Si deve investire nel lavoro, nella sanità, nella scuola, nella formazione e nella cultura rendendo visibile, attraverso ogni canale, una alternativa di vita alla disoccupazione delle periferie urbane. Certo, nessuno si illude di invertire la rotta, ma offrire occasioni reali di lavoro ai disoccupati di città e salvaguardare il paesaggio è già un obiettivo straordinario. Collaborazione attiva tra città ed entroterra significa provare a nutrire un pianeta in cui l’ecosistema sta precipitando
La storia del siderurgico di Taranto, lo stabilimento più importante d’Europa del comparto, affonda le sue radici all’inizio degli anni 60. È figlio di una concezione industriale radicata in quell’epoca che è rimasta pressoché immutata sino ad oggi. Una concezione che, in ossequio alla visione fordista di fabbrica, ha sempre messo al centro la produzione e le ricadute economiche della stessa, senza considerare, se non marginalmente, sia la tutela dei lavoratori sia la salubrità dell’ambiente su cui lo stabilimento insite. Men che meno le ricadute in termini sanitari dello stress ambientale sulla salute dei cittadini del quartiere Tamburi e dell’intera città di Taranto.
Trattare un tema scottante come quello dell’inquinamento ambientale comparandolo a quello per la mancanza di un lavoro che permetta di sopravvivere, è alla base del dramma di chi deve scegliere «tra morire di fame o di lavoro».
Da una parte medici che ogni giorno cercano di curare malattie dovute ai veleni degli impianti industriali e dall’altra genitori che accettano di lavorare in questi luoghi pur di guadagnare e portare a casa uno stipendio. Diritto alla salute e diritto al lavoro che si scontrano e che portano a un’inevitabile catastrofe.
Il problema dell’inquinamento ambientale non riguarda solo l’acciaieria Ilva di Taranto: è una questione nazionale, anzi, mondiale.
Il dato che più sconvolge è scoprire che l’incidenza dei tumori infantili in prossimità di un’azienda siderurgica, è superiore al 30% rispetto alla media nazionale.
È quindi simbolo della lotta di tantissimi costretti a vivere in una nube di polvere rossa provocata da un’acciaieria. Un mondo fatto di bambini che lottano e di altri che scompaiono prematuramente conducendo una battaglia contro quell’ecomostro si potrà mettere un punto di fine a quelle tragedie.
Il polo industriale e la salute
La città di Taranto ha una grande importanza per l’economia italiana. È sede di un grande porto industriale, commerciale e militare, dell’arsenale della Marina militare italiana e di un importante centro industriale con stabilimenti siderurgici (tra i quali l’Ilva, il più grande centro siderurgico d’Europa), petrolchimici (raffinerie Eni), cementiferi (Cementir) e di cantieristica navale.
L’Ilva di Taranto è uno stabilimento industriale di vaste dimensioni che produce acciaio: la più grande industria per la produzione dell’acciaio d’Europa e tra le prime 10 al mondo. L’Ilva era nota come Italsider ed era di proprietà dello Stato che (tramite l’Iri) nel 1934 rilevò l’azienda. Nel 1965 avvenne la fondazione del quarto centro siderurgico di Taranto.
Dagli anni Novanta, anche a seguito di diversi studi condotti dall’Oms, il Comune di Taranto e altri comuni della zona (Crispiano, Massafra, Statte e Montemesola) sono stati definiti «area a elevato rischio ambientale»; successivamente sono stati inclusi tra i 14 siti a interesse nazionale che richiedevano interventi di bonifica. Infatti da analisi epidemiologiche dei residenti sono emersi tassi di mortalità per tumore del polmone, della pleura e della vescica superiori a quelli regionali. L’impianto a Taranto permette l’arrivo via mare delle materie prime, che vengono scaricate dalle navi su nastri trasportatori a cielo aperto e li conducono fino al parco minerario. Il parco è anch’esso a cielo aperto ed è, in sostanza, una montagnetta di minerale situata proprio a ridosso del quartiere Tamburi e del Comune di Statte. Questa vicinanza e il fatto che il minerale non viene ricoperto comporta la dispersione nell’aria del minerale stesso sotto forma di polveri.
A riprova dello sversamento nell’aria di un’ enorme quantità di queste polveri che investono prevalentemente le aree limitrofe all’acciaieria dell’Ilva, ci sono le misurazioni e le relazione tecniche dell’Arpa (Agenzia regionale per la prevenzione e la protezione dell’ambiente).
Complessivamente, il profilo di mortalità della popolazione residente nell’area di Taranto mostra un andamento temporale e una distribuzione geografica che sono in linea con la cronologia e la distribuzione spaziale dei processi produttivi ed emissivi che caratterizzano l’area industriale inserita tra i «siti di bonifica di interesse nazionale» (Sin).
«Riva boia». «Tumori e disoccupazione made in Ilva». «Salute vince lavoro». «Diossina ti odio». Parlano i muri di Taranto. Ma anche loro hanno la voce rauca del tempo e della malattia: sono rosa come la polvere dei minerali che volano (volavano) dalle montagne del siderurgico.
