Il 60% delle infrastrutture idriche italiane ha più di 30 anni e il 25% più di 50 anni. Nonostante il settimo paese in Europa per qualità dell’acqua potabile, siamo primi per il consumo di acqua minerale in bottiglia con conseguente consumo di circa 8 miliardi di bottiglie di plastica
Oggi più che mai in Italia è necessario incentivare la promozione del servizio idrico, favorendo quegli interventi di più ampio respiro volti al superamento delle criticità legate al cambiamento climatico.
Questa risorsa, destinata a diventare sempre più scarsa nei prossimi anni, è troppo spesso data per scontata e l’urgenza di occuparsi di come ridurre lo spreco d’acqua lungo tutta la filiera che la porta alle nostre case, in Italia è ancora molto poco sentita.
Il 22 marzo è stato presentato il Libro Bianco «Valore Acqua per l’Italia 2021», che indaga la relazione tra acqua, economia e sviluppo sostenibile.
Il Libro Bianco contiene la prima mappatura completa della filiera estesa dell’acqua in Italia, che mette a sistema i contributi di tutti gli operatori del settore, dai gestori della rete agli erogatori del servizio, dall’agricoltura all’industria, dai provider di tecnologia alle istituzioni preposte.
Un Paese inadeguato
Il rapporto evidenzia che l’Italia è un Paese che, a causa di un livello di investimenti inadeguato, si trova agli ultimi posti nella classifica europea. Infatti, ad un’alta vulnerabilità climatica, si accompagna una rete infrastrutturale obsoleta (60% delle infrastrutture idriche italiane ha più di 30 anni e il 25% più di 50 anni) e disperde quasi la metà dell’acqua prelevata per uso potabile.
Inoltre, i consumi d’acqua in Italia sono tra i più alti d’Europa e, nonostante il settimo paese in Europa per qualità dell’acqua potabile, siamo primi per il consumo di acqua minerale in bottiglia con conseguente consumo di circa 8 miliardi di bottiglie di plastica (solo 1/3 riciclabili), la cui produzione ha generato oltre 1,2 milioni di tonnellate di CO2.
In termini di contributo all’occupazione, se si considerasse il ciclo idrico esteso come un unico settore, si posizionerebbe come 2° comparto industriale per crescita occupazionale.
Ma il settore soffre di un limitato tasso di investimento. Con 40 Euro per abitante all’anno (rispetto a una media europea di 100 Euro), l’Italia è agli ultimi posti nella classifica europea per investimenti nel settore idrico.
Con 153 m3 annui pro capite, l’Italia è il 2° Paese dell’Unione europea per prelievi di acqua ad uso potabile (due volte superiore rispetto alla media europea). Inoltre, con 200 litri pro capite consumati all’anno, è il 1° Paese al mondo per consumi di acqua minerale in bottiglia (rispetto a una media europea di 118 litri).
Da un punto di vista della sicurezza nazionale l’acqua costituisce una reale vulnerabilità: il 21% del territorio nazionale è infatti attualmente a rischio di desertificazione con eventi siccitosi sempre più frequenti che stanno colpendo le principali fonti idriche del Paese.
L’Italia è, quindi, un paese ad elevata vulnerabilità climatica, intesa come la scarsa capacità di adattamento a eventi legati al cambiamento climatico.
Cosa si può fare
Come si può migliorare la situazione? Per garantire a tutti i cittadini l’accesso a un’acqua potabile di qualità e per essere sicuri di restituire all’ambiente, attraverso la depurazione, una risorsa utile al ciclo della vita, l’innovazione tecnologica è imprescindibile: oltre a rendere «parlante» una enorme mole di dati, essa rappresenta infatti lo strumento principale per accordare l’analisi delle acque ai processi di una società in continua evoluzione, una società di cui quelle stesse acque sono una cartina di tornasole tanto indicativa quanto mutevole.
In base alla vocazione di ogni singolo territorio, più industriale in un caso e più agricola nell’altro, occorre modulare di conseguenza i piani di controllo, cercando ogni volta di pervenire alla più efficace azione dei protocolli europei per il controllo di tutte le fasi della filiera di produzione e distribuzione dell’acqua potabile.
Altrettanto importante è il trattamento delle acque reflue: depurare, infatti, non significa necessariamente rimuovere ogni sostanza rilevata bensì capire, per ogni ecosistema di ricezione e per ogni riuso atteso, quale particolare grado di depurazione bisogna raggiungere.
Il quadro sin qui delineato aiuta a precisare la natura della resilienza che, nel corso degli anni, ha permesso di garantire non soltanto la continuità ma anche l’efficienza di un servizio idrico integrato che sta dimostrando di poter superare stress sistemici di varia natura. Tale resilienza, in particolare, da un lato ha carattere reattivo, e riguarda la capacità (infrastrutturale, certo, ma anche e soprattutto umana) di «reggere l’urto» a fronte di shock specifici: mi riferisco, evidentemente, a eventi calamitosi come alluvioni, esondazioni e siccità, ma anche a quegli stravolgimenti improvvisi dell’ecologia organizzativa che abbiamo conosciuto e stiamo tuttora gestendo per effetto del Covid-19.
Se i cittadini non hanno avvertito variazioni significative nel livello qualitativo di erogazione di servizio, una parte importante del merito va cioè riconosciuta a chi, sul campo e ogni singolo giorno, ha deciso di buttare il cuore oltre l’ostacolo, attingendo a risorse interiori che non erano contemplate da nessuna job description e per le quali arrivo perfino a dubitare che esista una formazione specifica.
Dall’altro lato, però, si stanno rivelando anche gli effetti di una resilienza soprattutto adattiva, che lavora su tempi più lunghi, sottotraccia, ma che non è meno importante. La sfida all’adattamento si vince solo con un’evoluzione convergente dei comportamenti di tutti, compresi quei singoli cittadini che usando l’acqua in maniera responsabile possono aiutarci a fare la differenza.
In questa logica, d’altronde, è altrettanto importante la dimensione dell’innovazione tecnologica: solo sfruttando le più avanzate tecnologie, infatti, è possibile mettersi nelle condizioni di trasformare il plesso dei propri asset in qualcosa di elastico, che sappia rimodularsi in maniera sensibile, tempestiva e performante sulla base dei trend in atto, a partire, senza dubbio, da quelli climatici.
Proprio per questo, l’aspetto qualificante di una tale innovazione tecnologica è dato dal suo ampio ricorso ad apparecchiature che portino l’inorganico verso uno stadio senziente e a sistemi che con intelligenza traducano questa grande mole di dati in operazioni conseguenti. Tutto ciò comporta l’affermazione di un modello di impresa che faccia leva sull’internet delle cose e sull’intelligenza artificiale per massimizzare la propria capacità adattiva, coniugando esseri umani sempre più tecnologici a tecnologie sempre più umane.
Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia