In un tentativo antropocentrico di portare una giusta visione, ed a suo dire «da filosofo», il rapporto tra uomini ed altri animali, Savater finisce per diventare il paladino dei meccanicisti
In una recente intervista pubblicata su «La Repubblica» dal titolo «La mistica degli animali», il noto scrittore e filosofo spagnolo Fernando Savater ha lanciato una dura accusa nei confronti di coloro che definisce «gli antispecisti». Il suo ultimo libro, pubblicato da Laterza in Italia, parte da un elegia nei confronti delle corride e delle corse dei tori per finire ad un’alquanto demagogica smitizzazione dell’immagine edulcorata degli animali, antropomorfizzati dai cartoni animati.
In un tentativo antropocentrico di portare una giusta visione, ed a suo dire «da filosofo», il rapporto tra uomini ed altri animali, Savater finisce per diventare il paladino dei meccanicisti. «Gli animali sono mossi dall’istinto, laddove io, essere umano, nonostante abbia un istinto, posso anteporre un interesse diverso», dichiara al giornalista Matteo Nucci, che lo ha intervistato.
La sua è una critica nei confronti di «una tendenza che spinge ad accreditare le forme più estreme di animalismo, come l’antispecismo di Peter Singer, ossia l’idea che tra le specie animali non ci siano distinzioni di sorta». Ma l’uguaglianza a cui Peter Singer, e molti altri, si riferiscono non è nelle caratteristiche che rendono unica e quindi diversa ogni singola specie, ma nel diritto alla vita che le accomuna, rendendole appunto senza distinzioni alcuna. Perché il vero pericolo sta nel non riconoscere l’uguaglianza nel diritto ad un’esistenza degna, priva di sofferenze all’interno di una diversità, quella biodiversità, che rende straordinario il pianeta in cui viviamo.
Ritenere l’uomo superiore o differente nei diritti a qualunque altro essere vivente è l’atteggiamento dominante, che ha contrassegnato gli ultimi tre secoli di storia filosofica e scientifica. L’allontanamento dalla vita rurale, invocato da Savater, è certamente una delle concause di questo distacco dalla comprensione della Natura. Credere che l’uovo sia prodotto dal negoziante o il latte dal supermercato è un classico esempio di distanza creatasi tra l’uomo ed il resto del vivente, di cui sono vittime soprattutto le nuove generazioni. Molti bambini di città rispondono esattamente questo quando gli si chiede da dove proviene la loro colazione. «E la carne?», dal macellaio, sono certi alle scuole elementari. Ma questo distacco non può giustificare la demonizzazione che Savater fa del movimento antispecista, che cerca di diffondere l’idea di uguaglianza dei diritti di ogni essere vivente. «Non distinguere gli uomini dagli altri esseri viventi è nefasto – asserisce il filosofo -. Perché la morale riguarda solo gli esseri umani. Purtroppo però ormai si tende a scambiare la morale con la compassione».
Ma qui l’errore che l’autore commette è epistemologico per due aspetti rilevanti. Il primo è quello di ritenere la morale appannaggio solo degli esseri umani, considerandoli «non animali». Negli ultimi decenni ed a partire dalla più grande rivoluzione scientifica, dopo la teoria eliocentrica, dell’evoluzionismo l’umanità si è dovuta scontrare con l’imbarazzante consapevolezza di essere parte della Natura e, soprattutto, del Regno Animale, esattamente al livello della mosca o del colibrì. Nessuno può negare le differenze tra il lombrico, la focena o il geometra, ma non si tratta certo di variazioni di grado o di valore. Trattasi, invece, di adattamenti alla condizione esistenziale di ognuno di essi. Adattamenti perfettamente adeguati all’ambiente di vita ed al rapporto con gli altri esseri viventi intimamente interconnessi.
L’uomo, dunque, sembrerebbe lapalissiano, è un animale. Ma questo Savater e molti creazionisti non vogliono accettarlo. E così con pseudo-motivazioni di alto valore filosofico cerca di assegnare al solo uomo la facoltà morale. Lo stesso Nietzsche nell’opera Genealogia della morale chiarisce: «Che gli agnelli nutrano avversione per i grandi uccelli rapaci, è un fatto che non sorprende: solo che non v’è in ciò alcun motivo per rimproverare ai grandi uccelli rapaci di impadronirsi degli agnellini. E se gli agnelli si vanno dicendo tra loro: “Questi rapaci sono malvagi; e chi è il meno possibile uccello rapace, anzi il suo opposto, un agnello non dovrebbe forse essere buono?” su questa maniera di erigere un ideale non ci sarebbe nulla da ridire, salvo il fatto che gli uccelli rapaci guarderanno a tutto ciò con un certo scherno e si diranno forse: “Con loro non ce l’abbiamo affatto noi, con questi buoni agnelli; addirittura li amiamo: nulla è più saporito d’un tenero agnello”». Non c’è affatto alcuna morale umana negli altri animali così come non esiste probabilmente sovrastruttura mentale che permette loro l’astrazione. Questo, però, non vuol assolutamente dire che non esista morale in Natura e, dunque, anche negli animali.
Edward Goldsmith ha più volte ribadito che non si può parlare di ecologia senza riconoscere che ogni essere vivente ed infine la stessa Terra agiscono seguendo la più universale delle morali, che tende a mantenere stabile la complessità della vita ed a preservarne la sua stessa esistenza sul pianeta.
Aldo Leopold, precursore del movimento ambientalista, con geniale raffinatezza ha scritto: «Una cosa è giusta quando tende a preservare e proteggere l’integrità, la stabilità, la bellezza della comunità biotica. È sbagliata quando tende altrimenti». Ed è questa, dunque, la morale che segue ogni essere vivente e che l’uomo prima di eleggersi a dominatore del mondo, ad immagine di dio, perseguiva nella suo soggiorno nel mondo. La morale contestabile diventa, così, quella umana che parte da principi validi solo in un determinato tempo storico, in una condizione sociale ed in uno spazio così limitati da non poter essere estesa al di là del singolo gruppo di uomini. Ciò che è giusto negli Usa non lo è in Arabia Saudita. E ciò che era «bene» nel medioevo è diventato un «male» ai giorni nostri. La morale universale, quella degli animali come parti integrate in un tutto, invece, non conosce vincoli di spazio e di tempo ed è valida in qualunque condizione.
Il secondo errore che Savater commette riguarda proprio la confusione, da lui sottolineata, tra morale e senso di compassione. Per aiutare a comprendere il problema fornisce nell’intervista un esempio: «Mettiamo che passeggiando trovo un passerotto caduto dal nido. So che è in pericolo e poiché sono persona compassionevole, lo raccolgo e lo metto in salvo. Questo è molto bello. Ma è ben diverso dal caso in cui io mi imbattessi in un neonato abbandonato per strada. Lì non si tratta di compassione. Io ho il dovere morale di occuparmene». Ma in entrambi i casi, che si tratti del passerotto o del bambino, ciò che spingerebbe la maggior parte delle persone a prendersene cura non è né la compassione né il senso morale, ma qualcosa che Savater sembra omettere per non doversi confrontare con l’aspetto cruciale della discussione: l’empatia. Quella stessa empatia che spesso porta i predatori a graziare i cuccioli delle loro prede, i ghepardi ad accudire le piccole gazzelle senza madre, la scrofa ad allattare i gattini orfani, la tartaruga ad adottare l’ippopotamo abbandonato. La stessa che spinge l’uomo ad accogliere sotto il proprio tetto un cane trovato in strada, così come a prendersi cura del bambino abbandonato nel cassonetto. Che sia più facile prendersi cura del cucciolo di uomo o del gattino, piuttosto che della lucertola o dello scarabeo, non ha nulla a che vedere con la morale o con la compassione. Sta tutto nell’empatia che l’altro riesce a suscitare nei nostri confronti. Coloro che non si curano del bambino difficilmente si preoccuperanno del gatto ferito sul ciglio della strada. Così, al contrario, chi prova affezione anche per il più lontano essere, evolutivamente parlando, come la cimice o la lumaca non potrà che provare spontaneo interesse per le sorti degli uomini.
Il filosofo greco Profirio di Tiro, già nel 270 a.C. sosteneva: «Chi si astiene dal maltrattare ogni essere senziente, a maggior ragione si asterrà dal nuocere ai suoi simili. Più grande sarà la sua amicizia per il genere animale, più grande sarà la giustizia che porterà verso il genere umano». Solo coloro in grado di abbracciare empaticamente l’intero Universo con l’insieme degli esseri che lo popolano e vedere in ogni singolo elemento e nella vita in sé quel miracolo da tutelare semplicemente perché esiste, perché c’è al di là della comprensione umana, riesce a cogliere l’assenza di differenze tra l’uomo e qualunque altro vivente.
Così quando Savater sostiene che «un atteggiamento in cui predomina il sentimentalismo ed in cui l’umanitarismo sta sostituendo l’umanismo» e che questo atteggiamento porta a preoccuparsi «del benessere degli altri, ma non della loro umanità, che risiede in aspirazioni, desideri e così via» si fa colpevole dello stesso peccato religioso universale di cui l’umanità cerca di liberarsi: non sentirsi più appartenenti al Paradiso. Perché il Paradiso da cui l’uomo è stato cacciato risiede ancora in Terra ed è costituito proprio da quei sentimenti, da quell’umanitarismo, da quell’animalismo, da quell’ambientalismo che pur nei suoi estremi ci ricongiunge con empatia alla meraviglia della vita.
«Io con un cane posso essere umanitario, ma non umanista» è una frase che può pronunciare solo chi, illudendosi di esser fornito del più nobile senso morale umano, non ha mai guardato negli occhi un cane e compreso che le sue aspirazioni, i suoi desideri, sono ben più puri di quelli di qualunque umanista. Di quelli di qualunque uomo.