Sulla fallacia del Pil l’americano Kenneth Boulding ha parlato dei «divertenti giochetti» che saltano fuori quando si dà eccessiva fiducia al valore del prodotto interno lordo come indicatore del reale benessere di un paese (Per tutti si può ricordare il suo: «Fun and games with the Gross National Product: the role of misleading indicators in social policy», 1970).
«Il grande dono (degli economisti) al mondo è rappresentato dalle statistiche del reddito nazionale, del Prodotto interno lordo (Pil), e della sua crescita percentuale. Però, come ogni economista sa, il calcolo del Pil è un puro esercizio di fantasia e, anche se i numeri fossero veri, il Pil è una ben miserabile misura del benessere. Il Pil può crescere grazie alla corsa agli armamenti o alla costruzione di dighe inutili.
«Il Prodotto interno lordo (Pil) è come la regina rossa del racconto di Alice ”Al di là dello specchio”: corre più veloce che può e resta sempre ferma al suo posto. Il Pil dovrebbe essere depurato dai costi della produzione di armi e di mantenimento degli eserciti, costi che non hanno niente a che fare con la difesa. Dovrebbe essere depurato anche dai costi del pendolarismo e dell’inquinamento. Quando qualcuno inquina qualche cosa e qualcun altro depura, le spese per la depurazione fanno aumentare il Pil, ma il costo dei danni arrecati dall’inquinamento non viene sottratto, il che, ovviamente, è ridicolo. Ho condotto una campagna per cambiare il nome del Pil in Cil, cioè ”costo interno lordo” perché rappresenta quello che dobbiamo produrre per restare al punto di partenza o per fare minimi passi avanti. Il consumo è una forma di degrado, è una cosa negativa, non positiva. Il prodotto fisico finale della vita economica è rappresentato dai rifiuti».
Bertrand de Jouvenel (1903-1987), un economista e uomo politico francese, fondatore del movimento «Futuribles», scrisse nel 1968 un libro, non tradotto in italiano, intitolato: «Arcadia, ovvero considerazioni sul viver meglio». In uno dei capitoli racconta il paradosso delle due sorelle, una delle quali fa la prostituta e l’altra sta a casa a badare ai figli. La prima è economicamente lodevole perché col suo lavoro, anche se poco entusiasmante, muove dei soldi e fa aumentare il Pil del paese; la seconda è deplorevole perché, pur facendo una cosa utile al marito e ai figli e alla società nel suo complesso, non guadagna niente e non fa aumentare il reddito nazionale.
Nello stesso periodo, in quegli anni 1968-’70 che rappresentano l’alba dell’attenzione per la «ecologia», qualcuno raccontò la crisi che stava colpendo gli abitanti della piccola isola di Nauru, un fortunato popolo che aveva un prodotto interno lordo pro capite superiore a quello degli Stati Uniti. La grande ricchezza monetaria dei Nauriani proveniva dal fatto che l’isola è un enorme deposito di minerali fosfatici che i Nauriani esportano con successo, vendendo però così, pezzo per pezzo, il proprio territorio. Col reddito ricavato mangiandosi il capitale, i Nauriani possono acquistare più automobili di qualsiasi altro abitante della Terra, pur non avendo strade
per farle circolare, hanno più frigoriferi, anche se l’acqua da mettere al fresco viene trasportata con navi cisterna da centinaia di chilometri di distanza. Dopo pochi decenni i Nauriani, avendo venduto tutta la loro isola, sono ora costretti a trasferirsi da qualche altra parte perché il loro reddito è stato ottenuto a spese della loro stessa casa, del loro territorio.
E i Nauriani sono fortunati perché hanno un altro posto in cui andare a rifugiarsi. Se tutti noi terrestri dilapidassimo alla stessa maniera le risorse del pianeta, non avremmo, alla fine, nessun altro posto dello spazio in cui andare essendo il pianeta Terra la nostra unica casa.