Occorre rilanciare gli investimenti pubblici, attuare una politica industriale specifica per il Mezzogiorno, proprio per l’innovazione ambientale, che metta in rete eccellenze pubbliche e private. Per farlo, bisogna riorganizzare lo Stato nel Mezzogiorno. Un’amministrazione pubblica amica dello sviluppo ha bisogno di recuperare efficienza ma anche di risorse
Per dirla con Giuseppe Provenzano, profondo conoscitore dei problemi del Sud, il Mezzogiorno non «è un vuoto a perdere», perché ci sono «potenzialità inespresse» soprattutto in materia di sviluppo sostenibile.
Il Mezzogiorno è il luogo geografico in cui si combinano e si accentuano tutte le fratture della società italiana, di genere e generazioni, sociali e demografiche, di cittadinanza. Sette anni di recessione ininterrotta dell’economia, poi una ripresa troppo debole, ora lo spettro di una nuova recessione, hanno avuto un impatto devastante perché si sono abbattuti su un tessuto economico e sociale già fragile.
Il Sud è stato penalizzato non solo per gli investimenti pubblici che mancano, ma anche per la spesa corrente insufficiente per il fabbisogno della pubblica amministrazione. Ciò ha comportato l’esplodere di una enorme questione sociale, un deterioramento della capacità di offrire servizi ai cittadini ed alle imprese.
Ma il Sud, va evidenziato, è inserito nelle grandi trasformazioni della società italiana e dell’economia mondiale. È un’area particolarmente reattiva: nel 2015, in occasione della chiusura dei fondi europei, con un investimento pubblico leggermente maggiore, è andato meglio del Centro-Nord. Insomma non è destinato a rimanere fuori dai processi di sviluppo.
Può essere l’occasione per un rilancio dello sviluppo e per l’accelerazione del tasso di crescita per l’intero Paese.
Il suo destino non è restare fuori
Il Mezzogiorno è un territorio molto esteso e ricchissimo di risorse naturali. Necessitano investimenti perché il Paese possa raggiungere un modello di sviluppo economico che si fondi sulla sostenibilità ambientale: una parte di Italia, senza un coordinamento strategico, lo sta facendo di suo, senza il contributo della politica.
Per questo serve un disegno strategico anche perché è ormai evidente a tutti che la questione ambientale è saldamente collegata alla questione sociale.
Un Green New Deal per l’Italia, che crei posti di lavoro proprio investendo sull’economia verde e sull’economia circolare, può parlare del Paese di domani proprio se assume la prospettiva del Sud. Guardare alla sostenibilità ambientale non come ad un vincolo, ma come una grandissima opportunità di sviluppo, innovazione e competitività. Una opportunità per valorizzare le aree naturali e protette, restituire centralità alle aree interne e rurali, rigenerare il patrimonio di piccoli Comuni.
La Legge Quadro sulle aree protette (L. n. 394/91), che disciplina l’uso del territorio protetto, tentando di superare una tendenza alla «museificazione» dell’ambiente, in realtà non è riuscita a soddisfare le attese. I suoi strumenti attuativi non si sono dimostrati in grado di innescare il circolo virtuoso della tutela attiva del territorio.
Allo stato attuale, infatti, le politiche di tutela della qualità ambientale presentano ancora un carattere meramente «difensivo», mancando di quella forte tensione progettuale necessaria a rimuovere le ragioni strutturali dei rischi e del degrado ambientale.
Da un lato vi sono strategie conservative fortemente «localizzate», dall’altro la ricerca di sinergie tra i sistemi economici e quelli ecologici, secondo forme innovative di interazione tra ambiente e società. La causa di questa politica va ricercata nell’aver rivolto l’attenzione, in primo luogo, alle pratiche di conservazione del patrimonio culturale e naturale, e, in seconda istanza, alla necessità di una strategia efficace per la gestione del territorio basata sul coinvolgimento degli Enti locali e degli attori sociali.
Necessita, quindi, l’elaborazione di una nuova strategia che, oltre ad orientare le scelte programmatiche e progettuali nella direzione dello sviluppo sostenibile, deve prevedere una metodologia di verifica, di carattere tecnico-scientifico, finalizzata al controllo degli impatti di qualsiasi intervento di uso delle risorse nelle aree protette. Occorre, pertanto, procedere ad una valutazione dello stato dell’arte, al fine di metterne in evidenza i limiti e le problematiche, ma anche i pregi e le potenzialità.
Non solo il rilancio, ma, in ultima analisi, la sopravvivenza stessa delle aree protette, richiede che si imbocchi con decisione nuove strade basate sulla sinergia tra la conservazione per le generazioni future del patrimonio naturale e lo sviluppo socio-economico della popolazioni residenti.
C’è una questione ambientale
La «questione ambientale», posta in questi termini, conduce all’abbandono dei vecchi sistemi di intervento sull’ambiente, caratterizzati da episodicità, estemporaneità e, spesso, inefficacia, a favore di un approccio globale e integrato del problema, che veda coinvolti sia la sfera istituzionale sia il sistema sociale e produttivo.
Come si è innanzi accennato è poi necessario soffermarsi sulle politiche dedicate alle aree interne, ossia su quelle aree significativamente distanti dai centri di offerta dei servizi essenziali (istruzione, salute, mobilità). Si tratta di territori caratterizzati da condizioni di svantaggio infrastrutturale e socio-economico, ma nel contempo ricchi di importanti risorse ambientali e culturali.
Le cosiddette «terre d’osso» hanno subìto gradualmente un processo di marginalizzazione segnato, in particolare, dal calo della popolazione, dalla riduzione dell’occupazione e dell’utilizzo del territorio, dal degrado del patrimonio culturale e paesaggistico. Per decenni, pertanto, le aree interne sono state considerate solo come zone marginali e difficili, luoghi segnati dallo spopolamento e dalla rarefazione produttiva, territori nei quali intervenire secondo logiche assistenziali, piuttosto che mediante precise strategie di programmazione.
Sul piano politico, l’obiettivo è stato quello di contrastare i problemi demografici e rilanciare le aree interne, a partire dal miglioramento della quantità e qualità dei servizi essenziali al riassetto istituzionale, alla tutela attiva del territorio, alla valorizzazione delle risorse naturali e culturali, alla rinascita delle filiere produttive locali.
Sono state coinvolte Regioni, Comuni e popolazioni locali al fine di individuare gli interventi più idonei in considerazione delle specificità dei territori e dare spinta alle dinamiche positive in atto.
Per raggiungere gli obiettivi indicati dalla strategia nazionale è indispensabile, in primis, l’adeguamento e lo sviluppo dei servizi essenziali di salute, mobilità e istruzione. La scarsa accessibilità ai servizi di base riduce infatti il benessere della popolazione locale e rende poco appetibili tali territori per i nuovi potenziali residenti.
In particolare, quanto al tema «salute», occorre accrescere il numero e la qualità dei presidi sanitari territoriali, ridurre i tempi di arrivo del primo soccorso, promuovere servizi di assistenza domiciliare. Tante sono le best practices sperimentate nelle aree-pilota: introduzione di figure professionali innovative come l’infermiere o l’ostetrica di comunità, la predisposizione di strumenti di telemedicina, il superamento del digital divide.
Sul piano economico, una delle strade per lo sviluppo delle aree interne è quella del partenariato tra le imprese (in primis, tra quelle del settore primario). La collaborazione tra i diversi operatori economici è ritenuta fondamentale per sfruttare al meglio il potenziale produttivo del patrimonio agricolo-forestale, con ricadute positive sia in termini di redditività netta della terra sia sul versante occupazionale.
La carta del turismo
Numerosi sono i contratti di rete stipulati tra imprese (agricole e non solo) localizzate nelle aree interne. Altro settore è quello del turismo mediante interventi e azioni mirate. Un turismo naturalistico, sostenibile, inteso come partecipazione alla vita della comunità. La natura, i luoghi poco affollati possono contribuire a valorizzare i borghi e le mete dell’entroterra, oltre a costituire la soluzione per rilanciare il settore in tempi di distanziamento sociale.
Inoltre, affinché le aree interne possano proporsi come risorsa, è necessario recuperare il divario digitale di tali territori.
I borghi del nostro Paese sono i luoghi della lentezza e del silenzio, dell’agricoltura di qualità, dell’aria pulita, dell’acqua pura, della tutela della biodiversità, del turismo sostenibile, del paesaggio sospeso tra città e campagna, tra mare ed entroterra.
Affinché l’opportunità diventi concreta è necessario dare alle aree marginali una nuova centralità nelle politiche e nel pensiero dei cittadini.
Ciò consentirebbe di valorizzare quei piccoli luoghi, testimonianza di storia, di cultura, di identità e di tradizioni, attraverso un’alleanza tra Sindaci, Regioni e comunità locali.
La Legge Piccoli comuni o Salva borghi (6 ottobre 2017, n. 158) recante «Misure per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni, nonché disposizioni per la riqualificazione e il recupero dei centri storici dei medesimi comuni» persegue l’obiettivo di sostenere, con bonus fiscali e incentivi, lo sviluppo economico, sociale, ambientale e culturale dei piccoli Comuni, e il riequilibrio demografico del Paese favorendo la residenza nei piccoli Comuni.
Si prevedono risorse destinate, fino ad esaurimento, al finanziamento di investimenti per tutela dell’ambiente e beni culturali, mitigazione rischio idrogeologico, salvaguardia e riqualificazione urbana dei centri storici, messa in sicurezza di infrastrutture stradali e istituti scolastici, promozione e sviluppo economico e sociale, insediamento di nuove attività produttive; nonché per la progettazione e la realizzazione del sistema nazionale di ciclovie turistiche e per interventi per la sicurezza della circolazione ciclistica cittadina.
Riguardo agli aspetti di più stretto interesse per i borghi, la legge dispone che all’interno dei centri storici i Comuni possono individuare zone di particolare pregio, dal punto di vista della tutela dei beni architettonici e culturali, da riqualificare mediante interventi integrati pubblici e privati finalizzati alla riqualificazione urbana, nel rispetto delle tipologie e delle strutture originarie.
Si tratta di interventi di risanamento, conservazione e recupero del patrimonio edilizio da parte di soggetti privati; realizzazione di opere pubbliche o di interesse pubblico; manutenzione straordinaria e riuso del patrimonio edilizio inutilizzato; consolidamento statico e antisismico degli edifici storici; miglioramento dei servizi urbani.
È prevista, inoltre, la promozione di alberghi diffusi nel proprio territorio; misure volte all’acquisto e alla riqualificazione di immobili per contrastare l’abbandono di terreni e di edifici dismessi o degradati; l’acquisizione di stazioni ferroviarie dismesse o case cantoniere destinate a presidi di protezione civile o sedi di promozione di prodotti tipici locali, principalmente per la destinazione a piste ciclabili, nonché realizzare circuiti e itinerari turistico-culturali ed enogastronomici; la possibilità di stipulare convenzioni per la salvaguardia e il recupero dei beni culturali, storici, artistici e librari degli enti ecclesiastici.
Il c.d. «Decreto semplificazioni» (decreto-legge n.76 del 2020) contiene un principio per restituire la guida pubblica alle trasformazioni urbane, soprattutto in quei quartieri che conservano pezzi di storia e di memoria della città. È stato previsto l’obbligo che gli interventi di demolizione e ricostruzione nei centri storici siano inseriti all’interno di un piano di recupero e di riqualificazione, in cui le amministrazioni pubbliche, le amministrazioni comunali, sappiano gestire e indicare qual è il piano riqualificazione, e che per gli interventi di ristrutturazione edilizia, la richiesta di permesso di costruire in deroga è ammessa previa deliberazione del consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico limitatamente alle finalità di rigenerazione urbana, di contenimento del consumo del suolo, al recupero sociale e urbano dell’insediamento.
