Lavoro e sostenibilità ambientale: ecco il legame

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Dalla manutenzione ai mezzi di trasporto, alla gestione di sostanze pericolose, tutto finisce per impattare sull’ambiente. Bisogna essere più interdisciplinari e smettere di guardare il mondo per comparti. La prevenzione, cosa si sta facendo e come si muove il governo

Garantire un lavoro sicuro, evitare che la propria attività lavorativa diventi fonte d’infortunio e malattia, fare in modo che le persone non siano costrette a scegliere tra il lavoro e la salute, questi sono, a tutti gli effetti, alcuni degli impegni rientranti negli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030.
Un’attività è sostenibile se vi è un equilibrio tra gli aspetti ambientali, economici e sociali ed è in quest’ultimo aspetto tutto quello che ha a che fare con l’impegno a garantire la salute, il benessere e la sicurezza delle persone.
Attualmente, la sicurezza sul lavoro e la salute possono essere riconosciute nelle strategie di sostenibilità, ma la sua importanza è raramente sottolineata.
Non si può nascondere che molti corsi di sicurezza, giustamente obbligatori per legge, sono fatti da persone che non sanno insegnare, da esperti improvvisati docenti, da gente incapace di trasmettere interesse e che si limita a leggere pagine e pagine di noiosissime normative.
Personalmente credo fermamente nella formazione e sono convinto che occorre cercare di essere sempre più interdisciplinari e smettere di guardare il mondo per comparti.

Qualcuno si chiederà cosa c’entra la sicurezza sul lavoro con il tema dello sviluppo sostenibile, del cambiamento climatico, quali sono i nostri quotidiani impatti sull’ambiente e sulla salute delle persone.

Ebbene una non corretta manutenzione delle caldaie e degli impianti di climatizzazione, che se mal funzionanti possono creare una pericolosa fonte d’inquinamento e di gas ad effetto serra, non è un’attività che impatta direttamente con il problema del cambiamento climatico?
Allo stesso tempo la gestione delle sostanze pericolose, non sono un problema anche per l’ambiente oltre che per la nostra salute?
E poi ancora: qual è l’attività che statisticamente conta il maggior numero d’infortuni sul lavoro? Risposta: l’utilizzo di mezzi di trasporto, attività che crea anche un notevole inquinamento dell’aria.

Insomma, dobbiamo cercare di essere sempre più interdisciplinari e smettere di guardare il mondo per comparti.

