Più testardi di un muflone

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isola del giglio
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Animalisti e conservazionisti a… confronto

Come prendere a testate il futuro fingendo che sia «conservazione biologica»

Ha suscitato molte polemiche la notizia della decisione di abbattere i mufloni presenti sull’Isola del Giglio. Secondo il Parco dell’Arcipelago Toscano il muflone è una specie aliena e invasiva per la biodiversità. Per questo erano stati stanziati 1,6 milioni di Euro per la cattura di una parte degli individui che vivono sull’isola e l’abbattimento dei 40-80 rimanenti. Ovviamente gli animalisti sono insorti e hanno protestato su vari fronti. Secondo i dirigenti dell’area protetta, il muflone è una specie cacciabile che, oltre a non essere in via di estinzione e protetta, è una specie che crea danni ad altre specie. Infatti, dicono dal parco, «il muflone nel mondo è responsabile dell’estinzione di almeno tre tipi di piante» e per questo «vanno eradicati».

Stando, invece, alle associazioni animaliste il muflone è stato portato al Giglio «perché in via di estinzione» e «la loro mattanza servirà ai cacciatori per accumulare punti come selecontrollori e a utilizzare il carnaio per l’autoconsumo». Dopo vari botta e risposta, questi caprini dalle corna curve possono ritenersi, momentaneamente, salvi perché l’Ente Parco annuncia di aver sospeso gli abbattimenti.

Tanto rumore per nulla dunque? Beh non proprio, perché da questo faccia a faccia non esce bene nessuno. Né gli animalisti con i loro validi principi morali, ma con scarsa attendibilità scientifica, né i conservazionisti con le loro motivazioni biologiche, prive però della più totale valutazione etica. D’altronde, già la dicotomica separazione (leggi battaglia) tra animalisti e conservazionisti, che dovrebbero essere la stessa cosa sulla carta, non nobilita entrambe le «fazioni». Se poi a questa atavica compartimentazione persino dei persecutori di obiettivi comuni si associano parole leggere, come musica quando «hai voglia di niente, anzi leggerissime. Parole senza mistero. Allegre, ma non troppo» (parafrasando Colapesce e Diartino), si perde il senso della polemica e si lascia all’interpretazione fantasiosa qualunque posizione. Si fa, insomma, quello che piace spesso fare di questi con argomenti di rilevanza per la salute dell’uomo (come una pandemia) e del pianeta (come i cambiamenti climatici): creare confusione nell’opinione pubblica.

Le parole «leggerissime, senza mistero, allegre, ma non troppo» dovrebbero invece rientrare nelle bocche di chi le pronuncia (o le scrive) per sostare il tempo sufficiente ad uscirne ripulite da preconcetti, ignoranza e luoghi comuni.

L’animalista che sostiene l’inopportunità dell’abbattimento dei mufloni perché specie rara è certamente poco informato da un punto di vista ecologico sullo stato di conservazione della specie. Né più e né meno, però, del conservazionista, bioeticamente ignorante dal canto suo, che condanna a morte animali portati sull’isola nel 1957 (così come sull’Isola dell’Elba nel 1975 e a Capraia nei primi anni 70, sempre dall’uomo, non sulle ali degli aironi!) per ragioni a metà strada tra il ripopolamento e gli interessi venatori, fuggiti da area recintate.

È vero, bisogna correggere gli errori del passato, soprattutto quelli che invece di migliorare l’ambiente l’hanno peggiorato, come i pini sparpagliati sul territorio italiano per compensare il taglio criminale dei boschi autoctoni. D’altronde, non si può stabilire così a cuor leggero che la vita di un essere vivente (appunto), che non ha nemmeno scelto di nascere in un luogo per lui ritenuto non consono dopo che i suoi parenti erano stati deportati forzatamente, valga così poco da non provare a fare il possibile per garantirne l’esistenza (appunto).

