In riferimento all’articolo apparso su Arpa Toscana del 22 settembre scorso sulla sindrome di Nimby che evidenziava la mancanza di comunicazione tra i diversi stakeholder coinvolti
In riferimento all’articolo apparso su Arpa Toscana del 22 settembre scorso sulla sindrome di Nimby, che evidenziava la mancanza di comunicazione tra i diversi stakeholder coinvolti in situazioni di rischio ambientale, si propone un approfondimento rispetto alla tematica di una corretta comunicazione del rischio intesa come «… un processo interattivo di scambio di informazioni e di opinioni tra individui, gruppi e istituzioni che spesso prevede messaggi complessi circa la natura del rischio, o esprime preoccupazioni, opinioni e reazioni al rischio comunicato o fornisce informazioni sulla gestione del rischio stesso». L’approfondimento è tratto dalla tesi di laurea in Sociologia, indirizzo territorio ed ambiente, gentilmente messaci a disposizione da parte del collega dell’Apat Stefano Loffredi, riguardante appunto la comunicazione del rischio nel caso del deposito nucleare di Scanzano Jonico.
L’esempio dell’emanazione del decreto legge n.314/2003 con il quale veniva indicata una porzione del territorio del comune di Scanzano Jonico (Matera) quale sito idoneo per la costruzione di un deposito nazionale di rifiuti nucleari, rappresenta forse uno dei casi più eclatanti di mancata comunicazione del rischio in quanto ha comportato la totale assenza di partecipazione ai processi decisionali da parte dei cittadini. La gravità della situazione creatasi dalle reazioni delle popolazioni coinvolte è però risultata, per stessa ammissione delle istituzioni politiche responsabili della emissione del decreto, del tutto imprevista. Tale ammissione ha fatto emergere l’assoluta mancanza di una qualsiasi politica istituzionale volta ad un approccio comunicativo efficace e progettato attraverso il coinvolgimento degli attori sociali direttamente interessati al procedimento, mancanza che comporta la perdita di credibilità
(intesa come obiettività, onestà e disinteresse nel comunicare) e di fiducia dei cittadini nei confronti delle fonti convenzionali, istituzioni e mass-media. E’ infatti ormai conoscenza consolidata il fatto che forme di dissenso e conflitto nei confronti della realizzazione di progetti a forte impatto ambientale si generino proprio come conseguenza della mancata partecipazione degli attori sociali coinvolti al processo comunicativo che configura una situazione di «rischio imposto» difficilmente tollerabile. Tale forma di consapevolezza, ormai acquisita da diverso tempo a livello internazionale, sembra essere stata del tutto ignorata dalle istituzioni nonostante che le implicazioni dovute alla sindrome Nimby fossero ormai conosciute da tempo.
L’ipotesi di una gestione strategica della comunicazione di tali situazioni di rischio ambientale si riferisce ad un quadrato relazionale ideale i cui vertici sono rappresentati dalle istituzioni, dagli esperti, dai mass-media e dai cittadini. Infatti anche nel citato caso è sembrata confermarsi la tendenza da parte delle istituzioni a far affidamento su quello che viene definito «sapere esperto» per giustificare le proprie scelte. Ma gli esperti tecnico scientifici, pur ritenendo in parte legittime le preoccupazioni dei cittadini, tendono a distinguere tali percezioni sociali dalle questioni oggettive e scientifiche sulle quali presumono debba essere raggiunto un indiscusso consenso sostenendo che una migliore informazione conduce ad una maggiore comprensione che a sua volta porta al sostegno delle decisioni attraverso un processo che dalla conoscenza fa discendere automaticamente il consenso. Tale modello, detto del «deficit cognitivo», sostenente una concezione della comunicazione in cui i cittadini vengono considerati destinatari passivi della informazione scientifica, si contrappone al cosiddetto modello «diffusionista» fondato sulla constatazione che la comprensione di tale informazione è legata alla sua percezione nel contesto sociale di riferimento rendendola in definitiva un qualcosa di condizionale. In base a tale visione appare inevitabile il contrasto tra un «sapere esperto» generale, analitico ed interessato a stabilire nessi causali certi, ed un «sapere profano» concreto, appreso con l’esperienza, fondato su dati raccolti dalle persone coinvolte e senza nessun tipo di supporto da parte delle istituzioni le quali si trovano nella difficoltà di mediazione tra chi propugna processi generali e chi sostiene la validità di condizioni specifiche.
L’ormai sancito diritto di informazione dei cittadini in materia di rischio ambientale pone fermamente il problema di come sarebbe corretto comunicare col pubblico al fine di ottenere una maggiore partecipazione dei cittadini ai processi decisionali sulle possibili fonti di rischio, pubblico che da audience si è andato trasformando in parte attiva divenendo una nuova entità portatrice di informazioni ed interessi a volte contrastanti con quelli dei decisori istituzionali e degli esperti tecnico- scientifici. Infatti i cittadini, grazie soprattutto allo sviluppo di Internet, hanno oggi l’effettiva possibilità di accedere liberamente ai cosiddetti «saperi esperti» ed ottenere in breve tempo materiale documentario ampio ed approfondito che gli permette di aumentare la propria conoscenza sulla probabile fonte di rischio ed il proprio potere negoziale.
In mancanza di un effettivo processo dialettico in situazioni di rischio ambientale:
– i cittadini si percepiscono come semplici vittime degli eventi in quanto non precedentemente informati e spesso estromessi da processi decisionali con i cui effetti vengono però chiamati a convivere;
– gli esperti sono in disaccordo tra loro sull’interpretazione dei dati;
– le istituzioni si delegittimano nella loro incapacità di azioni concrete in quanto concepiscono l’informazione non come un processo che si distende nel tempo ma legata a specifici eventi senza la predisposizione di adeguate politiche di informazione preventiva.
Al contrario un processo informativo mirato a favorire nei soggetti interessati la maturazione di opinioni fondate su concreti elementi di conoscenza produrrebbe una crescita della credibilità di chi promuove l’informazione costituendo il presupposto indispensabile di una effettiva partecipazione mirata alla soluzione di «problemi condivisi». Tale consapevolezza ha portato ormai in tutta Europa (ad esempio attraverso il progetto Eaws, European Awareness Scenario Workshops, lanciato dall’Unione europea nel 1994) ed a tutti i livelli (dal nazionale al locale), al moltiplicarsi di tavoli di discussione allargati a tutti gli stakeholder in quei casi riguardanti una decisione comportante un potenziale rischio ambientale. Tali tavoli di discussione hanno evidenziato come tale partecipazione nei casi di valutazione e gestione dei rischi consente una composizione democratica dei conflitti, garantisce un più completo processo decisionale in grado di ridurre le probabilità di errori e permette la legittimazione delle decisioni prese. In tale processo dinamico gli opposti stakeholder cercano di ottenere un supporto alle loro posizioni non offrendo nuovi fatti o cambiando le proprie valutazioni sugli stessi, ma tentando di operare un’alterazione della cornice interpretativa (frame) per la valutazione di quei fatti. La natura selettiva di tali cornici, riferibili a specifici gruppi di attori sociali, suggerisce il tentativo da parte dei diversi stakeholder di indirizzare il tavolo di discussione su quei temi da loro considerati maggiormente rilevanti ignorando così le altre implicazioni ed il persistere delle dispute è dovuto proprio alla differente interpretazione ed esposizione dei fatti: «le frame pensano diversamente». E’ da considerare inoltre che i diversi stakeholder, attraverso l’accesso ai mass-media, tentano di stabilire la propria posizione ed il proprio punto di vista come l’unico legittimo al fine di rendere egemone la propria interpretazione.
(Fonte Arpa Toscana)