Venti anni di State of the World

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In attesa di una legge nazionale contro l’elettrosmog, Bologna ha delineato una sua strategia. Pietra angolare sono i limiti fissati per l’esposizione ai campi elettromagnetici. Limiti severi, visto che per le basse frequenze il valore (0,2 microtesla con una fascia di tolleranza del 50%) è di cento volte inferiore a quello nazionale, mentre per le alte frequenze (0,01 mW/cm quadrato) rappresenta un’anteprima dato che a livello nazionale il limite non c’è ancora. Venti anni fa il Worldwatch Institute pubblicava il suo primo State of the World, che ebbe subito un notevole successo di vendita e di traduzioni.
Oggi questo straordinario rapporto, scritto in maniera chiara e avvincente e basato sui migliori dati scientifici a disposizione, è tradotto ogni anno in oltre 30 lingue (dal cinese all’arabo, dal rumeno al persiano, dal russo all’hindi) e costituisce il documento più noto e diffuso che rende conto della ricca complessità interdisciplinare dello sviluppo sostenibile.
Si tratta di un volume che non può mancare nella biblioteca di chiunque abbia minimamente a cuore il nostro futuro e l’interpretazione della complessa realtà ambientale, economica e sociale in cui siamo immersi.
Il merito dell’intuizione che ha condotto a questo rapporto annuale è del fondatore del Worldwatch Institute, Lester Russel Brown, che ? dopo aver portato nei primi dieci anni l’istituto alla notorietà grazie alla qualità delle sue pubblicazioni (tra le quali il famoso volume Il 29° giorno) con lo State ha richiamato su di sé e sulla sua équipe l’attenzione di tutto il mondo, tanto da essere definito dal «Washington Post»uno dei più influenti pensatori del nostro tempo.
Lester Brown ha fondato nel 2001 un altro Istituto, l’Earth Policy Institute, che si occupa specificamente di dimostrare la praticabilità di un’economia ecologica nelle odierne società dominate ancora dal mito della crescita economica, ma resta sempre un grande ispiratore delle attività del Worldwatch.
Il primo State, quello del 1984, fu scritto da Lester Brown e da cinque suoi collaboratori, Christopher Flavin (che oggi è il presidente dell’Istituto e ha preso il posto di Brown), William Chandler, Sandra Postel (nota esperta dei problemi legati all’acqua, che da vari anni ormai dirige il «World Water Policy Project»), Linda Starke e Edward Wolf.
Brown decise di lanciare il Worldwatch in questa avventura perché riteneva maturo il tempo per presentare, annualmente, un rapporto sullo stato del nostro pianeta, focalizzandolo in un’ottica ambientale con la necessaria considerazione dei risvolti economici, sociali e politici, e realizzando di fatto un esempio concreto di rapporto sulla sostenibilità del nostro sviluppo.

Nessuna istituzione ufficiale o organismo delle Nazioni Unite provvedeva allora a questo compito (sono arrivati successivamente i rapporti «World Resources» del World Resources Institute, dell’UNEP, dell’UNDP e della Banca Mondiale e i «Global Environment Outlook» dell’UNEP).
In questo modo Brown e i suoi sono stati, senza alcun dubbio, dei veri pionieri dello sviluppo sostenibile, in un periodo in cui il termine «sviluppo sostenibile» non era ancora «ufficiale» come oggi.
Nel rapporto del 1984 i capitoli trattavano questi temi: la necessità di stabilizzare la popolazione, quella di ridurre la dipendenza dal petrolio, la conservazione del suolo, la protezione delle foreste, il riciclaggio dei materiali, lo stato e i costi dell’energia nucleare, la necessità di sviluppare le energie rinnovabili, il futuro dell’automobile, il futuro dell’alimentazione e la ricostituzione delle politiche economiche. Tutti temi di grandissima attualità ancor oggi.
Allora restai letteralmente folgorato dalla lettura di quel volume e dalla straordinaria capacità di Brown e del suo staff di


proporre temi complessi con una rara mistura di interdisciplinarietà, serietà e divulgazione. Cercai subito un editore italiano disposto a pubblicare il rapporto annuale ma ci riuscii solo nel 1988 e, da allora, ho il grandissimo piacere di far parte di questa avventura intellettuale sia come amico di Lester Brown, Chris Flavin, Hilary French e di altri membri del Worldwatch, sia come curatore dell’edizione italiana dello State e di altre opere dell’Istituto.
Dal 1998 in questa avventura è coinvolta Edizioni Ambiente, ormai divenuta un punto di riferimento ineludibile di pubblicazioni autorevoli e documentate sulle problematiche della sostenibilità.

Dal 1984 a oggi la situazione ambientale non può definirsi complessivamente migliorata; ma, senza dubbio, grazie anche a opere come lo State si è andata diffondendo un’innovativa cultura della sostenibilità che ha reso possibile anche le due grandi conferenze delle Nazioni Unite: quella sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro (1992) e quella sullo sviluppo sostenibile a Johannesburg (2002).
Questa nuova cultura, che si nutre profondamente di interdisciplinarietà e di complessità, ci mette a confronto con i limiti della nostra stessa conoscenza, con l’urgenza della consapevolezza di vivere entro i limiti dei sistemi naturali ? da noi purtroppo abbondantemente ignorati ? tenendo sempre conto dell’importanza dell’adattabilità e dell’apprendimento dei nostri sistemi sociali ed economici nella loro relazione con quelli naturali.
Lo spirito che da sempre anima il lavoro del Worldwatch si può riscontrare in tanti scritti di Lester Brown e di tanti altri studiosi che hanno contribuito nel profondo a creare la cultura innovativa della sostenibilità. Nelle conclusioni del già citato volume Il 29° giorno, Brown (1978) scriveva: «La principale dinamica che ha plasmato la società dopo gli inizi della Rivoluzione Industriale è stata l’etica della crescita. Se la crescita materiale come l’abbiamo conosciuta finora non può continuare a tempo indefinito, una nuova etica ? l’etica dell’adattamento ? è destinata a sostituirla. […] Il fatto che la crescita fisica o materiale come l’abbiamo conosciuta nelle società industriali possa non continuare più a lungo non dovrebbe preoccuparci o spaventarci più di quanto l’ingresso nella maturità possa spaventare un adolescente. […] Un mutamento nella natura della crescita potrebbe essere una fortuna, non un disastro. I mutamenti incombenti permetteranno ogni dimensione dell’esistenza umana: stili di vita, modelli di proprietà della terra, strutture economiche, dimensioni della famiglia, relazioni internazionali e sistema scolastico. Un sistema economico costretto a creare continuamente nuovi bisogni materiali attraverso la pubblicità e poi nuovi prodotti per soddisfare quei bisogni non è sostenibile. I suoi giorni sono contati. Il mutamento sarà obbligatorio o volontario: alcuni mutamenti verranno guidati dal mercato, altri saranno il risultato di norme, altri ancora saranno realizzati mediante mutamenti volontari nel comportamento. La scelta fondamentale sarà fra semplicità volontaria e austerità imposta».

Le società odierne si trovano nella necessità estrema di dare risposte concrete a una complessiva situazione di crisi esistente nei rapporti tra i sistemi da noi stessi creati (sociali, economici, tecnologici) e quelli naturali. Queste risposte sono urgenti e indilazionabili.
Non è più possibile andare


avanti come se nulla fosse, adottando il cosiddetto approccio BAU («Business As Usual») come purtroppo si ama fare, evitando di avviare invece politiche innovative e coraggiose che le conoscenze scientifiche e tecnologiche attuali ci consentirebbero, e capaci di futuro, come la cultura della sostenibilità richiederebbe.
Gli atti dell’amministrazione statunitense di George Bush appaiono un tipico esempio di come si affrontano i problemi con una visione BAU. E questo spirito ha abbondantemente pervaso i lavori del Summit Mondiale delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg dello scorso 2002 che, certamente, non possiamo indicare come la risposta adeguata alla sfida esistente.

Johannesburg 2002: il summit mondiale sullo sviluppo sostenibile

Alla fine del 2001, il Segretario Generale dell’ONU ha reso noto un rapporto dedicato allo stato di attuazione di quanto deciso a Rio de Janeiro nel grande Earth Summit del 1992: il rapporto ammetteva chiaramente l’esistenza di un gap nell’applicazione di quanto deciso al Summit della Terra, sottolineando il perdurare di un approccio frammentario allo sviluppo sostenibile (United Nations, 2001). Infatti politiche e programmi (sia a livello nazionale che internazionale) hanno generalmente fallito il raggiungimento dell’integrazione tra aspetti economici e ambientali. Inoltre non vi sono stati mutamenti significativi negli insostenibili livelli di produzione e consumo dei nostri sistemi economici, che stanno conducendo i sistemi di supporto della vita a sempre più alti livelli di pericolo. Il Rapporto afferma con chiarezza: «Sebbene i mutamenti richiesti per modificare i pattern di consumo e produzione delle nostre società non siano facili da applicare, questo cambiamento è imperativo». Il Rapporto ricorda inoltre che mancano politiche e approcci coerenti nelle aree della finanza, del commercio, degli investimenti, della tecnologia e quindi dello sviluppo sostenibile.

Si tratta ovviamente di una mancanza ancor più grave in un’epoca di globalizzazione economica, finanziaria e commerciale come l’attuale.
Le politiche su questi problemi non possono restare compartimentalizzate e i governi non possono continuare a essere diretti sulla base di considerazioni di breve periodo, dimenticando l’importanza della visione a lungo termine legata all’utilizzo sostenibile delle risorse naturali. Ancora il Rapporto mette in evidenza la scarsezza delle risorse finanziarie necessarie a implementare quanto deciso a Rio, nonché lo stallo del trasferimento delle tecnologie. La crescita del debito dei paesi poveri (passato dai 1.843 miliardi di dollari del 1992 agli oltre 2.500 miliardi di dollari attuali) ha chiuso ulteriormente le potenziali opzioni per lo sviluppo sostenibile di questi paesi, mentre il crescente flusso degli investimenti privati è troppo ?volatile? e diretto solo a pochi paesi e a pochi settori.
Come giustamente ha ricordato Hilary French (a capo del «Global Governance Project» del Worldwatch) nello State of the World 2002, il testo definitivo dell’accordo stipulato nel contesto dell’Uruguay Round ? che ha dato il via alla nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 1995 ? conta oltre 26.000 pagine, dedicate soprattutto alla specificazione di tariffe e servizi, e copre un imponente insieme di temi (dall’agricoltura alla proprietà intellettuale sino agli investimenti e ai servizi), mentre, al confronto, l’Agenda 21


(il risultato della conferenza di Rio de Janeiro), con le sue 273 pagine sembra una sintetica esortazione ad agire. I negoziatori dell’Uruguay Round non hanno fatto grandi sforzi per incorporare i generici e declamatori impegni di Rio nelle loro decisioni mentre, al contrario, molti provvedimenti disposti in seno al WTO contraddicono lo spirito ? e in alcuni casi la lettera stessa ? degli accordi di Rio (French, 2002).

Il summit di Johannesburg ha avuto luogo quasi un anno dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, che hanno sconvolto tante certezze, hanno messo totalmente in discussione il concetto di sicurezza dei paesi ricchi e hanno riaperto una profonda riflessione sull’iniquità economica e sociale del mondo odierno. Il Global Environment Outlook 2000 (UNEP, 2000), afferma chiaramente che la crescente povertà della maggioranza degli abitanti del pianeta e l’eccessivo livello dei consumi da parte di una minoranza costituiscono le due maggiori cause di degrado ambientale; l’attuale andamento è insostenibile e posporre ogni azione non può più essere considerata un’opzione possibile.

I dieci anni da Rio de Janeiro a Johannesburg

Qualche elemento di riflessione relativo agli ultimi dieci anni, da Rio a Johannesburg (Bologna, 2002):
1. A più di dieci anni dallo sfacelo dell’impero sovietico, il cambiamento di più vasta portata che ha avuto luogo nell’ultimo decennio è senza dubbio l’ascesa dell’economia transnazionale. Come ricorda Wolfgang Sachs, il commercio ha guidato l’economia globale in una direzione che la porta sempre più in rotta di collisione con i sistemi naturali. Il WTO è il simbolo dell’incondizionato accesso al libero commercio, divenuto il leit motiv dell’élite globale degli anni Novanta, e che ha preso il posto di democrazia e sostenibilità. Marrakesh (Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici, nov 2001) ha di fatto messo al margine Rio; l’ambizione inespressa del WTO di trasformare le diverse civilizzazioni in un’unica società del mercato globale è diventata, in tutto il mondo, la vera Agenda 21 (Sachs, 2002). Questa consapevolezza ci deve portare ad agire con forza per avviare processi fortemente correttivi del sistema economico e politico mondiale che possano, finalmente, concretizzare sostenibilità ambientale e giustizia sociale.
2. La conoscenza scientifica circa le dinamiche del cambiamento nei sistemi naturali e circa il ruolo del cambiamento dovuto all’intervento umano è ? pur con gli ovvi dubbi e incertezze che caratterizzano l’analisi dei cosiddetti sistemi adattativi complessi (Gell-Mann, 1996; Waldrop, 1996; Buchanan, 2001) ? certamente più avanzata che nel passato e fa uso di numerosi strumenti innovativi, come i satelliti per l’osservazione attenta e sempre più sofisticata dell’evoluzione degli ecosistemi e del nostro impatto su di essi, o i sempre più complessi e sofisticati modelli di circolazione globale dell’atmosfera. Quanto acquisito nell’ambito dei programmi internazionali di ricerca, come il Global Change Programme, e quanto sintetizzato negli assessment del sistema Nazioni Unite, deve divenire un punto di riferimento ineludibile per l’avvio di politiche concrete da parte dei governi di tutto il mondo.
3. Gli avanzamenti teorici e pratici sul concetto di sostenibilità devono costituire la base per evitare le grandi


confusioni che fino a oggi si sono prodotte sullo sviluppo sostenibile. Le politiche di sostenibilità devono avere un approccio chiaro, pur nella inevitabile flessibilità ed evoluzione (Daly, 2001; Gunderson e Holling, 2002). Devono perciò dotarsi di alcuni elementi fondamentali, che peraltro si ritrovano in alcuni strumenti già oggi in discussione, quali il Protocollo di Kyoto: la ricerca della ?riduzione? dell’impatto, l’obiettivo di raggiungere un target, l’indicazione del tempo entro cui raggiungere il target stesso e l’applicazione di sistemi di monitoraggio e di penalizzazione nel caso l’obiettivo non venga raggiunto. Tutto ciò con la massima attenzione agli importanti meccanismi di adattamento e di apprendimento, fondamentali nelle politiche di sostenibilità (Folke et al., 2002). Non esistono ricette precostituite e universali per applicare politiche di sostenibilità.
I governi dovrebbero lavorare alacremente per comprendere l’importanza della relazione «un essere umano = una quota di natura», nel rispetto del principio di equità, affinché ? pur nelle incertezze conoscitive in cui ci troviamo ? si possa indicare la quota di risorse naturali potenzialmente utilizzabile a livello individuale (senza intaccare le capacità autorigenerative dei sistemi naturali), ma anche la quantità di rifiuti potenzialmente accettabili da parte degli ecosistemi (senza comprometterne la capacità di assimilazione).

Di fronte a queste grandi sfide, la risposta politica e economica è assolutamente inadeguata; Johannesburg ne è stata una drammatica conferma e diventa francamente paradossale constatare come l’inadeguatezza sembra aumentare in modo proporzionale alle maggiori conoscenze scientifiche e alle maggiori chiarezze sul concetto di sostenibilità.
La dichiarazione conclusiva del Millennium Summit delle Nazioni Unite nel settembre 2000 ha elencato i sei valori fondamentali ritenuti essenziali per le relazioni internazionali nel nuovo secolo e cioè libertà, uguaglianza, solidarietà, tolleranza, rispetto dell’ambiente e condivisione delle responsabilità nei confronti dei popoli e del pianeta. Tutti valori straordinariamente importanti e significativi, che sembrano drammaticamente annullati nei fatti dalle politiche internazionali, a cominciare da quella delle grandi istituzioni finanziarie internazionali: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale del Commercio.

Le vere priorità dei paesi di tutto il mondo continuano ad essere la crescita economica e la libera circolazione di merci e di denaro. Nell’edizione originale del suo classico Steady-State Economics, del 1977, il grande bioeconomista Herman Daly scrive: «In verità, la crescita economica è l’obiettivo più universalmente accettato nel mondo. Capitalisti, comunisti, fascisti e socialisti vogliono tutti la crescita economica e si sforzano di renderla massima. Il sistema che cresce al tasso più alto è considerato il migliore. Il fascino della crescita è che su di essa si fonda la potenza della nazione e rappresenta un’alternativa alla ridistribuzione come mezzo per combattere la povertà… Se si intendesse aiutare seriamente il povero, si dovrebbe fronteggiare il problema morale della ridistribuzione e cessare di nasconderlo dietro la crescita globale». (Daly, 1981).
In realtà, al grande Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg i «potenti» della Terra hanno fallito nel prendere impegni concreti per ridurre gli insostenibili modelli di produzione e consumo che stanno impoverendo i sistemi naturali e le persone che vivono sul nostro pianeta.
L’opinione


pubblica mondiale chiedeva alla politica un impegno serio: indicare finalmente target precisi di riferimento, tempi entro cui raggiungerli e chiarezza sui mezzi da utilizzare per raggiungerli.

Al Summit hanno partecipato 22.000 delegati provenienti da governi (con un centinaio di capi di stato e di governo), agenzie intergovernative, organizzazioni non governative, settore privato, società civile e comunità scientifica.
Il Summit ha negoziato e poi adottato due documenti: il piano di implementazione e la Dichiarazione di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile. Inoltre ha presentato circa 220 iniziative di partnership tra settore pubblico, privato e società civile in cui si annunciano impegni per progetti concreti di sviluppo sostenibile con una cifra complessiva valutabile in 235 milioni di dollari (cifra certamente molto modesta se pensiamo, come già ricordato sopra, che i paesi poveri hanno un debito che supera i 2.500 miliardi di dollari e che la media dell’assistenza pubblica allo sviluppo dei paesi industrializzati è pari allo 0,22% del PIL (l’Italia ha lo 0,13% e gli Stati Uniti solo lo 0,10%). Un risultato certamente scarso rispetto alle sfide drammatiche e evidenti che sono sotto gli occhi di tutti, ma che ci invita a intensificare gli sforzi per essere più incisivi nell’immediato futuro.

Le ricerche sul cambiamento globale

Ha scritto lo storico John McNeill (2002), della Georgetown University, nella sua lucida analisi della storia dell’ambiente del XX secolo: «È probabile che asteroidi e vulcani, al pari di altri agenti astronomici e terrestri, abbiano prodotto cambiamenti ambientali più radicali di quelli cui abbiamo assistito nella nostra epoca. È la prima volta, nella storia dell’umanità, che abbiamo modificato gli ecosistemi in maniera così profonda, su tale scala e con tale rapidità. È una delle rare epoche della storia della Terra in cui si è assistito a cambiamenti di tale portata e intensità […]. Inconsapevolmente il genere umano ha sottoposto la Terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. Penso che, con il passare del tempo, questo si rivelerà l’aspetto più importante della storia del XX secolo: più della seconda guerra mondiale, dell’avvento del comunismo, dell’alfabetizzazione di massa, della diffusione della democrazia, della progressiva emancipazione delle donne».
Il noto scienziato Paul Crutzen (premio Nobel per la chimica 1995, insieme a Sherwood Rowland e Mario Molina per le ricerche sugli effetti dei clorofluorocarburi sulla fascia di ozono nella stratosfera), ha proposto di definire «Antropocene» il periodo geologico iniziato nella seconda metà del Settecento (quindi dall’avvio della Rivoluzione industriale), a riconoscimento del ruolo centrale che la specie umana riveste nella straordinaria modificazione dei sistemi naturali (Crutzen, 2002).
Il periodo che stiamo vivendo viene definito dai geologi Olocene e il suo inizio è indicato a partire dai 10.000-11.000 anni fa, cioè da quando la specie umana ha avviato la Rivoluzione Neolitica.
Con l’autorevole proposta di Crutzen ? già accolta positivamente da molti scienziati ? il mondo scientifico riconosce definitivamente il ruolo fondamentale dell’intervento umano sul pianeta. La massa di dati, conoscenze e informazioni che abbiamo ormai acquisito sui pesanti effetti che l’intervento umano ha prodotto ai sistemi naturali


è enorme. Da tempo la comunità scientifica ha cercato di avviare iniziative internazionali per comprendere meglio la «fisiologia» dei sistemi naturali, le loro dinamiche evolutive e, d’altra parte, il ruolo del nostro intervento e le conseguenze dei nostri impatti.
L’autorevole International Council for Science (ICSU), che costituisce la federazione indipendente delle unioni scientifiche internazionali, ha avviato dal 1986 un vastissimo progetto internazionale coordinato di ricerche su questi problemi, l’«International Geosphere Biosphere Programme» (IGBP), detto più comunemente «Global Change Project» (IGBP, 1990, IGBP, 2001, Steffen et al., 2002), che è senza alcun dubbio il più autorevole sforzo di ricerca internazionale su questi problemi.
L’IGBP è stato poi affiancato dal programma «Human Dimensions of Global Change», che si occupa in particolare della dimensione umana dei cambiamenti globali, nonché dal programma «Diversitas» (dedicato allo studio della biodiversità del pianeta e degli effetti dell’intervento umano su di essa) e dal «World Climate Programme» dedicato alla migliore conoscenza del sistema climatico e del nostro impatto su di esso.
La mole di autorevoli pubblicazioni prodotte nell’ambito di questi e di altri programmi nati nell’ambito di organismi internazionali è veramente ingente e le conclusioni raggiunte sino ad ora non fanno che confermare le parole di McNeill.
È quindi francamente singolare assistere a tentativi tendenti a sminuire e a cercare di contestare questa ingente massa di dati, come è avvenuto nel volume di Lomborg (Lomborg, 2001), che è stato giustamente «distrutto» dalle recensioni delle più autorevoli riviste scientifiche mondiali (come «Science», «Nature», «Scientific American») e definito «scientificamente disonesto e contrario agli standard della buona pratica scientifica» dal Comitato Danese sulla Disonestà Scientifica, costituito da autorevoli scienziati.
D’altra parte lo stesso Lomborg afferma chiaramente nel suo libro di non essere un esperto di problemi ambientali e ovviamente non cita mai l’IGBP. Stupisce pertanto il grande clamore avuto da questa pubblicazione che non fa altro che portare acqua ai fautori dello scenario BAU.

Sostenibilità, capacità di futuro

Ancora oggi, tutte le volte che si utilizza il termine «sviluppo sostenibile» si fa una gran confusione, spesso volutamente, altre volte per mancata conoscenza.
Gli avanzamenti teorici e operativi di tante discipline, alcune delle quali specificatamente dedicate ad approfondire i temi della sostenibilità (come avviene per l’economia ecologica, l’Ecological Economics), non consentono più di essere troppo generici e vaghi nel trattare tali problemi, pur nella consapevolezza di tutti i limiti, incertezze e complessità di queste tematiche.

Gli avanzamenti sin qui acquisiti a livello dei migliori centri di ricerca interdisciplinari internazionali si riferiscono inevitabilmente all’analisi dei sistemi complessi adattativi, alle loro dinamiche, alle loro interpretazioni. Oggi possiamo parlare di una vera Sustainability Science, la scienza della sostenibilità.
Proprio nel 2002 sono venute a mancare due figure straordinarie nelle scienze ambientali, i fratelli Eugene e Howard Odum (il primo nato nel 1913 e il secondo nel 1924), che nella loro lunga carriera accademica ci hanno fornito approfondimenti scientifici, analisi e chiavi di lettura di grandissimo valore per comprendere il funzionamento dei sistemi naturali e delle loro relazioni con i sistemi umani.


I fratelli Odum sono stati grandi protagonisti delle scienze ecologiche, hanno brillantemente analizzato le realtà ambientali intese come sistemi e sono stati veri pionieri di molti concetti e approcci che oggi sono diventati centrali nella Sustainability Science (vedasi, ad esempio, Odum, 1973 e Odum, 1994).
Infatti, da molte intuizioni dei fratelli Odum e di altri si è andato formando il concetto di sistema adattativo complesso, che deve molto a studiosi quali John Holland e Stuart Kauffman (che si sono poi riuniti nel famoso Istituto di Santa Fe ? New Mexico ? che studia proprio i sistemi adattativi complessi). I sistemi adattativi complessi sono sistemi in grado di acquisire informazioni sull’ambiente che li circonda e sulle proprie interazioni con l’ambiente stesso. Sia i sistemi naturali, che quelli sociali ed economici sono sistemi adattativi complessi.
La teoria dei sistemi adattativi complessi propone una visione del mondo estremamente dinamica, flessibile, e appunto adattativa. Per comprendere appieno le sfide con le quali l’umanità deve confrontarsi sono necessari nuovi strumenti di analisi, in via di sviluppo negli ultimi decenni che influenzano le scienze naturali e quelle umane, economiche e sociali. In particolare, la teoria e la prassi dell’analisi dei sistemi adattativi complessi forniscono strumenti fondamentali per la comprensione dei cambiamenti globali, della storia, dell’intervento umano, delle valutazioni delle aree a rischio, dei legami tra sistemi ecologici, sociali ed economici, e sono in grado di indirizzare politiche innovative per il futuro. Queste analisi sono alla base del fecondo lavoro della Resilience Alliance, un consorzio di istituti e gruppi scientifici di ricerca autorevoli e interdisciplinari ? focalizzato sulla sostenibilità ? che ha predisposto un interessante documento per il Summit di Johannesburg (Folke et al., 2002).
Valutare e analizzare la sostenibilità richiede quindi nuovi modi di pensare. Le precedenti visioni della natura e della società come sistemi vicini all’equilibrio sono stati rimpiazzati da visioni dinamiche, che enfatizzano le complesse relazioni non lineari, i continui mutamenti, la flessibilità, l’adattabilità, l’apprendimento, e che si confrontano con le discontinuità e le incertezze di shock sinergici (vedasi, ad esempio, Botkin, 1990, Berkes, Colding e Folke, 2002).
Pertanto una sfida fondamentale, in questo contesto, è quella di costruire conoscenza e capacità di apprendimento e adattamento nelle istituzioni e nelle strutture che devono gestire localmente, regionalmente, nazionalmente e globalmente gli ecosistemi, per cercare di mantenere la resilienza dei sistemi naturali e umani e di abbassare al minimo il livello di vulnerabilità dei sistemi stessi.
La Sustainability Science ha prodotto approfondite analisi sull’utilizzo di nuovi indicatori per misurare la ricchezza, il benessere e la sostenibilità complessiva dei sistemi naturali e di quelli umani (su questo fronte esiste ormai una letteratura sterminata).

Il concetto ecologico di resilienza è stato pionieristicamente introdotto dall’ecologo Crawford Holling sin dai primi anni Settanta (Holling, 1973, Holling, 1996). Esso definisce la capacità dei sistemi naturali di assorbire gli shock mantenendo le proprie funzioni, capacità che viene misurata dal grado di disturbo che un sistema naturale può assorbire prima che il sistema stesso cambi la sua struttura, mutando variabili e


processi che ne controllano il comportamento. Gli ecosistemi, ricorda Holling, hanno più di uno stato di equilibrio e dopo una perturbazione spesso ripristinano un equilibrio differente dal precedente.
Il sistema ecologico o sociale diventa vulnerabile quando esso perde le sue capacità di resilienza, cioè supera la soglia di mutamenti assorbibili. In un sistema resiliente, il cambiamento ha la potenzialità di creare opportunità di sviluppo, novità e innovazione. In un sistema vulnerabile persino piccoli cambiamenti possono risultare devastanti. Meno resiliente è il sistema, minore è la capacità delle istituzioni e delle società di adattarsi e di affrontare i cambiamenti.
Questo è, in grandissima sintesi, il messaggio centrale che ci proviene dalla Sustainability Science, questo è il messaggio che, implicitamente, da vent’anni ci fornisce lo «State of the World» con le sue analisi interdisciplinari, questa è la sfida alla cultura politica internazionale che appare ancora incapace di futuro.

