Ecco a che punto è la riforma giudiziaria

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L’Italia è stata più volte ammonita dalle istituzioni europee per la «scarsa efficienza» del sistema giudiziario. Questa è, infatti, fra gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali, quella che maggiormente impedisce l’«innovazione» (uno degli Obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile) previsto, in particolare, nell’obiettivo 9 (Imprese, innovazione e infrastrutture)

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) individua due grandi riforme: la riforma della pubblica amministrazione e la riforma del sistema giudiziario. Ad esse si aggiungono le riforme abilitanti, cioè gli interventi funzionali a garantire l’attuazione del Pnrr e in generale a rimuovere gli ostacoli amministrativi, regolatori e procedurali che condizionano le attività economiche e la qualità dei servizi erogati ai cittadini e alle imprese.
«Sulla durata dei processi il governo si gioca tutto il Recovery fund, non solo la parte legata alla giustizia», aveva avvertito la ministra della giustizia Marta Cartabia alla camera lo scorso 10 maggio, riferendosi agli oltre 190 miliardi di euro che la Commissione europea ha destinato all’Italia.
Il sistema della giustizia italiana, caratterizzato da solide garanzie di autonomia e di indipendenza e da un alto profilo di professionalità dei magistrati, soffre di un fondamentale problema: i tempi della celebrazione dei processi. La durata dei processi incide negativamente sulla percezione della qualità della giustizia resa nelle aule giudiziarie e ne offusca indebitamente il valore, secondo la nota massima per cui «giustizia ritardata è giustizia denegata». I problemi legati al fattore «tempo» sono al centro dell’attenzione nel dibattito interno e sono stati ripetutamente rimarcati nelle competenti sedi europee.
L’efficienza dell’amministrazione della giustizia rappresenta un valore in sé, radicato nella cultura costituzionale europea che richiede di assicurare «rimedi giurisdizionali effettivi» per la tutela dei diritti, specie dei soggetti più deboli.
Inoltre l’efficienza del settore giustizia è condizione indispensabile per lo sviluppo economico e per un corretto funzionamento del mercato. Studi empirici evidenziano una naturale e stretta compenetrazione intercorrente tra giustizia ed economia: qualsiasi progetto di investimento, per essere reputato credibile, deve potersi innestare in un’economia tutelata, e non rallentata, da un eventuale procedimento giudiziario, così come deve essere posto al riparo da possibili infiltrazioni criminali.
Le prospettive di rilancio del nostro Paese sono, insomma, fortemente condizionate dall’approvazione di riforme e investimenti efficaci nel settore della giustizia.

Giustizia riparativa

Finalmente sulla Gazzetta Ufficiale n. 237 del 4 ottobre 2021 è stata pubblicata la legge n. 134 del 2021 recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari».
La legge si compone di 2 articoli: l’articolo 1 prevede una serie di deleghe al Governo, che dovranno essere esercitate entro un anno dall’entrata in vigore della legge; l’articolo 2 contiene novelle al codice penale e al codice di procedura penale, immediatamente giuridicamente vincolanti.
Le disposizioni della legge sono riconducibili a una serie di diverse finalità, tra le quali è preminente l’esigenza di accelerare il processo penale anche attraverso una sua riduzione del livello generale delle norme e la sua digitalizzazione. Misure sono rivolte al potenziamento delle garanzie difensive e della tutela della vittima del reato. Una innovativa disciplina concerne la ragionevole durata del giudizio di impugnazione.
La riforma penale interviene con disposizioni immediatamente prescrittive sulla disciplina della prescrizione dei reati contenuta nel codice penale, con la finalità di:
– confermare la regola, introdotta con la legge n. 3/2019 (cosiddetta Spazzacorrotti), secondo la quale il corso della prescrizione del reato si blocca con la sentenza di primo grado, sia essa di assoluzione o di condanna;
– escludere che al decreto penale di condanna, emesso fuori dal contraddittorio delle parti, possa conseguire l’effetto definitivamente interruttivo del corso della prescrizione;
– prevedere che se la sentenza viene annullata, con regressione del procedimento al primo grado o ad una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla pronuncia definitiva di annullamento.
Parallelamente, sempre con previsione immediatamente prescrittiva, il disegno di legge introduce nel codice di procedura penale l’istituto dell’improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione. Con l’inserimento dell’art. 344-bis si prevedono termini di durata massima dei giudizi di impugnazione individuati rispettivamente in 2 anni per l’appello e un anno per il giudizio di cassazione: la mancata definizione del giudizio entro tali termini comporta la declaratoria di improcedibilità dell’azione penale.

Il processo civile

Relativamente alla riforma della giustizia civile, al momento c’è l’approvazione da parte del Senato del ddl dal titolo oggettivamente impegnativo: «Delega al governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata».
In pratica, è la riforma della giustizia civile, attesa da decenni e finalmente sbloccata dalla necessità di dare seguito alle indicazioni del Pnrr, così come avvenuto per la giustizia penale, che ormai ha completato il suo percorso parlamentare.
Se nel dibattito politico italiano il settore penale ha avuto molto più risalto, a livello europeo l’attenzione maggiore è proprio per il comparto civile, giudicato decisivo per incoraggiare gli investimenti e l’attività economica in genere. L’Italia si è impegnata a ridurre del 40% i tempi dei procedimenti civili, la cui durata esorbitante è purtroppo ben nota ai cittadini e alle imprese. Una sfida epocale.
Per una valutazione più puntuale della riforma, anche rispetto ai profili più controversi, bisognerà comunque attendere i decreti legislativi con cui il governo concretizzerà i criteri e le direttive indicati dal Parlamento nella legge-delega. E verificare l’effettiva capacità di immettere risorse umane e tecnologiche all’altezza degli esigenti obiettivi che ci si è dati.
Anche la riforma del processo civile mira a velocizzare l’iter introducendo diversi strumenti. La prima udienza non sarà più solo un passaggio burocratico ma la causa sarà esaminata nel merito fin dal principio. Un’altra novità della riforma del processo civile è l’introduzione del Tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie, un tribunale unico che sostituirà i tribunali per i minorenni e le sezioni di famiglia dei tribunali ordinari. L’obiettivo è uniformare la materia, oggi trattata in procedimenti distinti che producono una dispersione di risorse e di tempi. Il tribunale unico si occuperà di affidi, responsabilità genitoriale, adozioni e avrà funzioni penali e di sorveglianza.

