I 4 pilastri dello sviluppo sostenibile

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Ma tutto è retto dalla Giustizia

Nella specifica prospettiva dell’Agenda 2030, l’Obiettivo 16, intitolato Pace, giustizia e istituzioni solide, è centrato anche sulla necessità di offrire l’accesso alla giustizia per tutti. Le anomalie di alcune Procure. I casi sintomatici

Il concetto di sviluppo sostenibile fatto proprio dall’Agenda 2030, approvata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 25 settembre 2015, si fonda su quattro pilastri: certamente quello ambientale, ma anche quello economico, quello istituzionale e quello sociale, tutti di uguale importanza, che occorre preservare. Il crollo anche solo di uno dei pilastri può infatti determinare la insostenibilità complessiva del processo di sviluppo, poiché il benessere umano dipende non solo dal mantenimento di un buono stato complessivo delle risorse naturali, ma anche dal soddisfacimento di quelle esigenze dell’uomo essenziali per condurre una vita dignitosa e con le giuste opportunità.
Impossibile non riconoscere che tra queste esigenze vada necessariamente annoverato l’accesso alla giustizia. Infatti, nella specifica prospettiva dell’Agenda 2030, l’Obiettivo 16, intitolato Pace, giustizia e istituzioni solide, è centrato anche sulla necessità di offrire l’accesso alla giustizia per tutti.
Per offrire l’accesso alla giustizia occorre creare organismi efficienti, responsabili e inclusivi a tutti i livelli.
L’Italia ha dimostrato un grande impegno e fatto molti progressi nel campo della pace; invece, nel campo della parità di accesso alla giustizia, in quello della lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione o concussione e protezione delle libertà fondamentali, il nostro Paese ha ancora molto da lavorare.

La giustizia

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, presentato dal Governo alla Commissione europea il 30 aprile 2021, contiene alcune specifiche misure che intervengono sul sistema giudiziario. Si tratta, in particolare, della previsione di riforme volte ad accelerare lo svolgimento dei processi, e di specifici stanziamenti per la digitalizzazione dei procedimenti giudiziari, per la gestione del carico pregresso di cause civili e penali e per l’efficientamento degli edifici giudiziari.
Per ridurre la durata dei giudizi, il Piano si prefigge anzitutto, un potenziamento degli strumenti alternativi al processo per la risoluzione delle controversie, rafforzando le garanzie di imparzialità, per quello che concerne l’arbitrato; estendendo l’ambito di applicazione della negoziazione assistita e estendendo l’applicabilità dell’istituto della mediazione; quindi un intervento selettivo sul processo civile volto a concentrare maggiormente, per quanto possibile, le attività tipiche della fase preparatoria ed introduttiva; sopprimere le udienze potenzialmente superflue e ridurre i casi nei quali il tribunale è chiamato a giudicare in composizione collegiale; ridefinire meglio la fase decisoria, con riferimento a tutti i gradi di giudizio.
Via libera definitivo dal Senato al disegno di legge di delega al governo per la riforma del processo penale, con 177 sì e 24 no, dopo i due voti di fiducia di lunedì 22 settembre. Dalla prescrizione al «regime speciale» per alcuni reati, dal principio della improcedibilità fino ai criteri di priorità per l’azione penale, affidati al Parlamento: queste le principali novità previste dalla riforma, targata Marta Cartabia e frutto di una lunga quanto difficile mediazione all’interno della maggioranza, che ora è legge.
L’approvazione della riforma del processo penale, come quella del processo civile, sono tra le condizioni poste dall’Ue per erogare i fondi del Recovery Plan.

La riforma Cartabia

La riforma della Giustizia del ministro Cartabia è un progetto organico che investe l’intero processo penale ma ha come «fulcro» la prescrizione dei reati, mezzo attraverso il quale ridurre concretamente il carico giudiziario.
L’impostazione complessiva della riforma, così come voluta dalla ministra Cartabia, mira a velocizzare i tempi dei processi, andando ad agire anche sui riti alternativi. Viene poi introdotto il principio della «giustizia riparativa».
Prevista una entrata in vigore graduale delle nuove norme, per permettere agli uffici giudiziari di mettere a punto adeguate misure organizzative, anche grazie all’immissione di nuovo personale (oltre 20mila unità). E’ quanto prevede l’ultima intesa raggiunta in Cdm sul meccanismo di prescrizione e improcedibilità inserito nella riforma. L’accordo prevede norme transitorie fino al 2024 e un regime speciale per i reati di mafia, terrorismo, droga e violenza sessuale.
La norma dispone che «il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado. Nondimeno, nel caso di annullamento che comporti la regressione del procedimento al primo grado o a una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della pronunzia definitiva di annullamento».
La riforma riguarda solo i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020; entra in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge. La riforma va a regime nel 2025. In appello, i processi possono durare fino a 2 anni di base, più una proroga di un anno al massimo. In Cassazione, 1 anno di base, più una proroga di sei mesi.
In un primo periodo i termini previsti per la improcedibilità saranno più lunghi. Per i primi 3 anni, entro il 31 dicembre 2024, i termini saranno più lunghi per tutti i processi (3 anni in appello, un anno e mezzo in Cassazione), con possibilità di proroga fino a 4 anni in appello (3+1 proroga) e fino a 2 anni in Cassazione (un anno e 6 mesi + 6 mesi di proroga) per tutti i processi in via ordinaria.
Ogni proroga deve essere motivata dal giudice con un’ordinanza, sulla base della complessità del processo, per questioni di fatto e di diritto e per numero delle parti. Contro l’ordinanza di proroga, sarà possibile presentare ricorso in Cassazione. Di norma, è prevista la possibilità di prorogare solo una volta il termine di durata massima del processo.
Solo per alcuni gravi reati, è previsto un regime diverso: associazione di stampo mafioso, terrorismo, violenza sessuale e associazione criminale finalizzata al traffico di stupefacenti. Per questi reati non c’è un limite al numero di proroghe, che vanno però sempre motivate dal giudice sulla base della complessità concreta del processo.
La nuova normativa prevede una stretta sulle indagini che non danno la certezza di terminare con una sentenza di condanna. Il pm può chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una ragionevole previsione di condanna. Si rimodulano i termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato.

Le anomalie di alcune Procure

Questa previsione normativa potrà porre fine, come recentemente mi faceva rilevare un mio carissimo amico, a comportamenti anomali da parte di alcune Procure giudiziarie. Si veda a tal proposito la storia del sindaco di Alassio Marco Melgrati che ha subito 34 processi, al termine dai quali ne è uscito sempre assolto per non aver commesso il fatto o perché il fatto non costituisce reato. «Innocente seriale», è stato definito.
Né può essere dimenticato «il Vietnam giudiziario» a cui è stato sottoposto Antonio Bassolino: diciannove processi e diciannove assoluzioni. Ciò ci dà l’esatta misura di quanto malato sia questo Paese. Un Paese nel quale un amministratore, un uomo delle istituzioni, è colpevole nello stesso momento in cui riceve un avviso di garanzia; un Paese la cui vicenda politica ed istituzionale degli ultimi decenni è stata profondamente condizionata dall’azione della Magistratura, da inchieste che molto spesso si sono risolte in un nulla di fatto ma che quasi sempre hanno sortito effetti decisivi sul piano politico.
Ed il caso Bassolino è emblematico, non solo per l’esorbitante numero di processi che l’ex Presidente della Campania ha dovuto affrontare, tutti fondati su presunti reati commessi nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali, ma perché non v’è dubbio alcuno che quelle inchieste hanno pesantemente condizionato la vicenda democratica di questa regione, del Mezzogiorno e del Paese. Bassolino non era solo il Presidente della Regione Campania, era un leader di caratura nazionale, certamente il leader più autorevole della Sinistra meridionale. Ed il punto, forse, è proprio questo.
La genesi del declino politico di Antonio Bassolino fu essenzialmente giudiziaria, Bassolino divenne, agli occhi della pubblica opinione nazionale il simbolo del potere corrotto e per questo fu isolato ed emarginato. I fatti, ovvero quelle diciannove assoluzioni, ci dicono che era innocente, confermano l’urgenza di affrontare finalmente, in questo Paese, i tanti nodi irrisolti che gravano sulla giustizia, di riequilibrare secondo Costituzione il rapporto tra i poteri, di porre fine alla barbarie dei processi mediatici, ma non riabilitano in alcun modo il Bassolino governatore, non riabilitano quella nefasta stagione che condusse la Campania al sostanziale fallimento.
Certo è vero che quello che Antonio Bassolino ha dovuto subire è indegno di un Paese civile, ed è vero, verissimo, che quella leadership fu abbattuta per via giudiziaria. Ma è altrettanto vero che il decennio bassoliniano produsse il disastro finanziario ed amministrativo della Campania, produsse dieci miliardi di debito, un disavanzo annuale di quasi 900milioni, il commissariamento della sanità, le montagne di «munnezza» per le strade della Campania e potremmo proseguire, per esempio, ricordando il disastro sui trasporti e sulla forestazione. La vicenda giudiziaria di Antonio Bassolino ci racconta del fallimento dello Stato italiano ma non ci consente certo di rimpiangere il Bassolino governatore. E la domanda che resta e che dovrebbe ossessionarci è una: Bassolino avrebbe pagato per i suoi fallimenti politici ed amministrativi se non fosse stato travolto da quella tempesta giudiziaria?
Non posso non evidenziare che da più parti si spinge per un superamento di antiche trincee ideologiche. Ad esempio, Mimmo Lucano, per il quale fu avanzata richiesta di condanna a quasi 8 anni di carcere per presunti illeciti nella gestione del sistema di accoglienza dei migranti nel centro della Locride, nel considerarsi vittima della giustizia, afferma in un’intervista: «È una condizione che non vorrei augurare a nessuno, neanche alla peggiore persona. C’è sempre una dimensione umana che bisogna rispettare. Non è giusta la persecuzione, non è mai una giustificazione. Vale anche per Berlusconi, come per qualsiasi altro essere umano».
Da parte sua, il fondatore di Forza Italia ha gioco facile nel dire che «la sinistra si accorge solo ora» del problema della giustizia, mentre per lungo tempo è stata usata come principale arma nei suoi confronti.
«Che in passato, forse, una parte della sinistra abbia approfittato anche di inchieste giudiziarie per le proprie battaglie politiche può essere vero, ma a turno tutti i partiti più o meno hanno sfruttato problemi giudiziari degli avversari politici per la loro battaglia». Con queste parole Alfredo Bazoli, capogruppo del Partito Democratico in Commissione Giustizia alla Camera, commenta la frase di Silvio Berlusconi sulla giustizia. «Serve è una riforma equilibrata che non vada a colpire l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura ma che certamente vada incontro agli interessi dei cittadini con processi più rapidi per un sistema più efficiente. Il giudizio sul passato e sull’atteggiamento tenuto negli anni scorsi può anche essere critico, ma la riforma della giustizia non può e non deve essere l’occasione per rimettere in discussione o rivedere processi che hanno subito leader politici. Ogni processo e ogni vicenda giudiziaria fanno storia a sé. Parlare oggi di riforma non vuol dire rifare i processi del passato ai leader politici», conclude Bazoli.
Per la Corte di Assise di Palermo ci fu (nel 1992) una trattativa tra Stato e mafia ma questo non costituisce reato. Ribaltando la sentenza di primo grado dei giudici di Palermo i giudici hanno assolto i carabinieri e i rappresentanti delle istituzioni che hanno partecipato al dialogo tra le organizzazioni criminali siciliane e lo Stato. Il dispositivo della sentenza è atteso entro i prossimi tre mesi. La procura potrà poi ricorrere in Cassazione per il terzo grado di giudizio.
La sentenza smonta un decennio di processi giudiziari e mediatici a quei rappresentanti dello Stato che fecero da tramite tra Stato e mafiosi solo per cercare di bloccare l’azione mafiosa.
I giudici della Corte di Assise riconoscono che la trattativa tra Stato e mafia era dettata dalle condizioni del contesto storico di quei tempi:

