Il rapporto Labsus 2021 evidenzia: 62 comuni con regolamenti propri; 1001 i patti in essere sottoscritti nel 44% dei casi da associazioni (mentre nel 22% si tratta di singoli cittadini). Nel 54% dei casi i comuni hanno un ufficio unico dedicato alla sottoscrizione dei patti, che nel 47,9% riguardano la gestione di spazi verdi urbani e nel 18,8% arredi urbani. Il tempo di affidamento varia da uno a 3 anni
Nel 47,9% dei casi riguardano la gestione di spazi verdi urbani, ma crescono anche le percentuali di beni immobili che associazioni o singoli cittadini chiedono di poter gestire per il bene della comunità. I «patti di collaborazione», sono prassi ormai consolidate attraverso cui le istituzioni e i cittadini stringono alleanze. E il rapporto Labsus 2021 ne censisce 1001 in tutt’Italia, su 62 comuni che hanno un apposito regolamento, con una netta prevalenza di comuni del Nord rispetto al Sud.
Esercizi di condivisione sociale, dove si crea la rete che sorregge ed alimenta una comunità, una tendenza in crescita come è stato messo in evidenza qualche giorno fa durante la presentazione del Rapporto presso la parrocchia San Sabino a Bari. Attorno al tavolo Alfredo Lobello per l’associazione «Tutto è connesso», Pasquale Bonasora, presidente di «Labsus», Michele Loforese, referente di «Libera Bari», Angela Barbanente, docente del Politecnico di Bari e Antonio Decaro, presidente Anci e sindaco di Bari.
«Coprogettare una gestione diversa di un bene pubblico, dove una associazione o un gruppo si fanno carico di condurre uno spazio verde per conto e aperto alla comunità, non è solo la redazione di un documento programmatico o di un regolamento — ha sottolineato Alfredo Lobello — ma un processo attorno al quale si organizza una comunità che vuole crescere, innescando tutta una serie di cambiamenti culturali, economici e sociali».
«Il primo regolamento su patti di collaborazione è stato firmato a Bologna nel 2008 — spiega Pasquale Bonasora —, da allora sono stati avviati almeno 6mila patti che hanno cercato di colmare il solco che spesso si crea tra istituzioni e comunità. Un patto di collaborazione in genere risponde ad un bisogno, che non è desiderio personale ma di un gruppo che si propone come comunità educante».
Ecco allora i numeri che il rapporto evidenzia: 62 comuni (mentre nel 2019 erano 44) con regolamenti propri; 1001 i patti in essere sottoscritti nel 44% dei casi da associazioni (mentre nel 22% si tratta di singoli cittadini). Nel 54% dei casi i comuni hanno un ufficio unico dedicato alla sottoscrizione dei patti, che nel 47,9% riguardano la gestione di spazi verdi urbani e nel 18,8% arredi urbani. Il tempo di affidamento varia da uno a 3 anni.
«Il Rapporto 2021 analizza i 1001 patti che si stanno portando avanti a livello nazionale — ha spiegato Pasquale Bonasora —. Numeri in crescita (nel 2019 erano 830) anche se con un Sud che arranca. E se in gran parte riguardano la gestione di spazi verdi, sono in sensibile crescita i patti che riguardano la gestione di beni immobili. Stiamo parlando della necessità di immaginare in maniera diversa la funzione di spazi che nel tempo sono stati abbandonati e che invece di essere abbattuti, vengono riqualificati. Al centro c’è sempre una visione alternativa di questi beni».
Il rapporto racconta anche storie, di patti che si trasformano non solo in spazi educanti, ma buone prassi economiche e del benessere condiviso di una comunità. Intendendo il tutto come una forma alternativa di gestione del patrimonio.
E un esempio in tal senso è la gestione dei beni confiscati alla mafia. «I beni confiscati alle mafie sono beni comuni per antonomasia — sottolinea Michele Loforese, referente di Libera Bari —. Sono beni che la criminalità ha sottratto a tutti noi e che devono tornare alla comunità, per diventare luoghi dove si promuove una economia sociale e dall’alto valore socio-educativo, che può fare la differenza nell’incidere sul cambiamento di un territorio».
Al momento in Italia tra i beni sottratti alla comunità e dati in gestione ci sono quasi 4.500 appartamenti e 3.800 terreni. In provincia di Bari a Valenzano, ad esempio, la cooperativa Semi di vita gestisce da due anni 26 ettari di terreno dove si svolgono sia attività di comunità, sia si coltiva, sia si racconta la storia con alberi dedicati a vittime di mafia.
«I beni confiscati sono luoghi dove si promuove una economia civile — dice Loforese —, azioni che incidono sempre sul cambiamento del territorio».
«Un patto incide sulla pianificazione del territorio — sottolinea Angela Barbanente — e significa aver cura del bene comune. È uno strumento unico ed indispensabile senza il quale non si può ricostruire il rapporto tra luogo e società. In questi anni abbiamo assistito all’aziendalizzazione di una serie di servizi, come la sanità. La pandemia ha dimostrato come questi processi si siano dimostrati fallaci, sovvertendo quella tendenza che aveva delegittimato la cosa pubblica. Con un patto di collaborazione si recupera il valore del bene pubblico come un processo da costruire insieme, diventando il tutto molla di sviluppo locale».
R.V.G.