Personalmente sono affascinato dalle interazioni che collegano le specie viventi con la natura, con le risorse e le materie prime. Allo stesso tempo quello che mi piace della sostenibilità è il fatto che non è solo una questione ambientale ma anche sociale, economica, istituzionale, valoriale, filosofica e di comunità.
Ebbene sì! Quello che ritengo sia più importante far capire alle persone è che si sta parlando innanzitutto di rispetto. Rispetto verso la propria salute, verso i propri colleghi, verso la società (e il sistema sanitario pubblico), verso la terra che coltiviamo, verso l’acqua che beviamo e l’aria che respiriamo.
Affrontare la sostenibilità del lavoro significa mettere sul tavolo le sfide più delicate che aziende e persone hanno davanti nel prossimo futuro: dalla formazione continua, alla flessibilità, alla digital trasformation.
Lavorare in modo sostenibile significa, innanzitutto, rispondere ai bisogni umani attuali (anche attraverso gli scambi economici) secondo criteri di equità e inclusione facendo attenzione di non utilizzare più risorse ecologiche di quante il nostro pianeta è in grado di produrre e mettere a nostra disposizione ogni anno.
Allo stesso tempo significa creare le condizioni affinché le persone possano sviluppare la propria professionalità e rimanere attive durante tutta la loro vita in un’ottica di costante occupabilità, eliminando i fattori che scoraggiano od ostacolano l’ingresso, la permanenza e la crescita nel mondo del lavoro.
In tutto ciò vi è un concetto che ritengo fondamentale: sviluppare una propria professionalità per rimanere attivi durante tutta la propria vita. In altre parole poter sviluppare e mantenere competenze utili in modo da poterle utilizzare per rimanere attivi il più a lungo possibile.
Il valore non sta nella durata del posto di lavoro, la sicurezza non è legata al posto di lavoro ma piuttosto alle competenze di ogni individuo e ad un mercato capace di creare, sostenere e dare il giusto valore al lavoro.
Occupabilità non vuol dire più posto fisso o impiego «sicuro» nell’accezione tradizionale. Quando si parla di mercato si parla di un sistema fatto da persone, aziende e istituzioni che, insieme, devono creare le condizioni perché ci sia lavoro e perché il lavoro sia di valore e capace di generare valore in un contesto sempre più difficile di competizione globale.
Si può, pertanto, affermare che il lavoro diventi sostenibile quando è possibile coglierne il senso e il valore, quando è in grado di garantire un adeguato benessere psico-fisico, quando è capace di consentire lo sviluppo di competenze che siano spendibili sul mercato, quando permette di veder riconosciuti i propri sforzi in un’ottica di sviluppo professionale.
Per il mondo delle aziende il lavoro è sostenibile quando permette la generazione e distribuzione di valore, quando è in grado di rispondere in modo veloce ed efficace al cambiamento e alle sfide del mercato, sviluppando nell’organizzazione innovazione, agilità ma anche resilienza e, quando, attraverso la formazione continua e sviluppo professionale, consente di mantenere l’occupabilità delle persone.
Non da ultimo il lavoro è sostenibile quando i cosiddetti «policy maker» ossia coloro che hanno il potere di elaborare e determinare orientamenti e strategie in merito alle questioni più rilevanti per la società, attuano politiche industriali che creano un ambiente favorevole alle aziende, sostengono l’inclusione con specifici servizi di welfare, promuovono la formazione professionale e, ultimo ma non meno importante, quando, in logica di sussidiarietà attivano collaborazioni pubblico/privato per implementare efficaci politiche attive capaci di mitigare i problemi legati alle transizioni lavorative che saranno sempre più frequenti.

Fermiamo la strage

Bisogna aumentare le misure di prevenzione e protezione nei luoghi di lavoro e accompagnare la ripresa e la ripartenza del Paese. Siamo di fronte ad una strage silenziosa che continua in ogni territorio, in ogni settore, dall’edilizia all’agricoltura, dal manifatturiero alla logistica. La strage va fermata.
«Fermiamo la strage nei luoghi di lavoro». È lo slogan deciso da Cgil, Cisl e Uil. Non basta più indignarsi. Occorre vigilare su un fenomeno, quello delle morti bianche, che invece di diminuire, cresce a dismisura. Non c’è lavoro dignitoso senza sicurezza e tutela della vita umana.
In modo particolare, i sindacati chiedono di rilanciare controlli e ispezioni, assumendo subito nuovi ispettori e medici del lavoro e di avviare una campagna di sensibilizzazione ad ogni livello, a partire dalle scuole perché la cultura della sicurezza è il vaccino più efficace contro gli infortuni e le morti sul lavoro. Propongono l’introduzione della «patente a punti» per tutte le aziende, con meccanismi premiali e sanzionatori e insistono sulla necessità di una formazione adeguata a ogni lavoratore. Anche le aziende devono essere sostenute nell’innovazione e ammodernamento delle tecnologie e nei dispositivi di protezione individuale.

