Oggi molti italiani, europei, americani e giapponesi accorrono in Africa per godere dei suoi tesori nascosti, per fotografare antilopi e leoni, jene e avvoltoi, ammirando danze e costumi di genti un tempo disprezzate, poi tradotte in schiavitù, quindi sfruttate e ancor oggi sottovalutate
Per molti di noi, dire Parchi significa soprattutto parare di Africa. Vuol dire rivedere, o forse semplicemente immaginare, elefanti e rinoceronti, antilopi e giraffe, zebre e leopardi. O magari rivivere la scena madre del ghepardo che insegue e ghermisce l’impala. Il nome Africa evoca, nell’immaginario collettivo, un leopardo trovato morto, chissà perché, sulle nevi del Kilimangiaro, come narrava quel vecchio cacciatore nomade che fu Ernest Hemingway. Oppure una festa di suoni e colori, tra immagini e ritmi di terre lontane, nelle serate televisive condotte da una splendida Licia Colò. Ma vuol dire anche «La mia Africa», con le musiche e i canti tribali delle colline N’Gong, in armonia tra l’indimenticabile romanzo di Karen Blixen e la magistrale pellicola di Sidney Pollack. Alla memoria dei meno giovani, probabilmente, affioreranno anche molti ricordi assai meno piacevoli, come certe scene terribili di lotte cruente e terrore incombente nel film «Africa addio».
Nel continente Nero
L’Africa di cui si parla sempre è il vero continente Nero, la sua porzione maggiore situata a sud del Sahara, quella che attraverso il Sahel, le savane, le foreste tropicali e il «veld» sudafricano giunge fino al Capo di Buona Speranza. La terra dei più grandi animali terrestri del mondo, dove una volta si andava sempre con armi da caccia grossa. Dove si alternano colori magnifici, suoni insoliti, spossante umidità e sole bruciante. Il paese dove sgorgano travolgenti le sorgenti del Nilo, fiume lunghissimo che poi discende placido al nostro tiepido Mediterraneo. Mentre l’altra Africa, quella settentrionale e maghrebina, libica ed egiziana, rappresenta quasi un mondo diverso: che proprio per questo meriterà di essere trattato a parte.
Oggi molti italiani, europei, americani e giapponesi accorrono in Africa per godere dei suoi tesori nascosti, per fotografare antilopi e leoni, jene e avvoltoi, ammirando danze e costumi di genti un tempo disprezzate, poi tradotte in schiavitù, quindi sfruttate e ancor oggi sottovalutate: dalle quali invece avremmo molto da imparare. Ma ciò che più entra nel cuore è lo scenario sconfinato con la linea dell’orizzonte intatta, il tramonto infuocato che sfuma in tutti i colori dell’iride, il risveglio della vita dopo le piogge improvvise, il concerto di canti di uccelli che accoglie chi sappia sostare in silenzio nella profondità della foresta.
Esploratore o naturalista, viaggiatore o vacanziere, chiunque abbia percepito una sola volta l’atmosfera della vera Africa la ricorderà per sempre. E resterà colpito da una malattia inguaribile, perché vorrà sempre ritornarvi. Una malattia da molto tempo nota come «mal d’Africa».
Numerose e diversissime tra loro sono le Aree protette dell’Africa, e non sono pochi gli Stati che tutelano ormai circa il 10% del proprio territorio, ed oltre: come Botswana, Ruanda, Costa d’Avorio, Zambia, Kenya, Tanzania e Uganda. Un bel progresso, non c’è che dire, rispetto al lontano anno 1898, allorché preoccupato dalle continue stragi di fauna selvatica il Presidente del Sud Africa Kruger creava a Sabie la prima Riserva Faunistica, destinata a diventare poi, nel 1926, il vastissimo e celeberrimo Parco Nazionale Kruger. Molti Parchi Nazionali hanno acquistato ormai fama mondiale, e per evocare spettacoli mozzafiato e scenari da fiaba sarà sufficiente pronunciarne solo il nome: Amboseli, Serengeti, Ngorongoro, Tsavo, Cascate Vittoria, Virunga, Kalahari… Ma non tutto è stato facile, e vi sono state guerre civili e distruzioni, soprattutto in Sierra Leone, Congo e Zaire, Angola e Mozambico.
Altri territori sono rimasti quasi miracolosamente fuori dalle violenze, come Namibia e Botswana, e un poco anche Zambia e Malawi. Ma alcuni dei luoghi più incantevoli, dallo Zimbabwe all’Uganda, dallo Zaire all’Etiopia, dall’Eritrea alla Somalia, hanno sofferto, e tuttora soffrono, di crisi e disordini devastanti.
Il dilemma africano
Come ogni tragedia dell’umanità, anche il dilemma dell’Africa si consuma tra la rapacità di pochi e l’indifferenza di molti, a danno dei più deboli. Oggi vediamo soltanto l’anello terminale della catena della disperazione: barconi sovraccarichi di torme di fuggitivi che affrontano i marosi per scampare alla fame e alla morte, mentre la desertificazione avanza implacabile.
Nel frattempo, continuiamo a sommergere l’Africa con tonnellate di rifiuti, veleni e scorie vietati o non graditi nei nostri Paesi, a trasformare le colture tradizionali di soja in piantagioni di caffè e tè comode per noi, tentiamo di convincere le donne a non allattare i figli, perché è meglio comprare latte in polvere.
Poco si parla di guerre per l’uranio combattute nell’Africa tropicale, di abbattimento delle ultime foreste primarie, oppure di sfruttamenti e sperequazioni legati al traffico di diamanti. Si era sperato che la fine del colonialismo portasse verso destini migliori, ma purtroppo non è stato sempre così.
Di chi la colpa, dei conquistatori o degli oppressi? Il bianco è buono e il nero malvagio? Ci sono stati i Bokassa e gli Amin Dada, è vero, ma perché non ricordare anche i Senghor e i Mandela? Come pensare che all’origine della tragedia attuale non vi siano anche nostri antichi egoismi e nostre inconfutabili responsabilità?
Molti hanno capito ormai, e non solo negli Stati progrediti, che i Parchi Nazionali e la natura unica di quel continente possono costituire la vera pietra miliare del loro avvenire. Purché conservati con amore, governati con lungimiranza, sono capaci di offrire benefici unici. A patto che a goderne non siano soltanto le compagnie aeree e gli operatori turistici, me anche le genti dei villaggi circostanti. Allorché ogni abitante del villaggio potrà capire che il futuro dei suoi figli è legato indissolubilmente anche al destino del rinoceronte, la via da seguire sarà chiaramente visibile.
Il destino del rinoceronte
E proprio nel destino del rinoceronte, in fondo, è racchiuso il futuro dell’Africa. Certo il rinoceronte rappresenta solo un facile esempio, avremmo potuto parlare anche di elefante, leone o leopardo. Quel grosso animale dal corno appuntito, tanto perseguitato da rischiare l’estinzione, rappresenta infatti un paradigma eloquente di come la sorte del patrimonio naturale può influenzare la vita dell’uomo. Perché per tutte le creature di questo mondo il destino oscilla sempre tra salvezza e dannazione: e ogni essere vivente è legato agli altri da un filo invisibile, molto importante, talvolta essenziale.
Nel secolo scorso, i ricchi occidentali andavano in vacanza nel continente Nero soprattutto per l’avventura, la caccia grossa e la ricerca di trofei da appendere in salotto. Erano armati di carabine a cannocchiale, e accompagnati dalle migliori guide: e ogni rinoceronte abbattuto fruttava a quella nazione almeno un migliaio di dollari. Poi, mentre i rinoceronti diventavano sempre più rari ed elusivi, i ricchi cacciatori diminuivano, e andavano alla ricerca di nuove emozioni in terre lontane. Venne allora il tempo del safari fotografico, unica arma puntata il teleobiettivo, che crebbe rapidamente: ogni visitatore, per vedere un rinoceronte, spendeva almeno una decina di dollari.
«Gli ospiti senza fucile sono assai più numerosi – confidò un giorno un giovane keniota in visita ad un villaggio Masai – ecco perché rendono molto, ma molto di più». «E oltretutto, il rinoceronte resterà vivo – aggiunse una ragazza, che spiegava come mai in tutto il Kenya fosse stata vietata completamente la caccia – e dunque altri animali come questo popoleranno sempre le savane della nostra terra».
Ma come far percepire queste semplici verità a tutte le genti africane? La risposta venne un giorno dal più famoso divulgatore inglese della conservazione della natura. «Per tentare di convincere a non uccidere il rinoceronte – spiegò – ho visitato decine e decine di villaggi di molti Stati, e tenuto conversazioni soprattutto con i giovanissimi. Mi ascoltavano attenti, ma nessuno di loro aveva mai visto un rinoceronte, né sapeva minimamente cosa fosse. Ma quando ho tenuto conferenze analoghe in Gran Bretagna, tutti i bambini sapevano perfettamente di quale animale parlavo, lo disegnavano molto bene ed erano pienamente consapevoli della necessità di proteggerlo».
Ecco, la strada maestra per un futuro migliore dell’Africa passa anche attraverso queste tappe: conoscere meglio, per amare di più: e quindi sforzarsi di conservare per noi stessi, ma anche per tutti gli altri abitanti della Terra, attuali e futuri.