Ma quale energia nel nostro futuro?

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Presentiamo in questo numero le punte più avanzate degli orientamenti della ricerca dal Cnr all’Enea con la consapevolezza, come si spiega nell’Editoriale, dei forti limiti imposti in misura minore dalla tecnologia ma in misura superiore dall’economia che ormai è fuori controllo da parte di una etica politica

È on line il primo numero del nostro trimestrale di quest’anno 2022. Siamo al numero 97 e la tematica dell’anno che andremo a sviluppare è «Un futuro possibile». Cominciamo con l’energia, un tema sempre d’attualità, in questa fase di decarbonizzazione e che, in questi ultimi giorni, sta assumendo tinte piuttosto fosche perché si tingono degli oscuri colori della guerra.

Presentiamo in questo numero le punte più avanzate degli orientamenti della ricerca dal Cnr all’Enea con la consapevolezza, come si spiega nell’Editoriale, dei forti limiti imposti in misura minore dalla tecnologia ma in misura superiore dall’economia che ormai è fuori controllo da parte di una etica politica.

A seguire l’Editoriale di questo numero del direttore Ignazio Lippolis.

 

L’energia è la base della crescita della società. Le invenzioni seguono i bisogni dell’uomo e le comunità, le relazioni fra gli uomini diventano sempre più complesse in una realtà globalizzata ed iperconnessa.

Le caratteristiche del vivere assomigliano via via ad un mega organismo. Tutto questo è un bene perché, guardando le cose in prospettiva, nel tempo, in un futuro che certamente non è nella misura di una vita, sarà obbligatorio eliminare le impurità che impediscono il raggiungimento di un equilibrio empatico che ci conduca verso un modo di vivere oggi inimmaginabile.

Molti certamente percepiscono questa sensazione di cambiamento imminente e l’immaginazione intravede questo possibile orizzonte.

Ma ci sono ostacoli. Perché il cammino dell’uomo è appesantito da modi di vivere e di pensare legati alle generazioni del passato basate sull’antagonismo, sul potere, sull’accumulo di ricchezza. Molte società del passato si sono estinte, distrutte dal bisogno di correre e dall’incapacità di gestire l’esistente.

A questa prova siamo chiamati. Dobbiamo misurarci con le forze frenanti che ancora esistono ed ostacolano il decollo.

Da una parte è in atto una forte accelerazione, dall’altra c’è un preoccupante appesantimento che sta pericolosamente interferendo con gli equilibri del nostro pianeta. Ed in questi giorni stiamo concretamente vedendo questi pericoli e la filosofia che c’è dietro proprio con il conflitto Russia Ucraina.

Abbiamo superato il punto di non ritorno? Ci stiamo incamminando verso un’altra era geologica in cui non ci sarà spazio per l’uomo? Nessuno può dirlo. Certo che i segnali che si intravedono sembrano minacciosi.

L’energia è ad uno snodo cruciale. La partita non è tecnologica o economica, è soltanto culturale.

Né i due sistemi economici che ancora si fronteggiano, appoggiandosi a portati culturali puramente strumentali, (democratico e totalitario) hanno dimostrato di possedere gli strumenti per una svolta epocale in campo ambientale, e di porre quindi l’uomo all’interno di una organizzazione sociale vitale compatibile con tutti gli altri viventi, poiché entrambi hanno generato un modo di vivere economico naturalmente insostenibile, come viene definito dall’attuale dibattito fra diversi analisti.

Giuseppe Sottile, nella Introduzione al lavoro di Ian Anghus, «Anthropocene. Capitalismo fossile e crisi del sistema Terra», scrive: «Siamo di fronte ad una sorta di accumulazione terminale o, per dirla con Moore, “Oggi la dialettica di capitalizzazione ed appropriazione ha raggiunto un punto di rottura”. Foster parla di “legge generale, assoluta, di degradazione ambientale”, Angus richiama l’”exterminism”, McBrien parla di “necrosi” e Kovel del capitalismo come di un cancro nella natura. In quest’ottica, la questione della natura delle crisi capitalistiche non riveste molta importanza. Ciò che ha importanza sono gli effetti devastanti che l’accumulazione capitalistica, gli investimenti in capitale fisso e circolante comunque hanno sulla forza-lavoro e sulla natura».

Già Marx osservava che «Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso». Questo nodo, già chiaro allora, è rimasto come problema insoluto tutt’oggi. Anche se, inutilmente, ormai 50 anni fa, era all’attenzione degli studiosi di futuro concretizzatosi poi nel libro, pietra miliare, del Club di Roma con «I limiti dello sviluppo» (meglio i limiti della crescita…) di Aurelio Peccei.

Storicamente, guardando l’elaborazione del pensiero, sembra che la partita sia persa. Ma allora l’uomo deve rassegnarsi ad una ingloriosa uscita di scena?

Finché questo sistema economico che ci governa resterà operativo e fino a quando le alternative proposte si rifaranno alla medesima logica, non c’è soluzione ma solo una lenta e inesorabile sconfitta per la nostra specie.

Per questo il problema è culturale. Il senso della natura, del rispetto di qualunque vita, del riciclo, del non accumulo di beni… fanno parte di quel patrimonio culturale che abbiamo perso. Pertanto, lo recuperiamo o non ci sarà alcuna energia alternativa che potrà reggere perché sarà solo un altro modo per produrre la distruzione.

E il continuare a gingillarsi fra più o meno nucleare, più o meno metano, carbone sì o carbone no, per nascondere un potere ancora invasivo della vecchia economia, è un comportamento colpevole che sarà inesorabilmente condannato dalla storia.

 

Ignazio Lippolis