Le vicende di Laila e Luana

Il 3 agosto 2021 è morta Laila el Harim, una lavoratrice quarantenne assunta da un mese e mezzo. La donna è rimasta intrappolata in una fustellatrice sulla quale era stato disattivato il dispositivo di sicurezza automatico, come hanno appurato gli ispettori del lavoro arrivati dopo l’incidente.
«Il blocco era azionabile, da parte dell’operatrice, soltanto manualmente e non automaticamente, ciò ha consentito un’operazione non sicura che ha cagionato la morte per schiacciamento».
Non si è trattato di un caso isolato e neppure fortuito. Giusto tre mesi prima, il 3 maggio 2021, un analogo incidente aveva provocato la tragica fine di una ragazza di 22 anni, Luana D’Orazio, impiegata in una fabbrica tessile di Montemurlo, vicino Prato, in Toscana. Questa era rimasta intrappolata in un orditoio sul quale, secondo i periti inviati dai magistrati, non si era abbassata la saracinesca protettiva, un meccanismo destinato a prevenire infortuni sul lavoro. La perizia ha rilevato che era stata disattivata la fotocellula che avrebbe attivato in maniera automatica la protezione. Il sospetto è che in entrambi i casi i dispositivi salvavita sarebbero stati manomessi per evitare continui stop and go che avrebbero rallentato la produzione.
Le vicende drammatiche di Laila el Harim e Luana D’Orazio hanno suscitato un’attenzione mediatica inusuale. «C’è una cosa che sta a cuore a tutti noi e a me in particolare: cercare di fare qualcosa per migliorare la situazione inaccettabile sul piano della sicurezza sul lavoro», ha detto il presidente del consiglio Mario Draghi ai giornalisti durante un incontro a palazzo Chigi.

Cosa si sta facendo

Il ministro del lavoro Andrea Orlando ha proposto un curriculum per le imprese, dove tenere conto degli incidenti e delle azioni per evitarli, e un concorso per aumentare il numero di ispettori del lavoro. Anche il suo predecessore Luigi Di Maio ne aveva annunciato uno il 7 agosto 2018, all’indomani di un incidente stradale nel quale avevano perso la vita dodici braccianti di ritorno dal lavoro nei campi del Foggiano, ma poi non se n’era fatto niente.
L’Italia è uno dei pochissimi paesi dell’Unione europea privi di una strategia nazionale per la salute e la sicurezza sul lavoro, dicono i leader sindacali, che hanno stilato un «Patto per la salute» che prevede corsi di formazione per i lavoratori, una sorta di patente a punti da assegnare alle aziende che rispettano le regole, più ispezioni, più dispositivi di protezione individuale, l’insegnamento nelle scuole superiori di una materia che abbia al centro la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro. Solo in questo modo, ritengono, l’Italia potrebbe avvicinarsi a quei paesi del nord Europa che sono riusciti a ridurre in maniera drastica il numero di incidenti e di vittime.
