Una presenza documentata da tempi non sospetti
Con il recente abbandono in tutt’Italia di uno sterminato territorio collinare boscoso il cinghiale ha trovato a sua disposizione un habitat ben più ricco rispetto alle paludi, in passato l’unico habitat in territorio libero dove poteva rifugiarsi. Ma comunque sia, i nostri cinghiali anche prima dell’arrivo di quelli dell’Est europeo in realtà potevano tranquillamente raggiungere il quintale e oltre
Negli ultimi anni stiamo assistendo a un fenomeno clamoroso e inatteso che l’opinione pubblica ancora non riesce a metabolizzare. L’espansione incontrollabile in atto del cinghiale è al di fuori di ogni preconcetto che si ha della fauna selvatica. Quando seguiamo una delle frequenti trasmissioni televisive sulla natura, per quanto le scene siano serene con paesaggi rigogliosi e animali felici, la voce termina sempre con commenti ansiogeni: quello che avete visto sta per scomparire, minacciato d’estinzione, riscaldamento globale, fine del mondo. Ora, per quanto questa angoscia ecologica ormai ce l’hanno fatta venire a tutti, ci riesce molto difficile vedere il cinghiale in questa ottica pessimistica. Per scongiurare però che gli amanti della natura possano assumere in questo caso un atteggiamento meno preoccupato, i divulgatori scientifici ci mettono in guardia: attenti! non pensiate che l’animale in questione abbia qualche valore naturalistico perché non si tratta d’altro che la discendenza di selvaggina da consumo importata dall’Europa orientale per il diletto dei nostri cacciatori.
L’accusa maggiore che si fa a questi cinghiali esteri è di essersi incrociati con quello nostrano inquinando per sempre il preteso status di sottospecie di quest’ultimo, noto scientificamente come Sus scrofa maiori e chiamato comunemente «Maremmano» perché in territorio libero lo si incontrava in passato nelle zone paludose dell’Italia centro-meridionale.
L’accusa si basa sull’impressione che Sus scrofa maiori in purezza non raggiungeva mai la taglia di questi cinghiali nuovi e nemmeno ne possedeva la fecondità. Il Maremmano arrivava, si dice, ad appena 50-60 kg e non faceva più di 3-4 cuccioli. I nuovi cinghiali, invece, facilmente superano il quintale e fanno 7-8 piccoli a volta. C’è chi addirittura insinua che queste peculiarità son dovute al fatto che i soggetti importati avevano il maiale tra gli antenati.
Di fronte a suddette dicerie mi viene da fare il seguente ragionamento Come ipotesi di partenza sarebbe stato più logico aspettarsi un rimpicciolimento dei nuovi arrivati per il drastico passaggio dalle curatissime riserve di stato dell’Est europeo sovietico dove venivano alimentati, a clima e terreno ben diversi del nostro territorio libero.
L’aumento di taglia che di fatto c’è stato si potrebbe invece ipotizzare in altra maniera. Con il recente abbandono in tutt’Italia di uno sterminato territorio collinare boscoso il cinghiale ha trovato a sua disposizione un habitat ben più ricco rispetto alle paludi, in passato l’unico habitat in territorio libero dove poteva rifugiarsi. Ma comunque sia, i nostri cinghiali anche prima dell’arrivo di quelli dell’Est europeo in realtà potevano tranquillamente raggiungere il quintale e oltre. A dimostrazione di ciò porto delle testimonianze venatorie dai terreni liberi in tempi ben lontani dalle importazioni, dove tra l’altro gli incroci coi maiali bradi, i cosiddetti «neri», avvenivano ripetutamente, per cui la purezza del Maremmano antico è una pia illusione.
La prima testimonianza si trova a pagina 350 del bellissimo libro di Arnaldo Cervesato, «Latina Tellus», pubblicato a Roma da Mundus nel 1910, per cui i fatti raccontati risalgono a fine Ottocento. Si tratta della conclusione di una caccia a rocchioni svolta da cacciatori di mestiere nelle Paludi Pontine.
«Dei colpi di fucili, lontani, e poi vicini e un latrato di cani. Davanti a noi, assai da presso, pure se non bene visibile, un rumore di rami e di frasche troncate con impeto e una massa oscura balzante a traverso di esse: un colpo di fucile vicinissimo e un tonfo. La bestia è caduta, ha i piccoli occhi dalle ciglia rossicce ancora aperti; i cani già le sono attorno. È un grosso cinghiale di certo due quintali; ha il pelo ispido e le zanne formidabili del cinghiale selvaggio che si avventa contro l’uomo». Forse l’occhio emozionato del testimone esagerò con i «due quintali» ma pur facendo la tara non poteva che essere ben sopra i 100 kg.
Un’altra notizia significativa ci viene dal diario di Vincenzo Rossetti («Nostra Terra Pontina», Roma, Palombi, 1973) che fu medico condotto nelle Paludi Pontine negli anni 20 del secolo scorso, precedenti l’inizio della grande bonifica. Essendo il Rossetti anche cacciatore nel suo diario troviamo spunti molto interessanti sulla fauna e in particolare sul cinghiale che qui c’interessa.
A pagina 67 l’autore ci racconta che gli abitanti di Bassiano sui vicini Monti Lepini scendevano nelle Paludi Pontine a pascolare i loro numerosi maiali. Tra questi ogni tanto qualche scrofa metteva alla luce dei piccoli che tradivano subito l’incrocio con i cinghiali dei vicini pantani. Appena svezzati, questi incroci lasciavano il branco dei domestici e si dileguavano nella macchia. Erano i famosi «porcastri» su cui nessun vero cacciatore di cinghiale avrebbe mai sparato. In compenso facevano le spese delle «cacciarelle» al cinghiale organizzate da dilettanti e di cui i Bassianesi e gli Alatresi fornivano la quasi totalità dei battitori.
Andando a p. 189, il Rossetti scrive che in un dato giorno «la cacciarella si doveva svolgere nei pantani esistenti tra il lago di Caprolace e il Lago di Paola. Zona, allora, veramente selvaggia e quasi vergine. Cinghiali ve ne erano molti, ma più numerosi erano i porcastri, cioè a dire gli incroci inselvatichiti con il maiale domestico».
Passando dai cinghiali antichi delle Paludi Pontine a quelli delle Paludi Sipontine in Capitanata riporto una foto tratta dell’Annuario del Cacciatore del 1937-’38 dove si vede un magnifico esemplare ucciso dai cacciatori, che ad occhio e croce sembrerebbe intorno al quintale. Con un po’ di ricerca troveremmo situazioni simili riguardo alla taglia dei cinghiali e all’incrocio coi maiali bradi anche nelle altre zone paludose di una volta come quella di Metaponto e delle maremme a nord di Roma fino a Follonica.
Non disprezziamo, dunque, i nostri cinghiali. Mi dispiace per gli agricoltori che ne subiscono le incursioni. Anche i circoli di golf lo maledicono per le buche che lascia nei «green» così curati a punta di forbice. I lupi, invece, lo apprezzano perché costituisce il loro pasto quotidiano. Purtroppo il suo aspetto così «selvatico» non suscita compassione, celando una natura mite socievole e, perché no?, simpatica.
Paolo Breber