Da più di 25 anni tutti i problemi legati ai cambiamenti climatici, erano già noti, studiati e nelle agende governative di tutto il mondo. Ma non è cambiato niente. Che cosa si può fare? Serve un’idea radicale
Era il 1° marzo del 1998, e nasceva «Villaggio Globale», allora, anche in versione cartacea. Leggere quel numero e l’editoriale che scrissi, è raccapricciante. Tutti i problemi legati ai cambiamenti climatici, erano già noti, studiati e nelle agende governative di tutto il mondo. Ma non è cambiato niente.
Per questo riproponiamo quell’articolo, per far toccare con mano l’incapacità dei nostri governanti. Tutti e non solo italiani.
Ma l’idea non è quella di un pianto collettivo o di generiche recriminazioni. L’idea è quella di smuovere le coscienze e spingere all’azione. Perché ciò è possibile.
Alla fine dell’articolo scrissi: «Per questo non è prudente che il ricercatore sia chiuso nel suo laboratorio, l’insegnante stia con i suoi studenti e l’amministratore sia travolto dalla gestione del traffico. Bisogna scendere tutti in piazza, nella nuova piazza del villaggio globale e parlare, parlare, parlare. Mai come questa volta il silenzio può ucciderci».
Un invito agli educatori e agli scienziati, di farsi carico del peso che portano. L’impalcatura delle leggi oggi è tale che il parere e l’approvazione scientifica sono vincolanti. Senza si blocca tutto.
È vero che ci sono ingegneri ed architetti che firmano progetti improbabili, ma qui non sono in pericolo ponti e strutture edilizie (sia pure siano un danno gravissimo) ma è in pericolo il pianeta.
Ormai accusare gli ambientalisti di allarmismo non funziona più.
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«Come si possono comprare o vendere il cielo e il calore della terra? Noi non siamo padroni della freschezza dell’aria e dello zampillare dell’acqua», così si espresse il capo indiano della tribù dei Duwanisch, Sealth, in una lettera che inviò nel 1854 al presidente americano Franklin Pierce dopo che aveva ricevuto la richiesta di acquistare parte dei territori indiani.
È lo scontro di due culture, due modi diversi di essere nell’ambiente. Un conflitto antico, in realtà, probabilmente ancora lontano dalla soluzione considerando le difficoltà che si incontrano nel modificare il rapporto dell’uomo con la natura, l’interazione dei mezzi di produzione con la biosfera, il controllo finale delle merci, il calcolo del costo reale, in energia, dell’azione umana.
Certamente, per operare questi «conti», bisogna conoscere esattamente le forze in campo: quali e quante sostanze sono responsabili di un certo fenomeno. Senza questa conoscenza non è possibile orientare i consumi e le scelte economiche. Intervenire in maniera sbagliata potrebbe causare danni maggiori.
Non siamo però all’anno zero. Gli studi sono in rapida evoluzione, le conoscenze cominciano a delineare con maggiore precisione cause ed effetti, i modelli matematici, forti di dati sempre più numerosi, riescono a dare previsioni più verosimili. E partiamo anche da alcuni punti fermi. Gli scienziati incaricati dalle Nazioni unite per valutare i cambiamenti climatici, Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), nel 1995 hanno parlato chiaramente di «visibile influenza umana sui mutamenti climatici» e avvertito che «in assenza di politiche di mitigazione, i gas serra continueranno ad aumentare nel prossimo secolo e porteranno a mutamenti del clima». E i ricercatori dell’Hadley Centre for climate prediction and research e la University of East Anglia, due istituti che danno il la in fatto di meteorologia in Gran Bretagna, hanno recentemente dichiarato che l’aumento delle temperature medie negli ultimi 10 anni è ormai fuori dalla variabilità naturale.
L’Earth summit di Rio de Janeiro, nel 1992, ha dato il via alle grandi convenzioni, ma mentre le trattative faticosamente vanno avanti, l’incertezza sul futuro dell’uomo cresce.
Il primo accordo internazionale per la protezione della fascia di ozono fu siglato a Vienna il 22 marzo 1985 e a Kyoto s’è ancora parlato di gas dannosi per l’ozonosfera. Di effetto serra, se ne parla da anni, cicloni e Niño tormentano le coste delle Americhe tanto da far fuggire le assicurazioni, e nonostante ciò gli Usa e altri Stati hanno resistito fino all’ultimo nel tentativo di non quantificare le riduzioni di anidride carbonica, alla fine si sono concordate minime riduzioni, qualche aumento e il non rispetto di limiti da parte dei Paesi in via di sviluppo.
Il lento cammino dell’uomo prosegue, quindi, fra alti e bassi, emozioni e distrazioni. Alla base, probabilmente, c’è l’incapacità di comprendere che la terra e l’aria non si possono comprare. E’ l’eterno dualismo fra avere ed essere, l’infantile desiderio di possedere. Che l’uomo sia ancora un bambino? Konrad Lorenz suggeriva che forse l’anello mancante siamo noi. Probabilmente il Terzo millennio vedrà la nascita di un uomo nuovo. Più consapevole dei propri limiti e che avrà fatto suo il principio precauzionale.
Questo principio, sancito nel 1987 tra gli Stati del Mare del Nord e poi adottato dal programma ambientale delle Nazioni unite alla Convenzione di Barcellona per il Mediterraneo e dal Consiglio Nordico, sottolinea che in mancanza di una certezza scientifica, nel dubbio, debbano prendersi sempre scelte a favore dell’ambiente. Senza questo principio il Villaggio Globale rischia di diventare una casbah e la diffidenza fra società chiusa e società aperta, analizzata da Popper, rischia di diventare, giustamente ma con minacciose ipoteche, ancora più marcata. La globalizzazione non deve diventare un lasciapassare per un nuovo tipo di colonizzazioni già sperimentate da decenni dalle multinazionali. Sì, è vero che il Pil di Cina o India cresce più velocemente di quello dei paesi occidentali, ma nel calcolo del Pil c’è la durata della vita media, la qualità della vita, il depauperamento dell’ambiente, il costo per il risanamento? E poi, se anche noi non ci facessimo carico di una parte della popolazione, non potrebbe essere che anche il nostro Pil volerebbe? Ma ci sta bene costruire una società in cui i più deboli non hanno diritti, le morti e le nascite sono freddamente previste e calcolate, l’aria, l’acqua, i prodotti della terra sono altro rispetto ai sapori e agli odori oggi familiari e che l’ingegneria genetica non potranno replicare?
La matematica o l’economia non sono infallibili, bisogna vedere i parametri con cui si fanno i conti. E vederli tutti. Appunto globalmente. Se i conti dell’aria non tornano, da qualche parte avremo sbagliato.
Proprio per verificare quale aria respireremo fra 100 anni, è partito un progetto lanciato dall’università Libera di Amsterdam. La ricerca, cofinanziata dalla Commissione europea si avvarrà anche dell’appoggio di istituti scientifici di altri paesi. Si svilupperà in tre anni e vuole accertare se si potrà respirare aria sana senza temere di ammalarsi e se si potrà stare al sole senza temere danni all’epidermide per effetto dei raggi UV.
Ad Aarhus si svolgerà a giugno la quarta conferenza paneuropea dal tema generico: «Ambiente per l’Europa». In realtà in quell’occasione verrà siglata la convenzione sulla partecipazione del pubblico, sull’accesso alle informazioni e sulla possibilità dei cittadini di poter far pesare il proprio punto di vista sulle scelte ambientali. Si cercherà di delineare anche una strategia per la tutela della biodiversità europea.
La globalizzazione non può diventare il paradiso del mercato a spese dell’ambiente. Deve segnare il primato dello sviluppo rispetto alla crescita. E più presto ci mettiamo su questo binario più rapidamente l’umanità sarà al sicuro.
E’ inutile nasconderci che gli equilibri internazionali si reggono sugli equilibri interni. Prima era facile gestire le risorse: eravamo di meno e ce n’erano di più a disposizione. Si aveva il tempo di speculare e le ideologie erano come invisibili briglie che qualcuno manovrava. Poi l’economia (la febbre della crescita) dettò nuove norme ma ancora era in nome dell’ideologia che si mascheravano i bisogni e le idee. Ora sono rimasti solo i bisogni che rischiano di diventare emergenze. Le guerre esplodono per l’energia, per l’acqua, per la pesca con ritmi ben più alti rispetto al passato. La Cia lo sa bene tanto che ha aperto un servizio accertamenti di carattere ambientale con uffici periferici ed esperti ambientali nei vari consigli di sicurezza e difesa. Ora non si guarda più solo la forza d’attacco militare di un paese, ma si tengono sotto osservazione le risorse d’acqua potabile, l’erosione o la desertificazione.
Per questo non è prudente che il ricercatore sia chiuso nel suo laboratorio, l’insegnante stia con i suoi studenti e l’amministratore sia travolto dalla gestione del traffico. Bisogna scendere tutti in piazza, nella nuova piazza del villaggio globale e parlare, parlare, parlare. Mai come questa volta il silenzio può ucciderci.
Ignazio Lippolis