Perché l’accordo di Glasgow sulla deforestazione è un «bla, bla, bla»

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COP26
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Le contraddizioni di quello che è stato definito un patto epocale per le foreste

Non è per ragioni climatiche che non dobbiamo danneggiare, eliminare o disturbare le foreste. Non dobbiamo farlo perché la biodiversità di una foresta non gestita dall’uomo è di gran lunga superiore a quella di qualunque sistema maneggiato a discrezione umana. E maggior biodiversità riusciamo a proteggere, maggior complessità, resistenza, resilienza, biomassa e, per ultimo, servizi ecosistemici per l’uomo riusciamo a garantire

Ormai ne parlano tutti: finalmente i vertici sul clima producono qualcosa di buono e di concreto! La scorsa settimana, a detta di molti, si è raggiunto il primo importante risultato degli accordi di Glasgow, in Scozia alla COP26 delle Nazioni Unite: oltre 100 paesi, che custodiscono circa il 90% delle foreste del globo, si sono impegnati a fermare o ridurre la deforestazione entro il 2030. E via allo scroscio di applausi da ogni angolo del globo. Hanno applaudito, guardate un po’, persino le industrie del legno, i mercanti di prodotti tropicali, i produttori di pellet e gli allevatori «di hamburger». Ora diteglielo a tutta quella massa di «gretini» che i Capi di Stato non sono solo degli insulsi chiacchieroni. Che vogliono davvero la salvezza del mondo, al contrario di quello che una dozzina (di milioni!) di ragazzini lamentano…

Quando, però, ho letto che tra i firmatari della Dichiarazione di Glasgow sulle foreste e l’uso del suolo ci sono persino il Brasile di Bolsonaro, la Russia di Putin e l’Indonesia di Widodo, un brivido mi è corso lungo la schiena. Come possono tre delle nazioni che hanno dimezzato le più antiche foreste tropicali e boreali al mondo, per far posto ad allevamenti di «bestiame da hamburger», produrre junk food che ingrassa l’umanità, tagliare legno per i ricchi occidentali, costruire nuovi centri abitati e commerciali ed estrarre biomasse da bruciare che di bio (energia) non hanno proprio nulla, avere interesse nel sostenere un simile accordo?

Un accordo bluff

Eppure ricordo, senza grossi sforzi di memoria, che gli attuali governi di queste nazioni erano stati, sino a qualche giorno fa, e per anni, restii a (quasi infastiditi da) tutti i principali tentativi di frenare la crescente deforestazione nelle loro nazioni. D’altronde, insieme a loro troviamo tra firmatari la maggior parte dei paesi dell’Unione europea, il Regno Unito, gli Stati Uniti e il Canada che sono tra i principali produttori e consumatore di biomasse legnose, prevalentemente sottoforma di pellet, per la generazione di energia.

Ed allora ecco svelato l’arcano (non ci voleva mica un genio!): questa dichiarazione consente, comunque, la silvicoltura industriale, una delle principali cause di perdita di riserve di carbonio e di biodiversità che sono essenziali per la stabilità e la resilienza degli ecosistemi. Molti dei paesi firmatari sono, quindi, ben contenti dell’ambiguità dell’accordo che, mascherato da parole vuote come «green deal», «green economy» e «sostenibilità», non fanno altro che favorire il business as usual, ovvero, continuare a fare ciò che si è fatto sinora, ma col benestare dei «gretini». Che però, «gretini» non sono affatto, al contrario di quello che pensa il luminare modenese dalle ben 5 citazioni scientifiche all’anno in 30 anni di carriera, chiarissimo prof. Franco Battaglia, e quelli come lui. E non essendo «gretini» del bluff se ne sono accordi subito, tanto da definirlo peggio del «bla, bla, bla», ovvero un «lavaggio del cervello verde» (dall’inglese, greenwashing).

Quali foreste?

Eppure in molti (persino gli esperti di foreste), in questi giorni, stanno osannando come un enorme successo questo accordo, quando in realtà è davvero uno specchietto per allodole. Se è vero che nel testo sottoscritto (anche da molti delegati che hanno raggiunto la capitale scozzese con aerei privati, alla faccia del contenimento delle emissioni e della coerenza) il ruolo cruciale delle popolazioni indigene è stato riconosciuto rilevante per la protezione dell’ambiente (era ora, ben arrivato mondo «civile», i «selvaggi» lo sapevano dall’alba dei tempi!), le politiche contraddittorie che promuovono il disboscamento e il bruciare le foreste per produrre energia sostenute dalla maggior parte delle nazioni firmatarie rischiano di rendere questo accordo un dejà vu. Infatti, già la Dichiarazione di New York per le foreste del 2014, firmata da più di 200 nazioni aveva miseramente fallito negli intenti. Le promesse di ridurre la perdita di foreste del 50% entro il 2020 e di porvi fine entro il 2030 non solo non sono state rispettate, ma la deforestazione è persino aumentata, contribuendo ad oltre un quarto delle emissioni totali di carbonio e a una notevole perdita di biodiversità.