Vengono inoltre potenziati i metodi alternativi di risoluzione delle controversie (mediazione, arbitrato e negoziazione), introdotte nuove tutele per le donne che subiscono violenza e semplificati i giudizi in materia di lavoro.
Non sono mancate critiche da parte dei professionisti in ambito giudiziario. L’obiettivo di ridurre i tempi del 40 per cento è stato giudicato dall’Associazione nazionale magistrati «non realistico».
Entrambe le riforme prevedono l’assunzione di personale che affianchi i giudici e costituisca l’ufficio del processo, figure temporanee per smaltire procedimenti arretrati. Parte della magistratura ritiene la riforma insufficiente, perché le risorse umane saranno «destinate a disperdersi nell’arco di pochi anni».

L’approvazione della riforma Cartabia è certamente, a mio avviso, un’ottima notizia, resa ancora più significativa dalla coincidenza temporale con la sentenza d’appello nel processo sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia».
Trattativa che a quanto pare non c’è mai stata e che, se anche ci fosse stata, mai avrebbe dovuto chiamarsi così, come fosse un negoziato bilaterale gestito dai legittimi rappresentanti di due organizzazioni che si riconoscono reciprocamente: lo Stato da un lato, la mafia dall’altro.
Come è possibile non rendersi conto che il fatto stesso di chiamarla Trattativa Stato-Mafia è il più grande regalo che si possa fare alla criminalità mafiosa?
Il dibattito post sentenza è stato caratterizzato da un notevole dibattito. Coloro che la criticano affermano che se la trattativa tra mafia e istituzioni c’è stata («il fatto sussiste») non sarebbe accettabile che siano stati condannati solo i mafiosi affiliati ed invece assolti gli ex alti ufficiali dei Carabinieri («perché il fatto non costituisce reato»), essendone stati, gli uni e gli altri, gli attori.
Ma la contestazione in sede penale non è quella di avere dato luogo ad una trattativa (reato non previsto dal nostro codice penale) ma di avere tutti, in concorso tra loro ed a partire dal 1992, minacciato esponenti politici e delle istituzioni, prospettando stragi ed altri gravi delitti, per condizionare la regolare attività del governo e di altri corpi politici. Il tutto con varie aggravanti, tra cui quella di voler avvantaggiare Cosa nostra, avvalendosi della sua forza intimidatrice.
Tale minaccia, prevista e punita dall’articolo 338 del Codice penale è facilmente configurabile per i vari boss mafiosi, che hanno minacciato e commesso gravi delitti, in particolare le stragi del 1992 e del 1993, per ottenere dalle istituzioni alcuni vantaggi, quali la revisione del cosiddetto maxiprocesso a carico dei componenti della «cupola» o del «carcere duro» previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario.
È certo possibile che alcuni ufficiali dei carabinieri, a fronte di una lunga stagione di delitti mafiosi (risalente già agli anni Ottanta) nel corso della quale era drammaticamente emersa l’incapacità dello Stato di prevenire tali crimini, abbiano ritenuto di dover contattare uomini collegati a Cosa nostra per capire quali fossero le condizioni poste dall’organizzazione criminale per interrompere quella serie di sanguinose aggressioni (salvo poi verificare se tale iniziativa sia stata decisa autonomamente o sollecitata da uomini politici, anche di governo). Questo, però, non può integrare una condotta di concorso nel reato, ma semmai scelte e prassi investigative politicamente ed eticamente censurabili, tali da suscitare reazioni simili a quelle che, ad esempio, divisero il Paese in occasione delle trattative tra Stato e Br durante il sequestro Moro o quello del giudice Sossi.
Nel capo di imputazione, si legge che quel tipo di approccio da parte di uomini delle istituzioni avrebbe comunque rafforzato la criminale determinazione mafiosa a minacciare lo Stato: potrebbe in teoria essere avvenuto, ma neppure ciò integra il concorso degli uomini delle istituzioni nel reato contestato poiché è a tal fine richiesto il dolo, cioè la volontà di rafforzare quella di chi agisce.
Ma è francamente difficile pensare che gli uomini delle istituzioni, tentando di contenere l’impatto criminale di Cosa nostra, sia pure con contatti criticabili, «tifassero» per i mafiosi e ne volessero rafforzare la capacità di condizionare l’attività del governo e di limitare il doveroso esercizio dei poteri repressivi dello Stato. Ed è quest’ultimo elemento che i giudici non hanno ritenuto provato oltre ogni ragionevole dubbio, almeno per ciò che riguarda le accuse mosse nei confronti degli uomini dello stato, a differenza degli altri imputati.

 

Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia

 

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