Ci vuole un po’ di impegno, ma ne vale la pena: il voto condizionerà la nostra vita per i prossimi anni e per questo dobbiamo darlo in piena consapevolezza. Un fenomeno dei nostri tempi in crescita
Purtroppo sono tanti coloro che ancora sono rimasti legati alla divisione canonica di politica, cronaca, ambiente, cultura…
Parlare di ambiente, di ecologia e tralasciare di riflettere su altri ambiti culturali, ritengo sia riduttivo, anzi errato. Per indirizzare correttamente e, contemporaneamente, comprendere i giusti limiti di ogni disciplina, non si può tralasciare di argomentare sul contesto sociale e su singoli aspetti di esso.
Lo scopo della politica è l’essere al servizio dei cittadini, dando risposte concrete ai loro bisogni. Oggi dobbiamo recuperare autorevolezza e fiducia aumentando la capacità di ascolto degli associati per ricercare insieme soluzioni innovative, realistiche, percorribili, dall’altro facendo rete territoriale per svolgere un’azione propulsiva verso il bene comune, verso il conseguimento di un fine che valga la pena per tutti.
Ombrello per i perdenti
L’affluenza alle urne è, pertanto, un punto critico nelle democrazie occidentali. Non sempre si registrano medie elevate, anzi l’Italia è uno dei paesi messi meglio, o meno toccati dal fenomeno.
Tuttavia da tempo si registra un declino nella partecipazione al voto, un fenomeno diffuso e crescente sia nelle elezioni politiche sia, da almeno un decennio, in quelle locali.
L’astensionismo è un argomento che, come ovvio, attira la massima attenzione proprio a margine delle votazioni. Poi è spesso trascurato nelle fasi successive, ci si occupa d’altro e non si ha cura di studiarne cause e rimedi. È anche inevitabile che nell’immediatezza sia usato in modo strumentale. Per esempio, per delegittimare quanti hanno ottenuto più voti conquistando il governo di città o regioni. Costoro hanno vinto, ma in fondo a votarli sono stati in pochi, dunque la vittoria vale poco e non c’è ragione di esaltarsi. L’astensionismo offre alibi politici di fronte alle sconfitte. Serve a mascherare inadeguatezze e scelte sbagliate rispetto ai grandi problemi. Insomma un certo fallimento. Abbiamo perso sì, ma a credere in noi sono molti di più e se fossero venuti a votare (accadrà di sicuro la prossima volta) avremmo vinto noi. Insomma la sconfitta è meno bruciante, se ci si può consolare con la mitica riserva dei voti che non ci sono.
A prescindere delle polemiche del momento, l’astensionismo nelle elezioni locali ha un significato particolare, che lo distingue dalle altre forme. Considerare di second’ordine le elezioni di Sindaci e consiglieri è comprensibile rispetto al momento in cui si decidono le sorti del Paese, ma certo incrina pesantemente l’idea che le istituzioni locali siano quelle più vicine al cittadino e quindi più partecipate. Infondo la sensibilità civile parte dal basso, deve misurarsi dal più piccolo o modesto dei livelli. Il rischio è che l’idea di una maggiore partecipazione alla vita delle singole comunità, in sé veritiera e fondata, si trasformi in una retorica. Le cose dimostrano che i cittadini non si sentono (più) rappresentati da queste istituzioni (comuni, municipi, circoscrizioni) rispetto alla politica nazionale. Finiscono per accomunare il grande e il piccolo, nello scetticismo verso la capacità di governare bene. Per questo il segnale di crisi è più allarmante.
Servono riforme
La lezione da trarre riguarda sia il funzionamento delle Istituzioni in sede locale sia le modalità della partecipazione attiva dei cittadini. Le riforme delle strutture locali (nel 1976, nel 1990, poi ancora nel 2000) sono rimaste largamente incompiute. Nelle grandi città, le dimensioni moltiplicano e aggravano i problemi, creano ostacoli per l’accesso spedito ai servizi. La moltiplicazione delle strutture (ad esempio municipi, circoscrizioni) non si è tradotta in un miglioramento sostanziale delle funzioni esercitate, piuttosto ha comportato una frantumazione degli interventi, con conseguente difetto di coordinamento. In questo contesto, non è maturata una maggiore integrazione tra Istituzioni e popolazione. Ancora: i cittadini non sono stati coinvolti nella cosa pubblica.
Una cosa è certa: manca il dialogo con la popolazione. È palese l’inadeguatezza dei partiti: non hanno saputo produrre classi dirigenti di livello e spesso ad amministrare sono persone di seconda categoria. Ma il difetto sta nell’approccio ai problemi, nel modo di operare, nell’ispirazione. Anche a livello locale manca il dialogo con la popolazione, la costruzione di un rapporto dal basso, che possa poi tradursi in consenso e rappresentanza. I partiti si rinchiudono in sé stessi, gruppi sempre più elitari e distaccati, operanti in un altrove inaccessibile, ma esaltato da social e tribune televisive, incapaci di generare idee nuove, e dunque di formare amministratori di qualità.