Le nazioni, anche quelle europee, che hanno allegramente sottoscritto questo accordo «bla, bla, bla», hanno volutamente dimenticato di precisare che le attuali regolamentazioni delle Nazioni Unite non distinguono tra una ricca foresta vetusta o, comunque, naturale e una piantagione a monocoltura e, quindi, trasformare l’una nell’altra non fa alcuna differenza in termini di stima della copertura forestale. Un ettaro di foresta per l’Onu equivale a un ettaro di piantagioni di palma da olio. Eppure, esistono numerosissime evidenze scientifiche (e anche qui non ci vuole mica un genio!) che confermano quanto le piantagioni siano molto meno efficaci nella riduzione delle emissioni climalteranti e nella protezione della biodiversità.

Andrebbe ricordato ai firmatari di questi accordi che la neutralità del carbonio non può essere ottenuta con la cosiddetta silvicoltura «sostenibile» perché bruciare alberi per produrre energia rinnovabile emette carbonio istantaneamente, mentre una foresta impiega secoli per ricrescere e maturare.

La mistificazione della biomassa

Inoltre, i paesi firmatari non conteggiano come emissioni climalteranti quelle provenienti delle ciminiere delle centrali a biomassa per produrre energia considerata erroneamente «sostenibile» così come fanno per la produzione energetica da combustibili fossili. Eppure, bruciare biomassa emette più gas ad effetto serra di petrolio e gas per unità di energia e questa grave omissione nella contabilità delle emissioni è la causa principale della drammatica e continua mistificazione dell’utilizzo di biomassa forestale come «bioenergia».

Un ingiustificato ottimismo, anche mediatico, riguardo la COP26 ha sostenuto che la Dichiarazione di Glasgow debba esser vista come un punto di svolta per la conservazione delle foreste, il mezzo più efficace che attualmente abbiamo per rimuovere i gas serra dall’atmosfera e immagazzinarli. Tra i più soddisfatti da questa ondata di immotivati consensi sono le multinazionali dei prodotti di origine tropicale, che vedono riconoscersi dall’Onu «foreste» nelle loro piantagioni e i sostenitori dell’industria forestale e della silvicultura che continuano a ribadire che loro non distruggono le foreste, ma piuttosto le gestiscono con l’abbattimento selettivo, che è positivo per la salute degli ecosistemi e per frenare il cambiamento climatico. Per l’appunto: «Bla, bla bla»!

Un accordo davvero efficace avrebbe dovuto, invece, innanzitutto sgomberare il campo dalla scappatoia ridicola secondo la quale, per le Nazioni Unite, non si può tecnicamente definire «deforestazione» lo sfruttamento di una foresta se questa non viene gestita per altri usi commerciali o se viene sostituita per essere ripiantata come piantagione di alberi da frutto. Una piantagione di cacao che verrà commercializzato in un altro continente o un ecosistema gestito dell’industria forestale destinato a diventare pellet di legno da bruciare nelle centrali per biocombustibili, non solo non sono neutri dal punto di vista delle emissioni (anzi!), ma trasformano foreste ricche di specie in fattorie arboree, prive di biodiversità.

Due punti da chiarire

Ecco, dunque, che diventa quantomai necessario chiarire due punti fondamentali se davvero si vuole percorrere la strada verso quella «sostenibilità» che deve dapprima essere «ecologica», come interessa al pianeta, piuttosto che «economica» come interessa alla maggior parte dell’umanità coi paraocchi. Il primo è che se continueremo a passare al setacciando il pianeta alla ricerca di foreste da bruciare, a sovvenzionare la «gestione» delle foreste, a incoraggiare l’accaparramento di terre, sottraendole anche alle popolazioni indigene, per coprirle di distese di piantagioni, gli obiettivi sul clima saranno irraggiungibili. I paesi firmatari di accordi «bla, bla, bla» dovrebbero, innanzitutto, applicare una moratoria assoluta su qualsiasi ulteriore gestione delle foreste anche se legalmente autorizzate (poiché di ecologicamente legittimo c’è ben poco).

Il secondo, altrettanto rilevante, è che bisogna smetterla di diffondere l’idea che la conservazione della natura ha senso soprattutto se ci permette di rimediare ai cambiamenti climatici. La tutela della biodiversità ha valore di per sé, oltre a dare beneficio all’umanità e a contribuire alla stabilità del clima. Una maggior conoscenza bio-ecologica (che è ciò di cui l’umanità avrebbe davvero bisogno in questo momento storico, a partire dalle scuole, perché se è una vergogna non conoscere le opere di Shakespeare o le Guerre puniche lo è, altrettanto, non sapere cos’è un ecosistema o come respira un anfibio), ci permetterebbe di capire che una foresta matura (detta anche vetusta), vivente e non tagliuzzata a piacimento umano, assorbe ben poca anidride carbonica dall’atmosfera (perché il suo bilancio metabolico netto tra emissione e assorbimento è quasi pari a zero) e, quindi, contribuisce ben poco alla riduzione dei gas serra. Addirittura, in una visione semplicistica, se tagliassimo gli alberi che la compongono (senza bruciarli!), per farci case o parquet, e la sostituissimo con una piantagione arborea a crescita rapida, nel breve termine, assorbiremmo più carbonio di quanto quella foresta matura ne contiene effettivamente, riassorbendo parte dei gas serra in atmosfera. Paradossale vero? Non è, dunque (solo) per ragioni climatiche che non dobbiamo danneggiare, eliminare o disturbare le foreste. Non dobbiamo farlo perché la biodiversità di una foresta non gestita dall’uomo è di gran lunga superiore a quella di qualunque sistema maneggiato a discrezione umana (sia esso un bosco ceduo temperato o una piantagione tropicale). E maggior biodiversità riusciamo a proteggere, maggior complessità, resistenza, resilienza, biomassa e, per ultimo, servizi ecosistemici per l’uomo (tra i tanti, appunto, il mantenimento dello stoccaggio del carbonio e del ciclo dell’acqua) riusciamo a garantire.

In altre parole più biodiversità riusciremo a conservare in questo momento cruciale, anche (o soprattutto) all’interno di foreste lasciate alla loro naturalità, ripristinando quelle che sono state degradate o perse a causa del disboscamento industriale e cambiamento di uso del suolo, più contribuiremo a limitare gli effetti (anche) dei cambiamenti climatici.

È ora di fare sul serio

La Dichiarazione sulla deforestazione di Glasgow sarà sostenuta da 19,2 miliardi di dollari di fondi nazionali e privati. È fondamentale che tutto questo denaro non vada a finanziare, invece, la conversione di foreste in piantagioni e l’ulteriore disturbo con le pratiche selvicolturali. L’esempio delle comunità locali e indigene per il ruolo essenziale che svolgono nella protezione delle foreste e nella mitigazione dei cambiamenti climatici, sostenuti dagli 1,7 miliardi di dollari promessi dall’accordo per i diritti di proprietà terriera, dovrà fungere da caso studio per quella maggioranza del mondo «civilizzato» che non vede, come fanno gli indigeni, nella foresta la loro casa da proteggere perché da essa dipende la loro vita così come quella dell’elefante o del pangolino, ma che cerca di trarre profitto economico di breve termine mascherandolo con parole come «sostenibilità» credendo che i «gretini», in realtà molto più illuminati di qualunque altro umano sulla Terra, se la bevano.

È arrivato il momento di smetterla col «greenwashing» e d’iniziare a fare sul serio. Per far questo le nazioni dovrebbero escludere le multinazionali (vere amministratrici moderne dei beni comuni, da cui deriva la doppia tragedy of the commons) dalle decisioni politiche per il bene del Pianeta e fare chiarezza sulla reale «sostenibilità ambientale» delle scelte radicali di cui abbiamo, ora più che mai, estremo bisogno.

Se osservatori alieni dall’intelligenza superiore ci guardassero in questo momento troverebbero la nostra specie a dir poco ridicola perché afferma, in simposi internazionali, di voler proteggere le foreste del mondo mentre continua a danneggiarne e tagliarne centinaia di milioni di ettari ogni anno, perché promette di lavorare per rimuovere la deforestazione dalla catena di approvvigionamento globale di prodotti come legno pregiato, olio di palma, soia e cacao mentre ne favorisce la globalizzazione, perché s’impegna a ridurre i gas serra mentre brucia ciò che li trattiene per produrre «energia pulita». Forse questi osservatori alieni dall’intelligenza superiore sono già tra noi, sono i ragazzi di Fridays for Future che non vogliono vedere il mondo distrutto sotto i loro occhi dalle attività egoiste e dalle decisioni scellerate e di facciata di quelli delle precedenti generazioni che li hanno definiti «gretini», in quella sorta di timore mascherato da ipocrisia di chi sa che, in fondo, ad essere stati dei grandissimi stolti sono coloro che ora premono i pulsanti del mondo stabilendo chi ha diritto di continuare a sperare e chi no, dimenticando (con una memoria davvero cortissima) che basterebbe un microscopico virus a spazzar via buona parte della potentissima specie Homo doppiamente sapiens.

In queste ore, dobbiamo solo scegliere se saremo noi a prendere la decisione giusta per proteggere il resto della natura o il resto della natura a prendere quella sbagliata per proteggere se stessa.

 

Roberto Cazzolla Gatti, Professore Associato di Diversità e Conservazione Biologica, Alma Mater Studiorum Università di Bologna

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