Quasi sempre, però, si rivela un impegno vano, di fronte all’ottusità degli amministratori, all’abusivismo e al vandalismo immobiliare che hanno già fatto toccare livelli impressionanti di consumo del suolo, ferito irreparabilmente il paesaggio del paese, messo in pericolo città storiche uniche al mondo e pregiudicato la vivibilità di molte aree urbane
L’Italia, non solo a mio parere, è un paese in cui sempre più persone e associazioni si ergono a difesa del bello, lottano per una riscossa civile contro la prepotenza distruttiva del cemento, rivendicano il diritto a un territorio sicuro, confortevole, funzionale; e in cui altrettante persone e associazioni, più semplicemente, si prendono cura di angoli del paese dimenticati dalle istituzioni.
Si moltiplicano i comitati locali; Fai, Italia Nostra e Legambiente registrano sempre maggior seguito.
La ragione di questa sensibilità, di questo impegno ancora minoritario, sì, ma in costante crescita, sta forse nel fatto che, come fa notare Salvatore Settis in «Paesaggio, costituzione, cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile», «la “domanda” sociale di paesaggio (con la sua sintesi fra natura e cultura, fra spazio e tempo) aumenta sempre di più perché l’offerta, la qualità, diminuisce».
Quasi sempre, però, si rivela un impegno vano, di fronte all’ottusità degli amministratori, all’abusivismo e al vandalismo immobiliare che hanno già fatto toccare livelli impressionanti di consumo del suolo, ferito irreparabilmente il paesaggio del paese, messo in pericolo città storiche uniche al mondo e pregiudicato la vivibilità di molte aree urbane. Nonostante queste «sacche di resistenza», siamo costretti ad assistere alla trasformazione dell’ambiente in cui viviamo: da bene pubblico inestimabile in risorsa da sfruttare.
Il nostro paese, per anni il primo produttore di cemento al mondo, è passato da un consumo di suolo del 2,7 per cento del territorio nazionale negli anni Cinquanta al 7,0 per cento nel 2014, ossia da 8.100 m2 a 21.100 m2 (dati Ispra).
Un processo che si abbina a decisioni urbanistiche scellerate, e che non ha eguali nel resto d’Europa.
Proprio nel paese dal patrimonio culturale più ricco e diffuso (e storicamente meglio tutelato) si è registrata l’espansione urbanistica più disarmonica e incontrollata di tutto il continente, la cui natura speculativa è testimoniata anche dal dato-record sul rapporto fra insediamenti abitativi e popolazione.
Le conseguenze non sono state, e non sono, di natura unicamente estetica.
L’Italia conserva comunque un primato positivo: il nostro è l’unico paese d’Europa ad aver salvato in larga misura i propri centri storici.
A tale proposito, notevoli sono state le denunce contro le offese inferte alle bellezze artistiche e paesaggistiche italiane, e ai centri storici «sventrati» di città che crescevano «a macchia d’olio», in modo sistematicamente informe, senza riguardi nei confronti dell’antico e del bello.
Personalmente concordo con chi ritiene di attribuire ad Antonio Cederna, giornalista, il merito di anticipare, con lucidità quasi profetica, temi divenuti di vasto interesse pubblico, ma che nella mentalità dell’epoca lo relegavano tra gli stravaganti «oppositori del progresso».
Cederna, infatti, non esitò a definire «vandali» i responsabili di tanto scempio.
L’Italia che aveva subito danni immensi dai bombardamenti bellici, frastornata dalla fretta di ripartire, accantonò la ragionevole legge generale di coordinamento urbanistico territoriale introdotta nel 1942 derogandola con provvedimenti ad hoc (fu così inaugurata la pervicace e assurda abitudine a ricorrere a norme speciali per aggirare quelle ordinarie).
All’ansia della ricostruzione subentrò poi l’ansia di un progresso spesso malinteso, ed è sull’altare di uno sviluppo economico tanto rapido e straordinario quanto contraddittorio e caotico che fu sacrificata buona parte del patrimonio immobiliare.
Mi piace riportare una parte dell’introduzione de «I vandali in casa» nella quale Cederna descrive chi sono i vandali: «sono quei nostri contemporanei, divenuti legione dopo l’ultima guerra, i quali, per turpe avidità di denaro, per ignoranza, volgarità d’animo o semplice bestialità, vanno riducendo in polvere le testimonianze del nostro passato: proprietari e mercanti di terreni, speculatori di aree fabbricabili, imprese edili, società immobiliari industriali commerciali, privati affaristi chierici e laici, architetti e ingegneri senza dignità professionale, urbanisti sventratori, autorità statali e comunali impotenti o vendute, aristocratici decaduti, villani rifatti e plebei, scrittori e giornalisti confusionari o prezzolati, retrogradi profeti del motore a scoppio, retori ignorantissimi del progresso in iscatola. Le meraviglie artistiche e naturali del “Paese dell’arte” e del “giardino d’Europa” gemono sotto le zanne di questi ossessi: indegni dilapidatori di un patrimonio insigne, stiamo dando spettacolo al mondo. Tra le persone civili e i vandali odierni nessun compromesso è possibile».
Beni di tutti
Penso, e spero, che sia ormai opinione generale che il paesaggio, la città e il territorio sono beni di tutti, sono i luoghi attraverso i quali il passato consegna alle generazioni presenti e future la loro identità. Il loro fulcro non è costituito dai singoli panorami o dalle grandi vestigia delle epoche trascorse, e nemmeno dalla loro sommatoria, ma dal rapporto fra i vari elementi, l’equilibrio ecologico e le implicazioni sociali che ne derivano. Una concezione sistemica secondo la quale il territorio è una delle principali fonti del benessere sociale e individuale, e dunque della democrazia.
Alla crescente e inesorabile impermeabilizzazione del suolo, causa di continui e spesso drammatici disastri idrogeologici, corrisponde, oggi, una pari richiesta di un modello di sviluppo alternativo.
Tuttavia, mentre gli investimenti pubblici per la tutela del paesaggio, la riqualificazione urbana, la preservazione degli equilibri ecologici e il risanamento fisico del territorio, di cui c’è disperato bisogno, vengono costantemente rinviati, si continua a promuovere il modello delle grandi opere, dell’alta velocità e delle mega-autostrade, dei «grandi eventi» con cui derogare alla normativa ordinaria.
Creano lavoro, si dice. Ma le grandi opere sono ad alta intensità di capitale, mentre le piccole ad alta intensità di lavoro: queste ultime, infatti, a parità di investimento, produrrebbero ricadute estremamente più positive sull’occupazione.
L’utilità delle grandi opere, finanziate tramite il meccanismo del project financing, che finisce per favorire le grandi imprese appaltatrici e le banche, appare del tutto sproporzionata (quando non del tutto fittizia) rispetto ai suoi enormi costi.
Eppure non vi si rinuncia, nemmeno in epoca di austerità: troppo forti gli appetiti dei grandi capitalisti, troppo forti i legami coltivati nel «laboratorio segreto in cui», come ci ricorda lo storico francese Fernand Braudel, «il possessore di denaro incontra quello del potere politico». C’è una tendenza naturale del capitalismo a porsi al riparo dal rischio d’impresa, dalla concorrenza che per sua natura erode i margini di profitto: è nel campo politico che si determina l’esito di questa ricerca ossessiva della rendita.
Se la politica è forte e democratica, può fungere da contrappeso grazie alla sua capacità di indirizzo e di legiferare in nome dell’interesse generale. Se è forte ma non democratica, oppure debole e subalterna, diviene il garante della rendita, il regista dei grandi interessi privati, come è sempre accaduto in Italia e come sempre più accade nel mondo.
La Puglia in ritardo
Non posso, poi, non concordare con l’analisi di Giuseppe Milano e Leonardo Scorza pubblicata su «La Repubblica» del 17 dicembre in merito al Piano Casa in Puglia: non va prorogato. Va abolito.
In un mondo devastato dai cambiamenti climatici e sconvolto dai mutamenti economici o antropologici, cosa aspetta il Consiglio Regionale della Puglia ad entrare in una modernità generativa e inclusiva che impone alle Istituzioni di agire secondo gli standard internazionali di sostenibilità dell’Agenda 2030?
Fino a quando una risorsa naturale pressoché non rinnovabile per i suoi lunghi tempi di formazione come il suolo sarà scambiata come merce nel mercato della speculazione economica e politica? Fino a quando, nella complicità indifferente dei Comuni che non aggiornano da decenni i loro obsoleti piani urbanistici comunali, potrà essere tollerato il rifiuto della pianificazione territoriale o di area vasta, ossia di un istituto strategico fondamentale che andrebbe valorizzato per recuperare i diffusi scarti urbani e curare le ferite provocate al corpo della Città dalla pandemia dell’impermeabilizzazione?