Ci si potrebbe chiedere quanto sia costato alla collettività traslocare tra il 1957 e il 1975 questi grossi erbivori sulle isole dell’arcipelago e perché si invocano ragioni economiche ora che si dovrebbe affrontare il problema della rimozione (non «eradicazione» come brutalmente la definiscono i conservazionisti privi di etica) degli animali dall’isola. Ci si potrebbe chiedere ancora quante siano davvero (se ce ne sono) le piante dell’isola del Giglio messe a rischio dalla specie al punto da giustificarne l’abbattimento di massa dopo cinquant’anni [che «nel mondo il muflone sia responsabile dell’estinzione di almeno tre tipi di piante» (sono specie, non tipi, per la precisione necessaria per essere credibili scientificamente!) dice poco da un punto di vista della conservazione biologica di un’isola che non è il mondo e che, per sua natura, è soggetta proprio a quell’effetto isola delle estinzioni, generalizzabile secondo la teoria biogeografica di McArthur e Wilson, ma specifico della singola isola nella reale gestione naturalistica].

Ci si potrebbe chiedere, inoltre, perché si ritiene meno impattante sulle dinamiche ecologiche in corso da mezzo secolo un abbattimento di massa rispetto a una graduale traslocazione o un piano di sterilizzazione? Secondo i conservazionisti eticamente ignoranti, sembra sia costoso catturare gli animali sfuggiti. Saranno mufloni più intelligenti quelli che fuggono, ma non costerebbe lo stesso, forse anche meno (basti pensare a tutto il piombo che le cartucce dei cacciatori disperdono nell’ambiente e che minacciano un imprecisato numero di piante, ma anche animali, nel mondo e in Italia) sparare un dardo di anestetico piuttosto che un proiettile? Sempre secondo i conservazionisti eticamente ignoranti, la specie è aliena e invasiva e quindi va, giustamente, controllata.

Non si può ignorare il fatto che le specie aliene che diventano invasive sono una grave minaccia per la biodiversità. L’Australia ne è uno degli esempi più eclatanti, con decine di specie scomparse a causa dell’arrivo di gatti, cani, volpi e ratti insieme ai colonizzatori umani europei. Eppure, tra tutte le specie invasive che conosciamo, l’Homo sapiens sapiens (non proprio un caso di nomen omen) è quella più diffusa e dannosa in ogni angolo del pianeta. Non per questo riterremmo la decisione di «eradicazione» dell’uomo dai luoghi della Terra in cui è diventato infestante (ovvero la maggior parte), presa da un Ente Universale della Conservazione della Vita, etica, accettabile, umana! Ma a parti invertite, quando siamo noi uomini a decidere, le ragioni morali della conservazione dell’altrui vita cessano di esistere.

Staranno gongolando gli animalisti ecologicamente ignoranti mentre leggono dei miei dubbi sulle idee e l’operato dei conservazionisti eticamente ignoranti. Anche loro, però, non possono vedere solo ciò che è etico, ignorando qualunque ragione ecologica. Si son mai chiesti, ad esempio, quali danni (ben più rilevanti di quelli provocati dai mufloni) gli amati gatti salvati dalla strada e sparpagliati in campagne e aree «naturali» come isole causano quando gironzolano a caccia di qualunque creatura a tiro? Certo, se il principio (universalmente noto da Alpha Centauri in su) è che, comunque, la causa/colpa di tutto è sempre l’uomo, risulterà chiaro a tutti che è necessario correggere gli errori dell’uomo, del passato e del presente, affinché si veda una luce nel prossimo, immediato futuro. Questa correzione in divenire, però, andrebbe fatta riducendo al minimo la sofferenza per qualunque essere vivente, anche in considerazione di quanta già ne è stata causata da scellerati (ma sarebbe meglio dire, interessati) interventi umani.

Altrimenti, come nei più combattivi scontri territoriali, continueremo, più testardi di un muflone, a dare capocciate a tutto ciò che non ci sta scomodo, per ritrovarci molto presto dinanzi ad uno specchio, per l’ultima incornata.

 

Roberto Cazzolla Gatti, Professore associato di Biodiversità e Conservazione Biologica, Università degli Studi di Bologna