  • Vi era l’urgenza di trovare una soluzione che ponesse fine alla guerra tra le istituzioni e la criminalità mafiosa;
  • La trattativa è uno strumento a cui lo Stato può ricorrere nell’interesse dei cittadini.

Certamente è una sentenza che avrà conseguenze politiche. Il ricorso al dialogo può essere considerato una sconfitta morale, ma è soprattutto una presa di coscienza per trovare una tregua temporanea alla guerra che metteva in pericolo i cittadini. Non è una vittoria. È un momento di passaggio per trovare una soluzione alla quale avrebbe dovuto seguire una strategia migliore per sconfiggere le Mafie.
È una sentenza che fa uscire dal gorgo Marcello Dell’Utri e con lui Berlusconi e tutti quegli apparati che hanno sostenuto gli ufficiali del vecchio Ros (il Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri), che fa vacillare anche le certezze di quella parte di magistratura che per anni ha creduto alla commistione fra pezzi dello stato e gente come Totò Riina. La sentenza d’appello in sostanza mette in discussione una «linea» e un’intera filosofia giudiziaria che, fin dal principio, si è scontrata con chi ha sempre negato l’esistenza di un abbraccio fra uomini in divisa e uomini d’onore. Questa è l’inchiesta che, più di altre dopo le stragi del ’92, ha portato grandi lacerazioni nella magistratura.
Personalmente sono convinto che dove vi è sotterfugio, lì è certo che vi sia una mentalità simile a quella mafiosa. Per tale motivo affermo che la mafia sia un modo di vivere la vita e che, per tale motivo, la mentalità mafiosa agisce nelle relazioni individuali, nelle famiglie, nelle scuole, nei gruppi di qualsiasi natura essi siano.
La mentalità mafiosa si constata dappertutto. Difficile combatterla? Sicuramente fino a quando non vivrà la forza delle leggi, la loro inviolabilità.
Il diritto annacquato crea solo delinquenza ed uno Stato debole, in quanto prevalgono i meccanismi della violenza e non quelli della legge, che, unica, può rendere le persone uguali in quanto ad essi è garantito l’accesso al mondo del lavoro perché il lavoro diventa un diritto e non un privilegio di cui godranno solo i garantiti dalle varie mafie.
Il sottobosco si tramanda di generazione in generazione!
Ciò è possibile finché le leggi dello Stato non avranno la forza di dettare le regole che fanno vivere lo stato di diritto, in cui potrà vivere la democrazia e la possibilità di affermazione di ognuno a seconda dei talenti di cui è portatore.
Attualmente è così ed è per questo che si assiste alla crescita delle disparità. Le disparità sono nocive: lo dimostra la pandemia e l’ecosistema ammalato.
La necessità storica dell’uguaglianza è lo scenario che si prospetta davanti agli occhi dell’uomo contemporaneo, per l’affermazione della quale esso dovrà adoperarsi senza titubanza alcuna ed allora, certamente, le mafie cesseranno di vivere.

 

Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia