Due ricercatori del Dipartimento di Economia dell’Università di Foggia, Ruggiero Sardaro e Piermichele La Sala, hanno pubblicato uno studio condotto in Basilicata. Evidenziata una potenziale domanda focalizzata sulle donne dai 50 anni in su e un valore riconosciuto della lana per gli allevatori di 55 euro per ciascun animale (22 euro/kg)
Un rifiuto, un sottoprodotto. Tecnicamente una materia prima seconda che diventa, appunto, rifiuto se non la si usa in un ciclo produttivo. Tale è la lana. Incomprensibilmente, si dirà. E sarà sempre presente perché le pecore vanno comunque tosate oggi al costo di circa 3 euro a capo. Nell’ecolalìa dell’economia circolare, della transizione ecologica, che molte volte diventa transazione, la lana non ha un suo meritatissimo posto. Eppure la lana è stata traino dell’economia anche dopo la rivoluzione industriale.
Fermandoci alla sola Puglia, si ricordano ancora i maglifici operanti almeno fino a tutti gli anni 70 del secolo scorso nella periferia del capoluogo di regione con i negozi in centro città a venderne i prodotti. E ci si ricorda dei materassai che lavoravano con la lana nell’hinterland barese di sud-est. La lana, fino almeno alla seconda guerra mondiale, costituiva il 75% del prodotto lordo vendibile di un gregge di circa 250 capi. Progetti sul recupero della lana come fattore economico dell’attività zootecnica se ne contano sulle dita di una mano. Tra i più significativi, quello condotto dal parco nazionale dell’Alta Murgia e dal nome evocativo «PartnerSheep».
Nei tre anni (2012-2014) di sperimentazione, sono state coinvolte 104 aziende zootecniche nel parco e si è giunti alla trasformazione della lana in un prodotto inserito in una filiera nazionale con valori di mercato e standard qualitativi sempre più elevati. Ma il progetto si è fermato alla sperimentalità. Lo scorso marzo, due ricercatori del Dipartimento di Economia dell’Università di Foggia, Ruggiero Sardaro e Piermichele La Sala, hanno pubblicato uno studio condotto in Basilicata.
Oggetto della ricerca una razza ovina autoctona pugliese, la pecora Gentile di Puglia, a rischio di estinzione a causa dei bassi livelli di produzione, dei bassi valori di mercato di latte e carne e della sostituzione della lana con fibre sintetiche o con lana a basso costo proveniente dal sud-est asiatico. Dalla metà degli anni 60 del secolo scorso al 2013 la popolazione di Gentile di Puglia in Basilicata è passata da mezzo milioni di capi ad appena 2.869 animali, concentrati in poche decine di allevamenti. Ma la lana di questa razza è rinomata e quindi, affermano i ricercatori foggiani, «alla luce di una possibile strategia di conservazione, lo studio indaga il mercato prospettico per un capo (pullover) prodotto con lana di Gentile di Puglia, e tessuto con tecniche tradizionali» con l’obiettivo di «analizzare le preferenze dei consumatori, il mercato di penetrazione di questo prodotto innovativo e il nuovo valore della lana per gli allevatori».
I risultati, si legge nello studio, hanno evidenziato una potenziale domanda focalizzata sulle donne dai 50 anni in su e un valore riconosciuto della lana per gli allevatori di 55 euro per ciascun animale (22 euro/kg). Questa nuova entrata potrebbe consentire di ridurre la differenza di margine lordo tra la Gentile di Puglia e la pecora Comisana, razza non autoctona ma molto diffusa, ad allevamento intensivo dal 57% al 3%. La produzione di ulteriori capi in lana per una domanda più ampia potrebbe aumentare la sostenibilità economica di Gentile di Puglia, rendendola ancora più preferibile rispetto ad altre razze altamente produttive.
Ora, nella fase di predisposizione del programma di sviluppo rurale pugliese 2021/2027 e dei progetti per il Recovery Fund, ci vorrebbe la buona volontà di lanciarsi nel recupero della lana come fattore economico per le imprese agro-zootecniche. Per alcuni ottimi motivi. Perché l’allevamento estensivo di ovini aiuta al mantenimento di uno degli habitat che più dobbiamo proteggere, cioè la pseudosteppa mediterranea; perché la lana è un prodotto naturale la cui trasformazione innesca virtuosi processi economici anche industriali; perché è una delle poche ancore di salvezza per le imprese agricole che vogliono definirsi sostenibili; ed ancora perché, insieme al latte ed alla carne di pecora, è parte importante della nostra storia e del nostro possibile futuro.
Fabio Modesti