È bene rendersi conto che un elettorato va conquistato e convinto, e che ciò non può avvenire senza che la politica (a tutti i livelli: Istituzioni, partiti, strutture intermedie di ogni tipo) ritrovi, ogni giorno, credibilità e affidabilità. L’astensione non è affatto un mondo incomprensibile e silenzioso: è richiesta disperata di dialogo e serietà.
Nel momento in cui una «autorità autorevole», quale dovrebbe essere un politico o un intero partito, viene meno agli impegni, peraltro assunti pubblicamente e in favore di telecamera, a risultare minata dalle basi è l’idea stessa di democrazia rappresentativa. E l’astensione, ovvero il decidere di non decidere, che della democrazia è l’antitesi, si afferma. Soprattutto nelle periferie, dove le speranze di chi affida al voto l’utopia di un cambiamento sono state e sono puntualmente disattese.
Deficit di credibilità
La crisi di credibilità delle autorità autorevoli non si limita, ça va sans dire, all’ambito della politica. Investe, da principio, i genitori e poi gli insegnanti, bisognosi di essere formati a essere guide autorevoli, che è cosa ben diversa da autoritarie (l’autoritarismo è sempre espressione di debolezza).
Non che negli uffici e nei luoghi di lavoro le cose vadano meglio. Pensiamo alla ormai canonica distinzione tra leader e capo: il primo stimola con l’esempio, si esercita nell’arte dell’ascolto, prende decisioni pensando sì al profitto, ma anche alle necessità dei suoi collaboratori; il secondo, semplicemente, comanda e impone.
E dunque, oltre alla scuola per manager, oltre alla patente per genitori, oltre ai corsi di formazione dei docenti e degli educatori, andrebbero aperte o riaperte anche le scuole per formare la futura classe dirigente, depurate da zavorre ideologiche e aperte al contributo di chiunque abbia a cuore la credibilità della nostra democrazia. La politica nel suo senso autentico ed originario è cura della polis, ovvero dello Stato tutto e di ogni singolo cittadino, e non può essere disgiunta dall’etica.
Tentare di riportarla a quella dimensione è un compito che occorre darsi, e con urgenza. Ripristinare il vincolo di fiducia con i cittadini significa favorire nuovamente la partecipazione. A meno che il progetto non sia proprio quello di espungere il demos dai processi decisionali e lasciare pochi, eletti o non eletti, «reggenti» a stabilire il destino di tutti. Non penso che il popolo, per quanto anestetizzato, possa restare con le mani in mano davanti a ciò.
Oggi i giovani trovano le ragioni della partecipazione più nell’etica che nella politica, e «fanno politica» sulla base di valori di libertà, in difesa dei diritti umani, della salvaguardia della libertà, della trasparenza e dell’accessibilità della politica. La sfiducia nei confronti della politica, che si esprime attraverso l’astensionismo, il rifiuto dei partiti e il calo di identificazione ideologica più che al disimpegno conduce a un’attività dimostrativa, di denuncia.
In conclusione l’astensione è un corto circuito che pesa sulla classe politica e sui cittadini. L’astensione è la manifestazione di sfiducia più alta contro la classe politica. Se le cose restano così e, anzi, si aggravano, non è possibile costruire nulla, anzi si demolisce tutto e se il distacco cresce (vedi nel mondo l’aumento dei novax ecc.) purtroppo non è difficile immaginare un futuro buio e pesante per l’umanità.
Ci vuole un po’ di impegno, ma ne vale la pena: il voto condizionerà la nostra vita per i prossimi anni e per questo dobbiamo darlo in piena consapevolezza.
In sostanza l’operazione che dobbiamo compiere è proprio l’opposto dell’astensione, perché, come ha ricordato pochi giorni fa anche il presidente uscente della Corte costituzionale Paolo Grossi, invitando ad andare a votare, il voto è «l’arma del popolo sovrano».
Almeno la principale, direi, perché dopo il voto inizia un altro nostro compito importante: controllare gli eletti, verificare che essi rispondano, appunto, alle nostre aspettative, che si comportino in modo coerente rispetto agli impegni assunti con gli elettori.
La verifica deve svolgersi in modo continuativo, attraverso la partecipazione ai partiti politici, con il controllo diffuso che può prendere forma nella ormai sempre più articolata attività di denuncia, con gli eventuali referendum che possiamo proporre per «correggere» alcune scelte, fino al voto nelle prossime elezioni politiche, che non sempre arrivano dopo cinque anni.
Il primo passo, però, è il voto: da esprimere senza farsi tentare dall’astensione, perché anche quando sentiamo che votare è difficile, dobbiamo ricordare che non farlo è peggio.
Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia