Puglia, sicuro che le rinnovabili siano green?

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Si punta a creare una hydrogene valley ma i costi e le tecnologie ancora in divenire sono un grosso punto interrogativo. Inoltre nelle proposte pugliesi per il Pnrr non c’è un solo intervento per il restauro naturalistico di territori, in grado di catturare e stoccare molta più CO2 di quanto si chieda ad un impianto da rinnovabili di evitarne la produzione

Si ha un bel dire nel sostenere lo sviluppo in Puglia delle fonti rinnovabili per produrre energia comunque e dovunque. Si ha un bel dire nel perorare la causa dell’installazione su tutto il territorio regionale di impianti industriali eolici, fotovoltaici ed a biomasse per produrre idrogeno (il nuovo sacro Graal) perché «ce lo chiede l’Europa e bisogna attuare il Piano nazionale di ripartenza e resilienza, Pnrr» approvato poco tempo fa da Bruxelles. Si ha un bel dire che questo serva a salvare il Pianeta e la natura, se poi la legge pugliese n. 34/2019, appunto per lo sviluppo della filiera dell’idrogeno, aspetta ancora d’essere attuata.

È vero che il Pnrr ha tra i suoi obiettivi quello della produzione locale di idrogeno e «l’uso di idrogeno nell’industria e nel trasporto locale, con la creazione delle cosiddette hydrogen valleys, aree industriali con economia in parte basata su idrogeno». È vero pure che lo stesso Pnrr, per contenere i costi, afferma che «verranno utilizzate aree dismesse già collegate alla rete elettrica (è prevista quindi in primis una mappatura delle aree in questione), per installare in una prima fase elettrolizzatori per la produzione di idrogeno mediante sovra-generazione Fer o produzione Fer dedicata nell’area. L’obiettivo dell’investimento è quindi utilizzare le infrastrutture esistenti, se compatibili, per una serie di servizi energetici, con una produzione prevista in questa fase di 1-5 MW per sito». Ancora, è vero che il ministro per il Sud e la coesione territoriale, Mara Carfagna, ha dichiarato a «la Repubblica-Bari»  che «in Puglia esistono le condizioni ideali per la nascita di una hydrogene valley».

Il Pnrr, quindi, punta sulla produzione di idrogeno da impianti da fonti rinnovabili dedicati utilizzando aree industriali preferibilmente dismesse e collegate alla rete elettrica. L’insediamento di nuovi impianti industriali eolici e fotovoltaici dovrebbe quindi riguardare le aree industriali, esattamente come prevede il Piano paesaggistico regionale, e si potrebbero anche utilizzare i tanti impianti eolici e fotovoltaici che ormai assediano la Puglia, Regione che ha superato abbondantemente la quota di produzione di energia eolica assegnata in funzione degli impegni per il clima assunti a livelli internazionale dall’Italia, il cosiddetto burden sharing. Ma, evidentemente, tra il dire ed il fare di mare ne passa tanto perché la produzione di idrogeno da fonti rinnovabili richiede tecnologie ancora in divenire, tempi molto lunghi e, soprattutto, costi troppo ingenti per essere competitivi.

Molti esperti del settore energetico ritengono, infatti, che «l’idrogeno verde in Italia costerà ben di più di quello blu con Ccsu (carbon capture and storage and use) e sarà utile partire con un iniziale utilizzo (al limite transitorio) dell’idrogeno blu per far crescere una domanda con costi più accessibili».

Gli stessi esperti affermano che sia necessario «ricordarsi del “problema acqua”; un impianto elettrolizzatore consuma oltre 20 litri di acqua per ogni kg di idrogeno prodotto, oltre il doppio del valore stechiometrico» e raccomandano di «procedere con cautela nel proporre, ora, troppo ottimistici tempi e bassi costi energetici per l’idrogeno che, anche con il valore mantra tanto declamato a circa 1 €/kg di idrogeno, al 2050 equivarrebbe a 30 €/MWh a bocca di elettrolizzatore rispetto ai 13 €/MWh del mercato in borsa nel 2020 del gas Ue che, per arrivare ad una valorizzazione di 30 €/MWh, dovrebbe considerare una CO2 valutata a 100 €/t». Chi sostiene che bisogna installare più impianti eolici, fotovoltaici ed a biomasse, quindi, potrebbe cimentarsi con quel che già c’è e vedere se e come funziona. Al contempo, però, la spinta così «green» che alberga in chi propugna l’uso industriale così massiccio di sole, vento e legname (in Puglia, sic!), dovrebbe (perché ce lo chiede l’Europa) portare a battersi per tutelare almeno il 30% della superficie terrestre regionale, ed anche almeno il 30% della superficie marina pugliese, mediante l’istituzione di aree protette. Lo chiede l’Europa con la sua Strategia per la biodiversità e lo ha ribadito la presidente della Commissione Ue qualche giorno fa. Ma in Puglia siamo ancora indietro rispetto a questi obiettivi, soprattutto per superficie marina. Questi impegni sfuggono all’attenzione politica in favore di drammatici dati di ulteriore consumo di suolo (nel 2020 si sono persi ulteriori quasi 500 ettari di suolo libero) derivante anche da impianti fotovoltaici. Impegni che sfuggono con tale evidenza che nelle proposte pugliesi per il Pnrr non c’è un solo intervento per il restauro naturalistico di territori, in grado di catturare e stoccare molta più CO2 di quanto si chieda ad un impianto da rinnovabili di evitarne la produzione. Il «green deal» rischia così di diventare qui in Puglia «green kill» di paesaggio e di risorse naturali.

 

Fabio Modesti