Scrostati da dieci anni di battaglie, indeboliti dal tempo, anche i murales sembrano aver preso la forma di quello che sta succedendo a una città che sembra non aver più voglia di tifare, e forse nemmeno di lottare: c’erano gli operai che campavano grazie all’acciaio e quelli che morivano per colpa dell’acciaio, sembrava che la dicotomia tra due diritti, la salute e il lavoro, fosse destinata a rompere tutto, e non a caso qui era nato il primo re dei populisti, Mario Cito.
La battaglia politica
C’era la frase che sentivi ovunque, a Roma e a Bari, «Taranto sta per scoppiare». C’è rabbia e paura. Poi, invece, tutto questo non c’è più: c’è «Rassegnazione, disincanto». «Sono dieci anni che sembra dover cambiare tutto. E invece siamo sempre qui: a combattere con la cassa integrazione, con i parenti e amici che si ammalano, con il padrone di turno dell’azienda che ci offre soluzioni a brevissimo termine. Ora come dieci anni fa».
Era l’estate del 2012 quando sembrava che tutto dovesse cambiare. Gli impianti furono messi sotto sequestro. Per la prima volta un giudice aveva messo nero su bianco che Taranto era nera (nel senso del cielo, inquinato) e lo era per colpa delle emissioni del siderurgico. Nero era anche il presente e il futuro dei suoi cittadini: si ammalavano più del resto dei pugliesi, e sarebbe accaduto ancora per chissà quanto. «Danno sanitario» si chiama. Sembrava dovesse cambiare tutto. Sono passati governi come automobili su un’autostrada: Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II, ora Draghi.
Nel frattempo è stato detto: «Se vinciamo, chiuderemo il mostro» (Di Battista) e «Abbiamo vinto, ma non possiamo farlo» (Di Maio). Hanno arrestato un procuratore della Repubblica, Carlo Maria Capristo, ora in pensione e sotto processo; mentre quello precedente, Franco Sebastio, dopo la pensione si è invece candidato alle elezioni, senza fortuna.
Un processo, anzi il processo, quello sul disastro ambientale, è cominciato ma non si è arrivati ancora alle richieste di condanna. Operai, abitanti del quartiere Tamburi, allevatori, case di cura, organizzazioni sindacali, partiti, movimenti, istituzioni. C’è quasi tutta Taranto tra le circa 800 parti civili che fino a pochi giorni fa dinanzi alla Corte d’assise, nel processo Ambiente svenduto sulla gestione Riva, ha chiesto attraverso i loro avvocati i risarcimenti per i danni causati dell’ex Ilva. E tra i danneggiati non ci sono solo realtà economiche, ma anche una parte dell’identità del territorio. Come quella rappresentata dai mitilicoltori tarantini, gli allevatori delle «cozze di Taranto» che fino a qualche anno fa erano una delle prelibatezze vantate dal territorio ionico.
È bene annotare, nove anni dopo, che tutto questo è costato 23 miliardi di Pil secondo un calcolo del «Sole 24 ore», l’1,35 per cento della ricchezza nazionale; si è speso quasi un miliardo di euro, tra opere di ambientalizzazione (come la mastodontica copertura dei parchi minerari), ammortizzatori sociali, compensi agli amministratori. E altri 400 di soldi pubblici sono pronti a essere investiti perché Invitalia sta per entrare nel capitale e affiancare Arcelor Mittal: il provvedimento è alla firma del Mef, ma ora chissà cosa accadrà.
Un futuro incerto
Sì, perché in questi nove anni è successo tutto questo. Ma quando si è partiti c’era una fabbrica che inquinava e ventimila operai che rischiavano il posto di lavoro. E oggi c’è sempre una fabbrica che inquina e quindicimila operai (gli altri nel frattempo sono in pensione, hanno un altro lavoro, molti se ne sono andati, e basta) che rischiano il posto di lavoro. «Il futuro vorremmo scriverlo in maniera diversa» dice però il sindaco, Rinaldo Melucci, con una buona dose di ottimismo.
Melucci ha firmato il 27 febbraio, dopo la segnalazione di puzza immonda da centinaia di cittadini (anche in questo caso nello scetticismo e il silenzio generale) un’ordinanza che chiudeva l’area a caldo dell’Ilva. Tempo fa sarebbe venuto giù tutto.
E invece quasi non se n’è accorto nessuno. Arcelor l’ha impugnata al Tar sostenendo, con l’appoggio di Ministero e Ispra, che odori ed emissioni non erano loro riconducibili. E tutti erano convinti che sarebbe finita nell’ennesima palude. E invece no: il tribunale amministrativo ha dato ragione al Comune ma soprattutto piazzato schiaffi a tutti.
Ad Arcelor, al vecchio governo, agli organi di controllo (Ispra), dando 60 giorni di tempo per spegnere tutto. L’azienda ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato. Spiegando che «la fermata dell’area a caldo comporterebbe in ogni caso un totale blocco della produzione dello stabilimento, la cui produzione, a norma di legge, è invece assolutamente necessaria a mantenere e salvaguardare l’unico impianto sul territorio nazionale a “ciclo integrato” per la produzione di acciaio».
Tradotto, se spegniamo, chiudiamo. E mandiamo a mare mezza industria italiana. Anche in questo caso, silenzio. Non un ministro, non una manifestazione, qualche voce preoccupata di Confindustria e sindacato, qualche ambientalista incavolato. «Se succede? Succede», dice Marco De Giorgio, fuori dai cancelli, ci sono quattro gradi e molto vento. «Ci daranno la cassa integrazione, magari è meglio di questo limbo».
Il Comune ha pronto un piano di transizione verso i forni elettrici, la Procura si è mossa ufficialmente e potrebbe chiedere la revoca della facoltà d’uso (la cokeria è sotto sequestro), Massimo Bray, l’ex ministro della Cultura, che è venuto in Puglia a fare l’assessore di Michele Emiliano con Taranto nella testa e l’Europa all’orizzonte, ragiona: «Non si può pensare al futuro senza essere convinti di non essere soli. Taranto è una città che ha bisogno di innovazione e di prevenzione, che sono parole che possono sembrare diverse ma in realtà si assomigliano».
Ecco, la maledizione di Taranto è diventata quella di non credere più alle parole. «Ci avete rotto le cozze» è scritto verso il porto. La verità è sempre sui muri.
La crisi che sta portando il coronavirus ci ricorda quanto importante sia la collaborazione. Dobbiamo riprendere il concetto di comunità e investire sulle persone se vogliamo far crescere il benessere collettivo. La comunità è la base per creare ponti tra città ed entroterra. Abbandonare l’altro e lasciarlo annegare nei problemi porta solo scontri e guerre. Qualunque libro di storia potrebbe confermarlo. Creare, quindi, comunità nel nostro entroterra per sviluppare una reale sinergia con la città.
Dobbiamo dare vita a un processo di inclusione che distribuisca lavoro e benessere su tutto il territorio nazionale attraverso una decentralizzazione capace di dare forza a un nuovo progetto di vita in cui città e paesi, tecnologia e paesaggio vanno a braccetto e trovano sviluppo reciproco nella collaborazione. Dobbiamo investire in una convivenza basata su nuovi stili di vita e di produzione in cui tutto il territorio contribuisce al benessere collettivo e tutto il territorio va difeso e tutelato.
Si potrebbero migliorare i finanziamenti e i contributi a fondo perduto per le imprese agricole e per chi vuole aprire attività in campagna; snellire una assurda burocrazia che ignora ogni logica legata alla campagna; concedere terreni comunali abbandonati a famiglie che scelgono di occuparsene e vivere con ciò che producono e vendono; agevolare le aziende che decidono di creare sedi nell’entroterra piuttosto che nelle periferie urbane; non chiudere i piccoli ospedali nei paesi, come ci insegna il coronavirus; aumentare il numero di scuole nei piccoli centri o aumentare le navette che rendano più facile la vita agli studenti dell’entroterra; investire nell’offerta culturale attraverso biblioteche ed Ecomusei capaci di creare cultura, eventi e attrazione turistica in tutto l’arco dell’anno e non solo in estate.
Ma soprattutto bisognerebbe investire nella Formazione: una scuola che recupera antichi lavori artigianali attraverso la valorizzazione di prodotti del territorio. In questo processo la tecnologia riveste un ruolo di primissimo piano aiutando a produrre meglio, con meno fatica e con un impatto diverso sugli ecosistemi.
Insomma, bisogna semplificare la vita a chi sceglie di vivere in montagna, in campagna o comunque in piccoli centri.
Dobbiamo creare le condizioni che possano aiutare i disoccupati di città a cercare lavoro in campagna perché ne avrebbe beneficio sia la loro vita, sia l’ecosistema. Se non rendiamo più accettabile la vita nell’entroterra nessuno mai abbandonerà la città dove è più facile trovare supermercati, farmacie, cinema e gente da incontrare per strada o al bar.
In questa interazione tra città e entroterra anche la cultura riveste la sua importanza, perché solo facendo passare il concetto che il paesaggio è uno straordinario patrimonio della nostra civiltà potremo rendere appetibile la vita in piccoli centri. Si pensi all’Unesco che, decretando i muretti a secco Patrimonio immateriale dell’umanità, restituisce rispetto e dignità alla maestria artigiana e al lavoro in campagna.
Quindi si deve investire nel lavoro, nella sanità, nella scuola, nella formazione e nella cultura rendendo visibile, attraverso ogni canale, una alternativa di vita alla disoccupazione delle periferie urbane. Certo, nessuno si illude di invertire la rotta, ma offrire occasioni reali di lavoro ai disoccupati di città e salvaguardare il paesaggio è già un obiettivo straordinario. Collaborazione attiva tra città ed entroterra significa provare a nutrire un pianeta in cui l’ecosistema sta precipitando.
Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia