E «Intesa Sanpaolo continua a finanziare la crisi climatica»
Un nuovo studio di Greenpeace e Recommon. Eni si colloca nella top 20 dei produttori globali di petrolio e gas e, attraverso la sua controllata Vår Energi, nella top 10 delle società che sfruttano le risorse della Regione artica, soprattutto con le piattaforme petrolifere nel Mare di Barents
In occasione della giornata dedicata all’energia della Cop26 di Glasgow, Urgewald, ReCommon, Greenpeace e altre 18 organizzazioni della società civile rendono pubblico il Global Oil & Gas Exit List (Gogel), un ampio database sulle attività di 887 società petrolifere e del gas, che rappresentano più del 95% della produzione globale di idrocarburi.
Gogel ha un duplice obiettivo: facilitare il monitoraggio delle società che, ancora oggi, continuano a investire nei combustibili fossili e dissuadere le istituzioni finanziarie a concedere loro denaro sotto forma di prestiti, sottoscrizioni e investimenti.
In base agli ultimi dati analizzati, Eni si colloca nella top 20 dei produttori globali di petrolio e gas e, attraverso la sua controllata Vår Energi, nella top 10 delle società che sfruttano le risorse della Regione artica, soprattutto con le piattaforme petrolifere nel Mare di Barents. I rischi associati alla produzione di idrocarburi, già elevati a ogni latitudine, nell’Artico aumentano esponenzialmente: le condizioni estreme, infatti, non fanno che accrescere le possibilità di fuoruscite e incidenti, minacciando ecosistemi già fragili. A ciò si aggiunge il pericolo del rilascio, dal suolo e dai fondali marini, di enormi quantità di gas serra.
«Eni si conferma essere la peggior azienda italiana in termini di impatti sul clima del Pianeta», dichiara Luca Iacoboni, responsabile Energia e Clima di Greenpeace Italia. «Nei prossimi decenni inoltre intende continuare a cercare, estrarre, vendere e bruciare gas fossile e petrolio, addirittura aumentando la produzione negli anni a venire. La ricerca di combustibili fossili in Artico è inoltre doppiamente grave, considerando gli enormi rischi ambientali per l’ecosistema».
Incrociando i dati di Gogel con quelli in possesso di ReCommon e Greenpeace Italia, si possono già fare alcune considerazioni anche sul versante finanziario, e il quadro che emerge non fa che confermare la pessima posizione di un altro attore italiano: Intesa Sanpaolo è la banca nemica del clima numero uno in Italia. Nel solo 2020 la banca torinese ha investito in sei delle otto società dei combustibili fossili che figurano nelle tre principali classifiche di Gogel. Ovvero la top 20 dei produttori di idrocarburi, la top 20 delle società che hanno intenzione di espandere il proprio business e la top 20 di quelle che hanno speso più soldi nella ricerca di nuovi idrocarburi.
A questo proposito, la recente partecipazione di Intesa alla Net-Zero Banking Alliance, parte della più ampia coalizione Glasgow Financial Alliance for Net-Zero (presentata proprio ieri alla Cop26 dall’inviato speciale dell’Onu per finanza e clima Marcus Carney) rischia di risultare l’ennesima operazione di greenwashing del gruppo bancario, nonché di mostrare in maniera evidente i limiti di queste piattaforme finanziarie, con obiettivi opachi e nessun impegno vincolante per il clima.
«ExxonMobil, Shell, TotalEnergies, BP, Chevron ed Equinor hanno beneficiato di investimenti pari a 604 milioni di euro da parte di Intesa Sanpaolo», commenta Simone Ogno di ReCommon. «Mentre sul fronte strettamente italiano, nel solo 2020 la principale banca italiana ha concesso prestiti a Eni per 866 milioni di euro e investimenti pari a 183 milioni di euro», conclude.
I dati di Gogel mostrano come l’industria dei combustibili fossili stia crescendo in maniera sconsiderata, nonostante i moniti della comunità scientifica e le recenti dichiarazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia, secondo cui è finito il tempo di realizzare, e quindi di finanziare, nuove esplorazioni e produzione di combustibili fossili.
Se anche il carbone fosse eliminato da un giorno all’altro, le emissioni derivanti dalle riserve di petrolio e gas esaurirebbero presto la quota di CO2 che permetterebbe di rimanere entro 1,5 gradi centigradi di riscaldamento globale. È urgente avviare un percorso di abbandono graduale ma rapido anche di gas e petrolio, eppure più dell’80% dei produttori di queste due fonti fossili analizzati nel database si apprestano a sviluppare nuove riserve di idrocarburi nell’immediato futuro. Le prime cinque società che stanno espandendo il proprio business sono Qatar Energy, Gazprom, Saudi Aramco, ExxonMobil e Petrobras.
Anche sul fronte midstream lo scenario è allarmante: ci sono attualmente 211.849 chilometri di oleodotti e gasdotti in via di sviluppo. Se i tubi fossero posati senza soluzione di continuità e puntati verso il cielo, arriverebbero a metà strada tra la Terra e la Luna.
Nelle giornate della Cop26 di Glasgow, per ReCommon e Greenpeace Italia il messaggio che deve passare è chiaro: è arrivato il momento di interrompere la ricerca di nuovi idrocarburi, la loro ulteriore produzione e, di conseguenza, il supporto finanziario all’espansione del business fossile.
(Fonte Greenpeace)