Ma la Terra si può salvare?

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Il nostro è un pianeta finito, non incrementabile all’infinito nella sua capacità di offrire spazio, alimenti e risorse ad una popolazione che continua a crescere e domandare spazio, alimenti, risorse. Ciò significa che la capacità di carico può essere vicina al raggiungimento dei suoi limiti naturali

Sono molti a temere che la Terra sia in coma; sulla reversibilità del coma si discute. E, come sempre accade in presenza di un coma, i «familiari» chiedono: si può salvare? Generalmente i medici non si esprimono con sicurezza perché molte sono le variabili che impediscono di dire con certezza se l’uscita dal coma e la guarigione siano possibili.
Nel caso della Terra la situazione è diversa. Qui, infatti, sono almeno 7 miliardi i familiari interessati e i medici hanno tutti gli elementi per dare risposte certe, legate come sono alle scelte delle terapie.
Restando nella metafora, la Terra è molto malata, non è in fin di vita, ma se chi ne governa le sorti non prende atto della situazione e intraprende subito le cure più efficaci per la rianimazione e per il ritorno definitivo ad un buono stato di salute, sarà molto difficile salvarla.

Il nostro è un pianeta finito, non incrementabile all’infinito nella sua capacità di offrire spazio, alimenti e risorse ad una popolazione che continua a crescere e domandare, appunto, spazio, alimenti, risorse. Ciò significa che la capacità di carico può essere vicina al raggiungimento dei suoi limiti naturali. Tanto che si dice che entro una cinquantina d’anni sarà necessaria una nuova Terra. Ciò soprattutto perché la squilibrata crescita economica registrata sul pianeta è stata ottenuta da pochi a spese degli altri. In questo modo, si è verificata quella che si chiama «impronta ecologica» a dimostrazione di quanto vistoso sia il segno che la crescita vigorosa quanto squilibrata ha lasciato sulla Terra.

In preparazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (tenutasi a New York nel giugno 1997) per fare il punto sulla situazione mondiale e l’attuazione concreta di quanto deciso nella Conferenza su ambiente e sviluppo di Rio de Janeiro del 1992, si tenne, sempre a Rio de Janeiro nel marzo del 1997, un  Forum internazionale denominato «Rio+5»: vale a dire Rio 5 anni dopo.
In quella sede Mathis Wackernagel con la sua équipe del Centro de Estudios para la Sustentabilidad dell’Università Anahuac de Xalapa in Messico, presentò uno studio, «Ecological Footprints of Nations», nel quale si calcolava, l’«impronta ecologica» di 52 nazioni, abitate dall’80% della popolazione mondiale. Questa «impronta» veniva calcolata misurando il consumo delle 52 nazioni e l’entità che il «consumo» avrebbe se le nazioni si limitassero a consumare restando nei limiti della loro locale capacità ecologica senza sottrarre quella degli altri.

In tal modo è stato possibile calcolare il «deficit ecologico» di ciascuna nazione. Da questa analisi è risultato che l’umanità nel suo insieme utilizza risorse e servizi della natura in quantità superiori di più di un terzo alle capacità di rigenerazione della natura stessa. Questo metodo che, come ha notato Gianfranco Bologna «mette insieme meccanismi di calcolo differenti su diversi settori di utilizzo umano di risorse cercando di unificarli in un unico dato tradotto in ettari globali pro capite utilizzati, presenta problemi di ordine metodologico e di impostazione scientifica. Tuttavia l’impronta ecologica presenta un’innegabile efficacia simbolica e promuove, sia pure nelle forme più intuitive, la percezione del nostro crescente impatto sul pianeta».
La conclusione che si può trarre è che la crescita dell’economia mondiale ha avuto luogo grazie ad un enorme consumo su scala globale del capitale naturale e scaricando sull’ambiente stesso, sulla collettività e sulle generazioni future costi economici, sociali, ambientali, di straordinaria portata. Tutto basato sulla abitudine a trascurare il capitale naturale come fattore di produzione, nella erronea considerazione di un capitale praticamente illimitato.

Oggi si è in grado di ribaltare totalmente questa impostazione e di misurare, anche quantitativamente, i rischi e i guasti che essa ha alimentato a causa dell’ignoranza e della tendenza a trascurare l’esigenza di uno stretto rapporto tra economia ed «ecologia» che rischia di vanificare ogni possibilità di realizzazione di uno sviluppo definito «sostenibile» e di una «riconversione ecologica» di economia e società.
Il risultato è stato la ricordata impronta che la crescita vigorosa quanto squilibrata dell’economia ha lasciato sulla Terra. Oggi ci si accorge che essa è anche eccezionalmente onerosa e che il prezzo che si potrebbe dover pagare è incommensurabilmente più elevato del beneficio così ottenuto.
Di conseguenza, continuando con l’attuale ritmo di consumo di acqua, suolo fertile, risorse forestali, specie animali, tra 50 anni l’umanità avrebbe bisogno di un altro pianeta avendo esaurito la capacità di carico di questo.

Ma occorrerà un altro pianeta? Evidentemente la domanda è provocatoria perché questo nel quale viviamo è l’unico che abbiamo. Dobbiamo perciò chiederci se possiamo salvarlo per viverci al meglio anche quando la popolazione sarà ulteriormente cresciuta.
Sino ad oggi (e l’attenzione per questa riflessione si può far risalire al primo rapporto del Mit al Club di Roma) l’umanità è cresciuta in modo ineguale con una apparentemente contraddittoria contrapposizione tra Paesi produttori (che consumano meno) e Paesi consumatori (che possiedono meno risorse, ma trasformano quelle di altri aggiungendovi valore).
Nascono così le ineguali distribuzioni di ricchezza e reddito e l’impronta ecologica di cui abbiamo detto in precedenza tanto da far ritenere che non ce ne sia più per tutti e che sarebbe necessario un nuovo pianeta. Ma quando? Quando, cioè, l’esaurimento delle risorse intese nel senso più ampio del termine (spazio, terra agricola, alimenti, fonti di energia e materie prime) sarà veramente una realtà concreta per tutti su tutta la Terra?

Il rapporto Brundtland del 1987 afferma che «le carenze nella gestione dell’ambiente e nel sostenimento dello sviluppo minacciano di travolgere tutti i paesi del mondo. L’ambiente e lo sviluppo non sono sfide da affrontare separatamente; esse sono inesorabilmente legate. Lo sviluppo non può fondarsi su una dotazione di risorse ambientali in via di deterioramento; l’ambiente non può non venire protetto se la crescita non tiene conto delle conseguenze della distruzione ambientale».
Ma, se i consumi aumentano e la disponibilità di risorse si assottiglia come risolvere il problema? Come restare nei canoni della sostenibilità? Da quando i dati del problema sono stati diffusi in modo allarmato e allarmante dal citato rapporto del Mit al Club di Roma, l’argomento è stato affrontato prestando attenzione ad un solo versante: quello dell’esaurimento di alcune vitali risorse del modello di sviluppo occidentale alimentando, di conseguenza, la preoccupazione del mancato soddisfacimento dei bisogni.
Non è l’unico modo di affrontare il problema e nemmeno quello più corretto perché dà per scontato che i bisogni possono essere soddisfatti solo tramite le risorse attualmente usate e con i modi di produzione attualmente utilizzati. Insomma è necessario stabilire qual è il rapporto tra consumi e risorse cominciando col definire gli uni e le altre.

Il significato più genuino e ricorrente di consumi è proprio quello che attiene ai bisogni. È qui che i consumi/bisogni si incontrano con le risorse (alimenti, energia e materie prime) le quali essendo in gran parte non rinnovabili, in presenza di una domanda che cresce non foss’altro che perché aumenta la popolazione, rischiano teoricamente di non poter essere soddisfatti. Ma quello di risorsa non è un concetto statico, inalterato nel tempo e nello spazio, al contrario è un concetto dinamico. Infatti se si escludono gli alimenti i quali, pur con le modifiche avvenute nel modo di produrli e di utilizzarli per l’alimentazione umana e animale, sono rimasti una risorsa in grado di soddisfare un elementare bisogno, non altrettanto si può dire per altre risorse fondamentali quali materie prime e fonti di energia. Queste, infatti, sono mutate nel tempo e differiscono nello spazio, nelle diverse aree geografiche e nelle economie che le caratterizzano, per soddisfare bisogni che restano inalterati.
Quando si dovessero esaurire, con scansioni diverse nel tempo, le risorse attualmente utilizzate, quale incidenza ciò avrebbe sul soddisfacimento dei bisogni? La risposta più ottimistica è che questo rischio è remoto in quanto è presumibile che la ricerca scientifica e il trasferimento tecnologico dei suoi risultati siano in grado di fornire le soluzioni idonee al soddisfacimento dei bisogni utilizzando energie e materiali diversi che, in quel momento, diventeranno risorse. Anche perché, come diceva il Mahatma Gandhi «La Terra è abbastanza ricca per soddisfare i bisogni di tutti, ma non lo è per soddisfare l’avidità di ciascuno» o, come in modo ancor più documentato sostiene l’economista statunitense Lester Thurow: «Se la popolazione mondiale avesse la produttività degli svizzeri, i consumi medi dei cinesi, le inclinazioni egualitarie degli svedesi e la disciplina sociale dei giapponesi, il pianeta Terra potrebbe sopportare una popolazione molte volte maggiore di quella attuale. Se, invece, la popolazione mondiale avesse la produttività del Ciad, i consumi medi degli Usa, le inclinazioni egualitarie dell’India e la disciplina sociale dell’ex Jugoslavia, il pianeta Terra non riuscirebbe neppure a sopportare la popolazione attuale».

Nel frattempo, anche per dare alla ricerca il tempo necessario per fornire le risposte richieste, altre soluzioni sono perseguibili per realizzare l’obiettivo intermedio di allungare la vita delle risorse esauribili allontanandone l’esauribilità: risparmio, razionalizzazione degli usi e dei consumi, ottimizzazione delle macchine: in una parola quella che si definisce ecoefficienza.
Entriamo in questo modo in un altro campo d’azione che si chiama Fattore 4. Cioè il metodo proposto nel 1998, che propone di quadruplicare la produttività delle risorse. L’idea è contenuta nel rapporto promosso dal Club di Roma e firmato da Ernst U. von Weizsäcker, del Wuppertal Institut e da Amory B. Lovins e L. Hunter Lovins del Rocky Mountain Institute del Colorado: Fattore 4 (come ridurre l’impatto ambientale moltiplicando per quattro l’efficienza della produzione).
L’ipotesi di lavoro è che si può moltiplicare l’efficienza per quattro, cioè raddoppiare il benessere dimezzando il prelievo di risorse naturali. Gli autori elencano 50 esempi di ecoefficienza vincente: dall’iperauto che con un pieno va da Capo Nord alla Sicilia alle case passive che prendono l’energia dal sole. Come scrivono gli autori, «la rivoluzione del Fattore 4 è applicabile non solo nei Paesi ricchi ma anche in quelli in via di sviluppo (Pvs). La Cina, l’India, il Messico o l’Egitto hanno molta mano d’opera a buon mercato ma dispongono di scarse risorse di energia. Perché dovrebbero imitare la scarsa efficienza degli Usa o dell’Europa nell’uso dell’energia? Il loro sviluppo, invece, può progredire molto meglio se essi, da subito, seguono la Rivoluzione dell’Efficienza».

L’entusiasmo manifestato nel rapporto viene realisticamente ridimensionato quando gli autori non nascondono le difficoltà: «Naturalmente ci sono molti problemi e molti ostacoli… Anzitutto: l’indirizzo dello sviluppo non viene cambiato da un libro, ma attraverso la gente. Attraverso il comportamento di donne, uomini e bambini, nei loro ruoli di consumatori, elettori, lavoratori, manager e ingegneri, politici e giornalisti, insegnanti e scolari, gente in pensione e gente comune. Ma la gente non cambia le proprie abitudini se non ha seri motivi. Tali motivi possono essere di tipo etico o pratico, oppure tutti e due insieme. La motivazione morale deriva dalla crisi ambientale…».
Nel complesso, il rapporto non cambia la prospettiva di fondo che consiste nella necessità di ridurre l’impatto umano sul pianeta. Ma segna un significativo mutamento nell’approccio ai problemi. Un mutamento nel segno del realismo, come è quello della nuova considerazione del mercato che, parafrasando Churchill e la sua definizione di democrazia, viene definito «la peggior forma per realizzare qualcosa di redditizio, eccettuate tutte le altre».

 

Ugo Leone, Docente di Politica ambientale, Università di Napoli