sostenibili.
La direzione è segnata ed è quella della produzione di energie rinnovabili, dei veicoli elettrici, dell’uso dell’idrogeno, dei treni veloci, della digitalizzazione spinta con la banda larga e le reti di comunicazione sempre più evolute, e della strenua difesa dell’ambiente.
I nodi verranno al pettine molto prima di quanto si possa immaginare. E le soluzioni non si potranno rimandare all’infinito, secondo il copione che è stato seguito finora.
Uno di questi, gigantesco, è già da anni sotto i nostri occhi. Si chiama Ilva ed è l’eredità di quella specie di politica industriale che a cavallo degli anni 60 e 70 credeva di risolvere i problemi dell’occupazione meridionale disseminando il Sud di grandi impianti industriali, senza particolari sensibilità per la tutela dell’ambiente e per il rispetto del territorio.
Il risultato è stato quello di mettere una città come Taranto di fronte al crudele dilemma fra lavoro e salute. Per quanto sarà ancora compatibile l’esistenza di un impianto del genere con la prospettiva di raggiungere l’obiettivo di emissioni zero. Questo interrogativo da solo sta a dimostrare quanto sia grande il problema che l’economia italiana dovrà affrontare.
Non occorrerà intervenire regione per regione, ma settore per settore. Un settore è per esempio l’ambiente. E un modo di difenderlo sarà, per esempio, togliere i camion dalle strade che da Reggio Calabria portano su per l’Italia. Perché mettendo treni non si tolgono solo i camion ma anche tutto il CO2 che cacciano nel cielo. E mettendo treni si fa quanto l’Europa chiede, collegare Stoccolma al Mediterraneo puntando anche sui porti di Gioia Tauro e Taranto. Proprio quelli finora esclusi a favore di Genova e Trieste.
Resta solo da vedere se la politica riuscirà finalmente ad assumersi l’onere di un responsabile cambio di passo. Soprattutto, oltre il governo di Mario Draghi. Ecco la vera scommessa.

Francesco Sannicandro