In generale bisogna ripartire, da subito, per fermare la desertificazione economica del Sud. Occorre rilanciare gli investimenti pubblici, attuare una politica industriale specifica per il Mezzogiorno, proprio per l’innovazione ambientale, che metta in rete eccellenze pubbliche e private. Per farlo, bisogna riorganizzare lo Stato nel Mezzogiorno. Un’amministrazione pubblica amica dello sviluppo ha bisogno di recuperare efficienza ma anche di risorse.
Occorre aprire a mezzo milione di giovani qualificati le porte di quella che ad oggi è la Pubblica Amministrazione più ridimensionata, vecchia e povera di competenze d’Europa.
Questo è il grande investimento di cui, a mio avviso, ha bisogno l’Italia e ancora di più il Mezzogiorno, non solo per rispondere alle esigenze di un rilancio produttivo, ma anche per ricostruire uno Stato sociale che possa assicurare ai cittadini i fondamenti essenziali del benessere ed evitare i fenomeni della desertificazione economica e umana.
L’emorragia di persone dal Sud non tende a fermarsi. Il depauperamento del capitale umano è la dinamica più drammatica a cui assistiamo da anni. Spesso si tratta di giovani altamente formati che portano valore aggiunto altrove, sia da un punto di vista umano sia economico, perché a casa loro non hanno orizzonti da seguire o non trovano nessuno nel mercato (e tanto meno nella P.A.) che sappia intercettare le proprie competenze. Poi c’è il grande tema delle università meridionali spesso non prese in considerazione perché lontane dal mercato del lavoro professionalizzato, attivando un circolo vizioso di disinvestimento. È necessario aggredire questo problema alla radice, investire per rafforzare il contesto produttivo del Sud e trasformare in imprese le competenze acquisite nelle università meridionali. Servono investimenti per gli atenei del Mezzogiorno, e poi serve l’anello mancante: il trasferimento tecnologico per creare lavoro buono e valore aggiunto nel territorio di appartenenza.
Per questo serve un disegno strategico anche perché è ormai evidente a tutti che la questione ambientale è saldamente collegata alla questione sociale. Un Green New Deal per l’Italia, che crei posti di lavoro proprio investendo sull’economia verde e sull’economia circolare. Guardare alla sostenibilità ambientale come una grandissima opportunità di sviluppo, innovazione e competitività.
Le classi dirigenti locali sono state lasciate in balia di un processo di personalizzazione della politica che hanno esposto gli eletti all’insostenibile ricatto dei potentati economici locali.
Le politiche sono arrivate troppo poco e troppo tardi. Tutto questo ha determinato una miscela esplosiva di sofferenza sociale e insofferenza politica manifestatasi nel voto: il M5S ha raggiunto percentuali che nessuna forza politica, nella storia repubblicana, aveva toccato. Ha raccolto la rabbia, ma con la sua inedia politica l’ha consegnata alla Lega.
Ora, le politiche complessive del governo rappresentano un vero e proprio «tradimento» del Sud: autonomia differenziata e tagli agli investimenti, tagli ai servizi per finanziare la flat tax, indebolimento della lotta alla corruzione e alle mafie per sbloccare i cantieri al Nord.
Spesso le analisi si soffermano sui giovani che lasciano il Mezzogiorno. L’emorragia di persone dal Sud non tende a fermarsi. Il depauperamento del capitale umano è la dinamica più drammatica a cui assistiamo da anni. Spesso si tratta di giovani altamente formati che portano valore aggiunto altrove, sia da un punto di vista umano sia economico, perché a casa loro non hanno orizzonti da seguire o non trovano nessuno nel mercato (e tanto meno nella P.A.) che sappia intercettare le proprie competenze.
È necessario aggredire questo problema alla radice, investire per rafforzare il contesto produttivo del Sud e trasformare in imprese le competenze acquisite nelle università meridionali. Servono investimenti per gli atenei del Mezzogiorno, e poi serve l’anello mancante: il trasferimento tecnologico per creare lavoro buono e valore aggiunto nel territorio di appartenenza.
Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia
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