Ci si chiede: la legge regionale sulla partecipazione perché, opportunamente integrata e aggiornata, non viene applicata per fare delle città quello scrigno di biodiversità umana e di prossimità di cui si avverte oggi un enorme bisogno, ancor più dopo la crisi da Covid-19?
Perché la Regione Puglia non si è dotata ancora di una legge sull’adattamento e la mitigazione ai cambiamenti climatici che rispondendo, inoltre, anche all’esigenza di semplificare o abrogare le norme predisposte in modo confuso negli ultimi anni, la eleverebbe a modello nel Paese e di tutto quel Mezzogiorno purtroppo sempre più esposto ai fenomeni dell’erosione e della desertificazione come denunciato dall’Agenzia europea dell’ambiente?
L’Unione europea, con il Green New Deal sta invitando i Paesi membri e le sue istituzioni territoriali a rovesciare radicalmente le politiche pubbliche rinnovandole secondo i principi dell’ecologia integrale e dell’economia circolare, per i quali, dunque, occorre recuperare e riutilizzare le risorse esistenti (e, quindi, anche il patrimonio edilizio esistente e ciò che caratterizza le nostre urbanità in un’ottica di rigenerazione urbana) per conseguire l’obiettivo della giustizia tanto socio-ambientale quanto intergenerazionale.
L’identità
Per concludere, un’ulteriore considerazione. Un sistema urbano deve avere la capacità di affrontare le trasformazioni senza perdere la propria identità e di modificarsi trovando soluzioni sociali, economiche e ambientali nuove che permettano al sistema di resistere, nel lungo periodo, alle sollecitazioni dell’ambiente e della storia.
È un segno della saggezza con cui una collettività affronta le sue problematicità, senza chiudersi ai cambiamenti, ma anche mantenendo ferme le proprie radici e il proprio passato, il tessuto connettivo che sorregge la vita quotidiana e gli scambi sociali.
La possibilità che si presenta alle città è, quindi, quella di agire sui propri modelli organizzativi e gestionali per risistemare, in direzione della sostenibilità e dello sviluppo sostenibile, il proprio patrimonio. Una città deve essere in grado di pianificare e realizzare strategie di lungo periodo che garantiscano il mantenimento dell’equilibrio sociale attraverso una governance intelligente e condivisa.
Le città sono chiamate a fronteggiare delle opportunità di trasformazione e di innovazione delle condizioni pregresse, e quindi delle occasioni per ripensare il futuro stesso delle città.
In tale contesto, un approccio «resiliente» può rivestire un ruolo strategico, in chiave sostenibile, nella risoluzione dei problemi legati alla mobilità urbana e, più in generale, agli aspetti relazionali del sistema urbano.
Questo, infatti (caratterizzato da una elevata concentrazione di popolazione, servizi, attività produttive e commerciali) costituisce lo scenario in cui la mobilità è l’elemento di criticità principale per il raggiungimento dell’equilibrio fra le esigenze dei singoli e il benessere comune, obiettivo di base per garantire uno sviluppo sostenibile.
Analizzando il fenomeno urbano in un’ottica di sviluppo sostenibile, si va ormai consolidando la tendenza di mettere al centro del dibattito sulle politiche territoriali i fenomeni sociali connessi alla mobilità, al rapporto centro-periferie, alla dislocazione dei servizi.
Una città, dunque, deve essere caratterizzata da un elevato mix di attività e funzioni, in cui la dipendenza dall’automobile venga contrastata da un’offerta di trasporto diversificata, composita e più efficiente dal punto di vista energetico, prevalentemente affidata ad un trasporto pubblico efficiente unitamente a forme di mobilità dolce (a piedi o in bicicletta).
È necessario, pertanto, un approccio unitario che permetta una visione delle problematiche strutturali non disgiunta da quelle connesse alla qualità della vita, alla coesione e alla partecipazione sociale.
In questo quadro, è importante che le amministrazioni locali siano pienamente consapevoli delle sfide che sono chiamate ad affrontare e dei problemi che i cambiamenti pongono, passando dagli attuali metodi di pianificazione di città rigide e vulnerabili a strategie per disegnare città resilienti e adattabili, tenendo conto dei tanti fattori complessi che caratterizzano gli ambienti urbani.
Francesco Sannicandro, già Dirigente Regione Puglia e Consulente Autorità di Bacino della Puglia