più noto e diffuso che rende conto della ricca complessità interdisciplinare dello sviluppo sostenibile.
Si tratta di un volume che non può mancare nella biblioteca di chiunque abbia minimamente a cuore il nostro futuro e l’interpretazione della complessa realtà ambientale, economica e sociale in cui siamo immersi.
Il merito dell’intuizione che ha condotto a questo rapporto annuale è del fondatore del Worldwatch Institute, Lester Russel Brown, che ? dopo aver portato nei primi dieci anni l’istituto alla notorietà grazie alla qualità delle sue pubblicazioni (tra le quali il famoso volume Il 29° giorno) con lo State ha richiamato su di sé e sulla sua équipe l’attenzione di tutto il mondo, tanto da essere definito dal «Washington Post»uno dei più influenti pensatori del nostro tempo.
Lester Brown ha fondato nel 2001 un altro Istituto, l’Earth Policy Institute, che si occupa specificamente di dimostrare la praticabilità di un’economia ecologica nelle odierne società dominate ancora dal mito della crescita economica, ma resta sempre un grande ispiratore delle attività del Worldwatch.
Il primo State, quello del 1984, fu scritto da Lester Brown e da cinque suoi collaboratori, Christopher Flavin (che oggi è il presidente dell’Istituto e ha preso il posto di Brown), William Chandler, Sandra Postel (nota esperta dei problemi legati all’acqua, che da vari anni ormai dirige il «World Water Policy Project»), Linda Starke e Edward Wolf.
Brown decise di lanciare il Worldwatch in questa avventura perché riteneva maturo il tempo per presentare, annualmente, un rapporto sullo stato del nostro pianeta, focalizzandolo in un’ottica ambientale con la necessaria considerazione dei risvolti economici, sociali e politici, e realizzando di fatto un esempio concreto di rapporto sulla sostenibilità del nostro sviluppo.
 Nessuna istituzione ufficiale o organismo delle Nazioni Unite provvedeva allora a questo compito (sono arrivati successivamente i rapporti «World Resources» del World Resources Institute, dell’UNEP, dell’UNDP e della Banca Mondiale e i «Global Environment Outlook» dell’UNEP).
In questo modo Brown e i suoi sono stati, senza alcun dubbio, dei veri pionieri dello sviluppo sostenibile, in un periodo in cui il termine «sviluppo sostenibile» non era ancora «ufficiale» come oggi.
Nel rapporto del 1984 i capitoli trattavano questi temi: la necessità di stabilizzare la popolazione, quella di ridurre la dipendenza dal petrolio, la conservazione del suolo, la protezione delle foreste, il riciclaggio dei materiali, lo stato e i costi dell’energia nucleare, la necessità di sviluppare le energie rinnovabili, il futuro dell’automobile, il futuro dell’alimentazione e la ricostituzione delle politiche economiche. Tutti temi di grandissima attualità ancor oggi.
Allora restai letteralmente folgorato dalla lettura di quel volume e dalla straordinaria capacità di Brown e del suo staff di proporre temi complessi con una rara mistura di interdisciplinarietà, serietà e divulgazione. Cercai subito un editore italiano disposto a pubblicare il rapporto annuale ma ci riuscii solo nel 1988 e, da allora, ho il grandissimo piacere di far parte di questa avventura intellettuale sia come amico di Lester Brown, Chris Flavin, Hilary French e di altri membri del Worldwatch, sia come curatore dell’edizione italiana dello State e di altre opere dell’Istituto.
Dal 1998 in questa avventura è coinvolta Edizioni Ambiente, ormai divenuta un punto di riferimento ineludibile di pubblicazioni autorevoli e documentate sulle problematiche della sostenibilità.

Dal 1984 a oggi la situazione ambientale non può definirsi complessivamente migliorata; ma, senza dubbio, grazie anche a opere come lo State si è andata diffondendo un’innovativa cultura della sostenibilità che ha reso possibile anche le due grandi conferenze delle Nazioni Unite: quella sull’ambiente e lo sviluppo di Rio de Janeiro (1992) e quella sullo sviluppo sostenibile a Johannesburg (2002).
Questa nuova cultura, che si nutre profondamente di interdisciplinarietà e di complessità, ci mette a confronto con i limiti della nostra stessa conoscenza, con l’urgenza della consapevolezza di vivere entro i limiti dei sistemi naturali ? da noi purtroppo abbondantemente ignorati ? tenendo sempre conto dell’importanza dell’adattabilità e dell’apprendimento dei nostri sistemi sociali ed economici nella loro relazione con quelli naturali.
Lo spirito che da sempre anima il lavoro del Worldwatch si può riscontrare in tanti scritti di Lester Brown e di tanti altri studiosi che hanno contribuito nel profondo a creare la cultura innovativa della sostenibilità. Nelle conclusioni del già citato volume Il 29° giorno, Brown (1978) scriveva: «La principale dinamica che ha plasmato la società dopo gli inizi della Rivoluzione Industriale è stata l’etica della crescita. Se la crescita materiale come l’abbiamo conosciuta finora non può continuare a tempo indefinito, una nuova etica ? l’etica dell’adattamento ? è destinata a sostituirla. […] Il fatto che la crescita fisica o materiale come l’abbiamo conosciuta nelle società industriali possa non continuare più a lungo non dovrebbe preoccuparci o spaventarci più di quanto l’ingresso nella maturità possa spaventare un adolescente. […] Un mutamento nella natura della crescita potrebbe essere una fortuna, non un disastro. I mutamenti incombenti permetteranno ogni dimensione dell’esistenza umana: stili di vita, modelli di proprietà della terra, strutture economiche, dimensioni della famiglia, relazioni internazionali e sistema scolastico. Un sistema economico costretto a creare continuamente nuovi bisogni materiali attraverso la pubblicità e poi nuovi prodotti per soddisfare quei bisogni non è sostenibile. I suoi giorni sono contati. Il mutamento sarà obbligatorio o volontario: alcuni mutamenti verranno guidati dal mercato, altri saranno il risultato di norme, altri ancora saranno realizzati mediante mutamenti volontari nel comportamento. La scelta fondamentale sarà fra semplicità volontaria e austerità imposta».

Le società odierne si trovano nella necessità estrema di dare risposte concrete a una complessiva situazione di crisi esistente nei rapporti tra i sistemi da noi stessi creati (sociali, economici, tecnologici) e quelli naturali. Queste risposte sono urgenti e indilazionabili.
Non è più possibile andare avanti come se nulla fosse, adottando il cosiddetto approccio BAU («Business As Usual») come purtroppo si ama fare, evitando di avviare invece politiche innovative e coraggiose che le conoscenze scientifiche e tecnologiche attuali ci consentirebbero, e capaci di futuro, come la cultura della sostenibilità richiederebbe.
Gli atti dell’amministrazione statunitense di George Bush appaiono un tipico esempio di come si affrontano i problemi con una visione BAU. E questo spirito ha abbondantemente pervaso i lavori del Summit Mondiale delle Nazioni Unite sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg dello scorso 2002 che, certamente, non possiamo indicare come la risposta adeguata alla sfida esistente.

Johannesburg 2002: il summit mondiale sullo sviluppo sostenibile

Alla fine del 2001, il Segretario Generale dell’ONU ha reso noto un rapporto dedicato allo stato di attuazione di quanto deciso a Rio de Janeiro nel grande Earth Summit del 1992: il rapporto ammetteva chiaramente l’esistenza di un gap nell’applicazione di quanto deciso al Summit della Terra, sottolineando il perdurare di un approccio frammentario allo sviluppo sostenibile (United Nations, 2001). Infatti politiche e programmi (sia a livello nazionale che internazionale) hanno generalmente fallito il raggiungimento dell’integrazione tra aspetti economici e ambientali. Inoltre non vi sono stati mutamenti significativi negli insostenibili livelli di produzione e consumo dei nostri sistemi economici, che stanno conducendo i sistemi di supporto della vita a sempre più alti livelli di pericolo. Il Rapporto afferma con chiarezza: «Sebbene i mutamenti richiesti per modificare i pattern di consumo e produzione delle nostre società non siano facili da applicare, questo cambiamento è imperativo». Il Rapporto ricorda inoltre che mancano politiche e approcci coerenti nelle aree della finanza, del commercio, degli investimenti, della tecnologia e quindi dello sviluppo sostenibile.

Si tratta ovviamente di una mancanza ancor più grave in un’epoca di globalizzazione economica, finanziaria e commerciale come l’attuale.
Le politiche su questi problemi non possono restare compartimentalizzate e i governi non possono continuare a essere diretti sulla base di considerazioni di breve periodo, dimenticando l’importanza della visione a lungo termine legata all’utilizzo sostenibile delle risorse naturali. Ancora il Rapporto mette in evidenza la scarsezza delle risorse finanziarie necessarie a implementare quanto deciso a Rio, nonché lo stallo del trasferimento delle tecnologie. La crescita del debito dei paesi poveri (passato dai 1.843 miliardi di dollari del 1992 agli oltre 2.500 miliardi di dollari attuali) ha chiuso ulteriormente le potenziali opzioni per lo sviluppo sostenibile di questi paesi, mentre il crescente flusso degli investimenti privati è troppo ?volatile? e diretto solo a pochi paesi e a pochi settori.
Come giustamente ha ricordato Hilary French (a capo del «Global Governance Project» del Worldwatch) nello State of the World 2002, il testo definitivo dell’accordo stipulato nel contesto dell’Uruguay Round ? che ha dato il via alla nascita dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) nel 1995 ? conta oltre 26.000 pagine, dedicate soprattutto alla specificazione di tariffe e servizi, e copre un imponente insieme di temi (dall’agricoltura alla proprietà intellettuale sino agli investimenti e ai servizi), mentre, al confronto, l’Agenda 21 (il risultato della conferenza di Rio de Janeiro), con le sue 273 pagine sembra una sintetica esortazione ad agire. I negoziatori dell’Uruguay Round non hanno fatto grandi sforzi per incorporare i generici e declamatori impegni di Rio nelle loro decisioni mentre, al contrario, molti provvedimenti disposti in seno al WTO contraddicono lo spirito ? e in alcuni casi la lettera stessa ? degli accordi di Rio (French, 2002).

Il summit di Johannesburg ha avuto luogo quasi un anno dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, che hanno sconvolto tante certezze, hanno messo totalmente in discussione il concetto di sicurezza dei paesi ricchi e hanno riaperto una profonda riflessione sull’iniquità economica e sociale del mondo odierno. Il Global Environment Outlook 2000 (UNEP, 2000), afferma chiaramente che la crescente povertà della maggioranza degli abitanti del pianeta e l’eccessivo livello dei consumi da parte di una minoranza costituiscono le due maggiori cause di degrado ambientale; l’attuale andamento è insostenibile e posporre ogni azione non può più essere considerata un’opzione possibile.

I dieci anni da Rio de Janeiro a Johannesburg

Qualche elemento di riflessione relativo agli ultimi dieci anni, da Rio a Johannesburg (Bologna, 2002):
1. A più di dieci anni dallo sfacelo dell’impero sovietico, il cambiamento di più vasta portata che ha avuto luogo nell’ultimo decennio è senza dubbio l’ascesa dell’economia transnazionale. Come ricorda Wolfgang Sachs, il commercio ha guidato l’economia globale in una direzione che la porta sempre più in rotta di collisione con i sistemi naturali. Il WTO è il simbolo dell’incondizionato accesso al libero commercio, divenuto il leit motiv dell’élite globale degli anni Novanta, e che ha preso il posto di democrazia e sostenibilità. Marrakesh (Conferenza delle parti sui cambiamenti climatici, nov 2001) ha di fatto messo al margine Rio; l’ambizione inespressa del WTO di trasformare le diverse civilizzazioni in un’unica società del mercato globale è diventata, in tutto il mondo, la vera Agenda 21 (Sachs, 2002). Questa consapevolezza ci deve portare ad agire con forza per avviare processi fortemente correttivi del sistema economico e politico mondiale che possano, finalmente, concretizzare sostenibilità ambientale e giustizia sociale.
2. La conoscenza scientifica circa le dinamiche del cambiamento nei sistemi naturali e circa il ruolo del cambiamento dovuto all’intervento umano è ? pur con gli ovvi dubbi e incertezze che caratterizzano l’analisi dei cosiddetti sistemi adattativi complessi (Gell-Mann, 1996; Waldrop, 1996; Buchanan, 2001) ? certamente più avanzata che nel passato e fa uso di numerosi strumenti innovativi, come i satelliti per l’osservazione attenta e sempre più sofisticata dell’evoluzione degli ecosistemi e del nostro impatto su di essi, o i sempre più complessi e sofisticati modelli di circolazione globale dell’atmosfera. Quanto acquisito nell’ambito dei programmi internazionali di ricerca, come il Global Change Programme, e quanto sintetizzato negli assessment del sistema Nazioni Unite, deve divenire un punto di riferimento ineludibile per l’avvio di politiche concrete da parte dei governi di tutto il mondo.
3. Gli avanzamenti teorici e pratici sul concetto di sostenibilità devono costituire la base per evitare le grandi confusioni che fino a oggi si sono prodotte sullo sviluppo sostenibile. Le politiche di sostenibilità devono avere un approccio chiaro, pur nella inevitabile flessibilità ed evoluzione (Daly, 2001; Gunderson e Holling, 2002). Devono perciò dotarsi di alcuni elementi fondamentali, che peraltro si ritrovano in alcuni strumenti già oggi in discussione, quali il Protocollo di Kyoto: la ricerca della ?riduzione? dell’impatto, l’obiettivo di raggiungere un target, l’indicazione del tempo entro cui raggiungere il target stesso e l’applicazione di sistemi di monitoraggio e di penalizzazione nel caso l’obiettivo non venga raggiunto. Tutto ciò con la massima attenzione agli importanti meccanismi di adattamento e di apprendimento, fondamentali nelle politiche di sostenibilità (Folke et al., 2002). Non esistono ricette precostituite e universali per applicare politiche di sostenibilità.
I governi dovrebbero lavorare alacremente per comprendere l’importanza della relazione «un essere umano = una quota di natura», nel rispetto del principio di equità, affinché ? pur nelle incertezze conoscitive in cui ci troviamo ? si possa indicare la quota di risorse naturali potenzialmente utilizzabile a livello individuale (senza intaccare le capacità autorigenerative dei sistemi naturali), ma anche la quantità di rifiuti potenzialmente accettabili da parte degli ecosistemi (senza comprometterne la capacità di assimilazione).

Di fronte a queste grandi sfide, la risposta politica e economica è assolutamente inadeguata; Johannesburg ne è stata una drammatica conferma e diventa francamente paradossale constatare come l’inadeguatezza sembra aumentare in modo proporzionale alle maggiori conoscenze scientifiche e alle maggiori chiarezze sul concetto di sostenibilità.
La dichiarazione conclusiva del Millennium Summit delle Nazioni Unite nel settembre 2000 ha elencato i sei valori fondamentali ritenuti essenziali per le relazioni internazionali nel nuovo secolo e cioè libertà, uguaglianza, solidarietà, tolleranza, rispetto dell’ambiente e condivisione delle responsabilità nei confronti dei popoli e del pianeta. Tutti valori straordinariamente importanti e significativi, che sembrano drammaticamente annullati nei fatti dalle politiche internazionali, a cominciare da quella delle grandi istituzioni finanziarie internazionali: Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale del Commercio.

Le vere priorità dei paesi di tutto il mondo continuano ad essere la crescita economica e la libera circolazione di merci e di denaro. Nell’edizione originale del suo classico Steady-State Economics, del 1977, il grande bioeconomista Herman Daly scrive: «In verità, la crescita economica è l’obiettivo più universalmente accettato nel mondo. Capitalisti, comunisti, fascisti e socialisti vogliono tutti la crescita economica e si sforzano di renderla massima. Il sistema che cresce al tasso più alto è considerato il migliore. Il fascino della crescita è che su di essa si fonda la potenza della nazione e rappresenta un’alternativa alla ridistribuzione come mezzo per combattere la povertà… Se si intendesse aiutare seriamente il povero, si dovrebbe fronteggiare il problema morale della ridistribuzione e cessare di nasconderlo dietro la crescita globale». (Daly, 1981).
In realtà, al grande Summit Mondiale sullo Sviluppo Sostenibile di Johannesburg i «potenti» della Terra hanno fallito nel prendere impegni concreti per ridurre gli insostenibili modelli di produzione e consumo che stanno impoverendo i sistemi naturali e le persone che vivono sul nostro pianeta.
L’opinione pubblica mondiale chiedeva alla politica un impegno serio: indicare finalmente target precisi di riferimento, tempi entro cui raggiungerli e chiarezza sui mezzi da utilizzare per raggiungerli.

Al Summit hanno partecipato 22.000 delegati provenienti da governi (con un centinaio di capi di stato e di governo), agenzie intergovernative, organizzazioni non governative, settore privato, società civile e comunità scientifica.
Il Summit ha negoziato e poi adottato due documenti: il piano di implementazione e la Dichiarazione di Johannesburg sullo sviluppo sostenibile. Inoltre ha presentato circa 220 iniziative di partnership tra settore pubblico, privato e società civile in cui si annunciano impegni per progetti concreti di sviluppo sostenibile con una cifra complessiva valutabile in 235 milioni di dollari (cifra certamente molto modesta se pensiamo, come già ricordato sopra, che i paesi poveri hanno un debito che supera i 2.500 miliardi di dollari e che la media dell’assistenza pubblica allo sviluppo dei paesi industrializzati è pari allo 0,22% del PIL (l’Italia ha lo 0,13% e gli Stati Uniti solo lo 0,10%). Un risultato certamente scarso rispetto alle sfide drammatiche e evidenti che sono sotto gli occhi di tutti, ma che ci invita a intensificare gli sforzi per essere più incisivi nell’immediato futuro.

Le ricerche sul cambiamento globale

Ha scritto lo storico John McNeill (2002), della Georgetown University, nella sua lucida analisi della storia dell’ambiente del XX secolo: «È probabile che asteroidi e vulcani, al pari di altri agenti astronomici e terrestri, abbiano prodotto cambiamenti ambientali più radicali di quelli cui abbiamo assistito nella nostra epoca. È la prima volta, nella storia dell’umanità, che abbiamo modificato gli ecosistemi in maniera così profonda, su tale scala e con tale rapidità. È una delle rare epoche della storia della Terra in cui si è assistito a cambiamenti di tale portata e intensità […]. Inconsapevolmente il genere umano ha sottoposto la Terra a un esperimento non controllato di dimensioni gigantesche. Penso che, con il passare del tempo, questo si rivelerà l’aspetto più importante della storia del XX secolo: più della seconda guerra mondiale, dell’avvento del comunismo, dell’alfabetizzazione di massa, della diffusione della democrazia, della progressiva emancipazione delle donne».
Il noto scienziato Paul Crutzen (premio Nobel per la chimica 1995, insieme a Sherwood Rowland e Mario Molina per le ricerche sugli effetti dei clorofluorocarburi sulla fascia di ozono nella stratosfera), ha proposto di definire «Antropocene» il periodo geologico iniziato nella seconda metà del Settecento (quindi dall’avvio della Rivoluzione industriale), a riconoscimento del ruolo centrale che la specie umana riveste nella straordinaria modificazione dei sistemi naturali (Crutzen, 2002).
Il periodo che stiamo vivendo viene definito dai geologi Olocene e il suo inizio è indicato a partire dai 10.000-11.000 anni fa, cioè da quando la specie umana ha avviato la Rivoluzione Neolitica.
Con l’autorevole proposta di Crutzen ? già accolta positivamente da molti scienziati ? il mondo scientifico riconosce definitivamente il ruolo fondamentale dell’intervento umano sul pianeta. La massa di dati, conoscenze e informazioni che abbiamo ormai acquisito sui pesanti effetti che l’intervento umano ha prodotto ai sistemi naturali è enorme. Da tempo la comunità scientifica ha cercato di avviare iniziative internazionali per comprendere meglio la «fisiologia» dei sistemi naturali, le loro dinamiche evolutive e, d’altra parte, il ruolo del nostro intervento e le conseguenze dei nostri impatti.
L’autorevole International Council for Science (ICSU), che costituisce la federazione indipendente delle unioni scientifiche internazionali, ha avviato dal 1986 un vastissimo progetto internazionale coordinato di ricerche su questi problemi, l’«International Geosphere Biosphere Programme» (IGBP), detto più comunemente «Global Change Project» (IGBP, 1990, IGBP, 2001, Steffen et al., 2002), che è senza alcun dubbio il più autorevole sforzo di ricerca internazionale su questi problemi.
L’IGBP è stato poi affiancato dal programma «Human Dimensions of Global Change», che si occupa in particolare della dimensione umana dei cambiamenti globali, nonché dal programma «Diversitas» (dedicato allo studio della biodiversità del pianeta e degli effetti dell’intervento umano su di essa) e dal «World Climate Programme» dedicato alla migliore conoscenza del sistema climatico e del nostro impatto su di esso.
La mole di autorevoli pubblicazioni prodotte nell’ambito di questi e di altri programmi nati nell’ambito di organismi internazionali è veramente ingente e le conclusioni raggiunte sino ad ora non fanno che confermare le parole di McNeill.
È quindi francamente singolare assistere a tentativi tendenti a sminuire e a cercare di contestare questa ingente massa di dati, come è avvenuto nel volume di Lomborg (Lomborg, 2001), che è stato giustamente «distrutto» dalle recensioni delle più autorevoli riviste scientifiche mondiali (come «Science», «Nature», «Scientific American») e definito «scientificamente disonesto e contrario agli standard della buona pratica scientifica» dal Comitato Danese sulla Disonestà Scientifica, costituito da autorevoli scienziati.
D’altra parte lo stesso Lomborg afferma chiaramente nel suo libro di non essere un esperto di problemi ambientali e ovviamente non cita mai l’IGBP. Stupisce pertanto il grande clamore avuto da questa pubblicazione che non fa altro che portare acqua ai fautori dello scenario BAU.

Sostenibilità, capacità di futuro

Ancora oggi, tutte le volte che si utilizza il termine «sviluppo sostenibile» si fa una gran confusione, spesso volutamente, altre volte per mancata conoscenza.
Gli avanzamenti teorici e operativi di tante discipline, alcune delle quali specificatamente dedicate ad approfondire i temi della sostenibilità (come avviene per l’economia ecologica, l’Ecological Economics), non consentono più di essere troppo generici e vaghi nel trattare tali problemi, pur nella consapevolezza di tutti i limiti, incertezze e complessità di queste tematiche.

Gli avanzamenti sin qui acquisiti a livello dei migliori centri di ricerca interdisciplinari internazionali si riferiscono inevitabilmente all’analisi dei sistemi complessi adattativi, alle loro dinamiche, alle loro interpretazioni. Oggi possiamo parlare di una vera Sustainability Science, la scienza della sostenibilità.
Proprio nel 2002 sono venute a mancare due figure straordinarie nelle scienze ambientali, i fratelli Eugene e Howard Odum (il primo nato nel 1913 e il secondo nel 1924), che nella loro lunga carriera accademica ci hanno fornito approfondimenti scientifici, analisi e chiavi di lettura di grandissimo valore per comprendere il funzionamento dei sistemi naturali e delle loro relazioni con i sistemi umani. I fratelli Odum sono stati grandi protagonisti delle scienze ecologiche, hanno brillantemente analizzato le realtà ambientali intese come sistemi e sono stati veri pionieri di molti concetti e approcci che oggi sono diventati centrali nella Sustainability Science (vedasi, ad esempio, Odum, 1973 e Odum, 1994).
Infatti, da molte intuizioni dei fratelli Odum e di altri si è andato formando il concetto di sistema adattativo complesso, che deve molto a studiosi quali John Holland e Stuart Kauffman (che si sono poi riuniti nel famoso Istituto di Santa Fe ? New Mexico ? che studia proprio i sistemi adattativi complessi). I sistemi adattativi complessi sono sistemi in grado di acquisire informazioni sull’ambiente che li circonda e sulle proprie interazioni con l’ambiente stesso. Sia i sistemi naturali, che quelli sociali ed economici sono sistemi adattativi complessi.
La teoria dei sistemi adattativi complessi propone una visione del mondo estremamente dinamica, flessibile, e appunto adattativa. Per comprendere appieno le sfide con le quali l’umanità deve confrontarsi sono necessari nuovi strumenti di analisi, in via di sviluppo negli ultimi decenni che influenzano le scienze naturali e quelle umane, economiche e sociali. In particolare, la teoria e la prassi dell’analisi dei sistemi adattativi complessi forniscono strumenti fondamentali per la comprensione dei cambiamenti globali, della storia, dell’intervento umano, delle valutazioni delle aree a rischio, dei legami tra sistemi ecologici, sociali ed economici, e sono in grado di indirizzare politiche innovative per il futuro. Queste analisi sono alla base del fecondo lavoro della Resilience Alliance, un consorzio di istituti e gruppi scientifici di ricerca autorevoli e interdisciplinari ? focalizzato sulla sostenibilità ? che ha predisposto un interessante documento per il Summit di Johannesburg (Folke et al., 2002).
Valutare e analizzare la sostenibilità richiede quindi nuovi modi di pensare. Le precedenti visioni della natura e della società come sistemi vicini all’equilibrio sono stati rimpiazzati da visioni dinamiche, che enfatizzano le complesse relazioni non lineari, i continui mutamenti, la flessibilità, l’adattabilità, l’apprendimento, e che si confrontano con le discontinuità e le incertezze di shock sinergici (vedasi, ad esempio, Botkin, 1990, Berkes, Colding e Folke, 2002).
Pertanto una sfida fondamentale, in questo contesto, è quella di costruire conoscenza e capacità di apprendimento e adattamento nelle istituzioni e nelle strutture che devono gestire localmente, regionalmente, nazionalmente e globalmente gli ecosistemi, per cercare di mantenere la resilienza dei sistemi naturali e umani e di abbassare al minimo il livello di vulnerabilità dei sistemi stessi.
La Sustainability Science ha prodotto approfondite analisi sull’utilizzo di nuovi indicatori per misurare la ricchezza, il benessere e la sostenibilità complessiva dei sistemi naturali e di quelli umani (su questo fronte esiste ormai una letteratura sterminata).

Il concetto ecologico di resilienza è stato pionieristicamente introdotto dall’ecologo Crawford Holling sin dai primi anni Settanta (Holling, 1973, Holling, 1996). Esso definisce la capacità dei sistemi naturali di assorbire gli shock mantenendo le proprie funzioni, capacità che viene misurata dal grado di disturbo che un sistema naturale può assorbire prima che il sistema stesso cambi la sua struttura, mutando variabili e processi che ne controllano il comportamento. Gli ecosistemi, ricorda Holling, hanno più di uno stato di equilibrio e dopo una perturbazione spesso ripristinano un equilibrio differente dal precedente.
Il sistema ecologico o sociale diventa vulnerabile quando esso perde le sue capacità di resilienza, cioè supera la soglia di mutamenti assorbibili. In un sistema resiliente, il cambiamento ha la potenzialità di creare opportunità di sviluppo, novità e innovazione. In un sistema vulnerabile persino piccoli cambiamenti possono risultare devastanti. Meno resiliente è il sistema, minore è la capacità delle istituzioni e delle società di adattarsi e di affrontare i cambiamenti.
Questo è, in grandissima sintesi, il messaggio centrale che ci proviene dalla Sustainability Science, questo è il messaggio che, implicitamente, da vent’anni ci fornisce lo «State of the World» con le sue analisi interdisciplinari, questa è la sfida alla cultura politica internazionale che appare ancora incapace di futuro.