Nel giugno 2021 l’Unione europea ha adottato un «Quadro strategico» che mira a mobilitare le istituzioni dell’Ue, gli Stati membri, le parti sociali e altre parti interessate intorno a priorità comuni sulla protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori. Sono previsti limiti più stringenti per l’esposizione a sostanze tossiche come l’amianto, il piombo e il cobalto; «risorse di facile utilizzo per l’applicazione di misure di prevenzione nei luoghi di lavoro»; un’iniziativa sulla salute mentale nei luoghi di lavoro; il miglioramento della raccolta dei dati sugli incidenti e l’analisi delle cause che li hanno provocati.
Lo slogan «zero vittime» usato dal commissario europeo per l’occupazione e i diritti sociali per illustrare questa strategia rischia però di infrangersi se si tengono conto dei sei lavoratori ogni 100mila che ogni anno perdono la vita in Romania; e più in generale se si guarda agli squilibri socioeconomici fra i paesi del nord, del sud e dell’est Europa, che si ripercuotono anche sulla sicurezza dei lavoratori.
In Italia, nei primi sei mesi del 2021, l’Inail ha censito 538 «morti bianche», in media tre al giorno, senza contare le vittime sulle strade e in itinere, vale a dire mentre andavano o tornavano dal lavoro.
I settori più colpiti sono quello agricolo, quello edilizio e quello manifatturiero. A scorrere l’elenco si trova di tutto: lavoratori folgorati da cavi dell’alta tensione, contadini finiti sotto un trattore, muratori caduti da un’impalcatura, il diciottenne neoassunto in un’oasi naturalistica e il sindacalista travolto da un tir durante un picchetto davanti a un deposito della Lidl a Biandrate, nel Novarese. Non passa giorno senza che la conta delle vittime vada aggiornata.
Consensi alla proposta di una procura nazionale sicurezza e ambiente, lanciata in un’intervista dal magistrato di Cassazione e capo in pectore dell’Ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano sono pervenuti, dal fronte sindacale. Il leader della Uil, Pierpaolo Bombardieri, è sceso in campo: «Apprezziamo e siamo pronti a sostenere la proposta di istituire una procura nazionale del lavoro e dell’ambiente, per consentire, nelle circostanze di incidenti sul lavoro, indagini più veloci ed evitare che la lungaggine dell’iter processuale porti, poi, alla prescrizione del reato. Accogliamo con favore anche l’apprezzamento del magistrato Bruno Giordano sulla nostra proposta di introdurre la patente a punti per le aziende, in modo da premiare quelle virtuose e penalizzare le inadempienti nell’ambito della salute e sicurezza sul lavoro. Uno strumento che potrebbe, finalmente, spingere ad un cambiamento nella direzione di una maggior tutela. Valutiamo positivamente, dunque, la presa di posizione ferma da parte del magistrato che ha messo in luce alcune carenze e posto condizioni di interventi mirati per tutelare tutte le lavoratrici e i lavoratori. Finalmente qualcosa si sta muovendo nell’ambito della sicurezza».

La prevenzione

Togliamoci dalla mente l’idea che l’intervento antinfortunistico sia sempre un intervento materiale, concreto sulle macchine o sugli impianti; non è così, sempre di più la prevenzione si gioca sugli aspetti immateriali, sulla formazione, sull’organizzazione, sulle procedure di sicurezza.
Quindi l’intervento preventivo non è solo andare a metter un carter, una presa più sicura o un pannello protettivo. L’intervento preventivo il più delle volte, oggi più che mai, si gioca sul piano organizzativo, procedurale, della formazione.
Pensiamo, per fare un esempio, ai lavoratori interinali: perché hanno una maggiore probabilità (documentata da varie statistiche) di infortunarsi molto rispetto ai lavoratori non interinali?
Perché sono lavoratori che molte volte all’anno si trovano ad affrontare il loro primo giorno di lavoro in ambienti nuovi, in ambienti non conosciuti: non sanno le procedure, non hanno la formazione; ed allora è un problema di organizzazione che è carente, non è questione di un carter in più o in meno, che pure ci vuole.
Il datore di lavoro deve predisporre tutte le misure necessarie per proteggere la salute e la sicurezza dei lavoratori che esercitano qualsiasi attività all’interno dell’azienda.
Il d.lgs. 81/2008, in seguito innovato dal d.lgs. 106/2009, contempla la formazione, l’informazione e l’addestramento come dei percorsi necessari che devono seguire i lavoratori per apprendere le regole e le metodologie che fanno parte del sistema prevenzionistico.
Attraverso la formazione si intende insegnare ai lavoratori quel complesso di nozioni e procedure indispensabili, finalizzate al conseguimento di quelle capacità che permettono agli stessi di lavorare sia riducendo i rischi, sia tutelando la sicurezza personale.
Con l’informazione i lavoratori imparano a riconoscere, e di conseguenza a ridimensionare e a controllare, i rischi presenti in azienda. Infine tramite l’addestramento i dipendenti si esercitano ad utilizzare in modo pratico e corretto le attrezzature, i macchinari, i dispositivi e tutte le strumentazioni che servono per le fasi di lavoro o per gli interventi resi necessari dalle situazioni di rischio.
Il Decreto stabilisce anche quali sono le figure aziendali che devono svolgere il ruolo di formatori e che tipo di formazione devono svolgere nei confronti dei lavoratori. Oltre a dirigenti e preposti, medico competente e Servizio di Protezione e Prevenzione, la legge dispone che «il datore di lavoro provvede affinché ciascun lavoratore riceva una adeguata informazione» (art. 36 d.lgs. 81/2008).
Il datore di lavoro è inoltre obbligato ad adoperare tutti gli strumenti in suo possesso per tutelare la sicurezza dei lavoratori attraverso: uno scambio di informazioni con il medico competente e con i Servizi di Prevenzione e Protezione circa i rischi presenti in azienda e che riguardano il lavoro svolto dai dipendenti; informazioni destinate ai lavoratori, che riguardano possibili esposizioni a pericoli gravi ed immediati, e che riguardano di conseguenza le operazioni di emergenza da eseguire.
Il Testo Unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro ha inoltre dedicato ampio spazio alla tutela dei lavoratori immigrati, poiché dai dati registrati negli ultimi anni si è constatato che soprattutto a causa delle differenze linguistiche, i lavoratori stranieri sono stati più soggetti ad incidenti all’interno delle aziende. Per questo motivo è stato necessario rendere ancor più chiare e comprensibili le informazioni e le conoscenze che questi lavoratori devono apprendere durante le fasi formative, in più le aziende devono dotarsi di istruzioni e segnaletica di sicurezza di facile consultazione e devono sottoporre agli immigrati, prima dell’impiego, delle verifiche della lingua italiana.
Credo che ogni volta che si affronta il perché di un infortunio dovremmo porci una puntuale serie di domande, per esempio: informazione e formazione alla sicurezza erano state fatte ai lavoratori oppure no? Esistevano procedure di sicurezza e se esistevano erano corrette? I mezzi di protezione individuali necessari erano disponibili e utilizzati?
Ed ancora: qualcuno nell’azienda vigilava (ed era suo compito preciso) sul rispetto delle procedure e sull’uso dei mezzi di protezione? Le condizioni del contesto lavorativo permettevano di operare rispettando le norme di sicurezza?
Non basta, infatti, prevedere procedure, occorre garantire un contesto che permetta di lavorare rispettando quelle procedure, sennò si prendono in giro i lavoratori.
Occorre verificare, altresì, se i lavoratori erano impegnati in compiti coerenti con le loro capacità professionali, con le loro condizioni di salute e con la loro esperienza, perché, se c’è discrepanza su queste cose, l’infortunio è lì che incombe.
Infine, vanno verificate se esistevano sistemi di verifica e controllo sulle macchine e sugli impianti; se il problema che ha causato l’infortunio era stato previsto nella valutazione dei rischi dell’azienda; se dirigenti e preposti giocavano un ruolo favorente o un ruolo disincentivante rispetto alla sicurezza; se gli infortuni precedentemente accaduti in azienda erano stati studiati ed analizzati per capirne le cause, per trarne indicazioni oppure no?
Ecco di fronte ad un infortunio occorre che ci si pongano queste domande per capire il perché è successo, per passare cioè dal «come» al «perché».

Le regole e le omissioni

Di fronte a questi eventi così drammatici è naturale e anche importante provare commozione, ma non bisogna solo commuoversi: occorre poi muoversi! Bisogna cambiare qualcosa.
Credo, quindi, sia necessario approfittare di questo momento storico di slancio e di interesse verso la Sostenibilità d’impresa per spostare la salute e sicurezza dei lavoratori all’interno di un processo aziendale più forte ed incisivo, più strategico. Il posto che avrebbe già dovuto avere da anni.
Grazie alla normativa sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro e al recente sviluppo delle tecnologie, oggi, per le aziende, è molto più facile formare i propri dipendenti in questa materia.
Le norme in materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali assegnano, è opportuno evidenziarlo, delle funzioni essenziali ai rappresentanti dei lavoratori in azienda, perché non basta indignarsi, occorre agire.
Nel Pnrr è previsto un rafforzamento dell’Ispettorato nazionale del lavoro quale agenzia per la vigilanza con l’assunzione nei prossimi mesi di circa 2mila nuovi ispettori su un organico corrente di circa 4.500. Nel suo intervento alla Camera, Draghi ha avvertito che con l’avvio della ripresa produttiva occorre maggiore vigilanza perché sarebbe aumentato il numero degli infortuni.
Troppe volte l’aspetto mediatico della causa violenta che determina la tragedia finisce per occupare la scena, per concentrare sulla vittima e le sue caratteristiche l’attenzione dell’opinione pubblica. Per alcuni giorni i media si gettano sull’evento come se la cinica ricerca del profitto (è il leit motiv che intonano in coro i sindacati) non si curasse della vita delle persone, intrappolate nei posti di lavoro. Poi la notizia viene abbandonata per passare a un’altra.
L’approccio corretto sarebbe invece quello di rispettare le norme che ci sono. Ma questo deve essere un impegno di tutti, a partire dai datori di lavoro che la legge ritiene responsabili della salute e della sicurezza dei propri dipendenti, anche in caso di rischio fortuito, forza maggiore, colpa non grave del lavoratore. Con l’obbligo per l’imprenditore di non attenersi soltanto a quanto previsto dalle leggi, ma ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori d’opera.
Ma nessuno parla delle omissioni dei sindacati. Le norme in materia di infortuni sul lavoro e le malattie professionali (d.lgs. n.81/2008 e successive modifiche) assegnano delle funzioni essenziali ai rappresentanti dei lavoratori in azienda o a livello del territorio. Vi è un’intera sezione (la VII) dove sono previste forme di consultazione e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori eleggibili in tutte le aziende anche se piccole. I poteri di questi lavoratori sono effettivi; possono disporre senza perdere la retribuzione del tempo necessario per svolgere i loro compiti e il rappresentante può fare ricorso alle autorità competenti qualora ritenga che le misure di prevenzione dei rischi adottate dal datore di lavoro e i mezzi impiegati per attuarle non siano idonee a garantire la sicurezza e la salute durante il lavoro. Chi è chiamato dagli altri lavoratori a svolgere tale funzione non può subire pregiudizio alcuno a causa dello svolgimento della propria attività e nei suoi confronti si applicano le stesse tutele previste dalla legge per le rappresentanze sindacali. Perché non si chiamano i leader sindacali a rispondere del mancato esercizio di questi diritti?
I sindacati, con il sostegno dei lavoratori, devono impegnarsi per la concretizzazione di importanti innovazioni che possano contribuire a ridurre l’incidenza degli infortuni ed evitare il ripetersi di tragici eventi come quelli che hanno interessato nel tempo il mondo del lavoro.
C’è da chiedersi, in conclusione, se le responsabilità siano solo in capo ai datori di lavoro. Ritengo che questi spesso non capiscono l’importanza della necessità di garantire le norme di sicurezza, ma che, altrettanto spesso, anche i lavoratori non ne sono pienamente consapevoli.
Mi chiedo, allo stesso tempo, se non è il momento di parlare con onestà delle responsabilità del padronato e dei sindacati per questa drammatica situazione. Forse sarebbe ora, ma da una parte i datori di lavoro continuano a lamentarsi di regole troppo stringenti, dall’altro i sindacati si muovono a macchia di leopardo, «preferendo — come ha affermato in un’intervista Chiara Saraceno, sociologa e componente del comitato ministeriale per la riforma del Reddito di cittadinanza — impegnarsi nella protezione di chi non si vaccina: sono ipergarantisti in maniera assurda a favore dei lavoratori non vaccinati, tralasciando di essere lì dove le vulnerabilità sono più grandi, come nei settori edile e agricolo».

 

Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia