Ma stiamo superando il punto di non ritorno?

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Non si può dire che gli allarmi non siano mancati, da Rachel Carson (1962) a James Hansen (1988), giusto per citare i più «recenti», fino alla lunga teoria dei rapporti dell’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), a cominciare dal 1990, erede della serie di Conferenze ginevrine che iniziarono nel 1970.

Ci stiamo riferendo ai cambiamenti climatici. Una problematica che ci riguarda sempre di più da vicino, e non possiamo non ricordare, con una certa rabbia, quando gli allarmi venivano presi per allarmismi e quando certi «studi», pagati dalle grandi lobby dei combustibili fossili, hanno confuso la mente a politici e popolazioni.

Ora c’è poco da tergiversare, nei cambiamenti climatici ci siamo dentro. Eppure c’è qualcuno che ancora, forte dell’articolazione degli studi che considerano anche alcune componenti provenienti dallo spazio, continuano a difendere il regime tecnologico e meccanico dell’inizio dell’era industriale.

Alcuni anni fa si parlava del punto di non ritorno. Gli scienziati dichiaravano la loro impotenza verso questa evenienza in cui non era possibile prevedere la reazione del pianeta nel rapporto nuovo che si creava nella biosfera.

Ora, di fronte a fenomeni imprevedibili, causati da una forte variabilità sul piano climatico, come l’accelerazione delle estinzioni, il migrare della vegetazione, la modificazione degli equilibri di microbi e virus in zone in cui non erano presenti, viene da chiedersi se in alcuni settori non siamo già oltre il punto di non ritorno.

Dal punto di vista climatico è stato valutato che entro il surriscaldamento di 2°C, rispetto all’epoca preindustriale gli effetti dei cambiamenti climatici non sono irreversibili e sono ancora gestibili (con adeguati piani di adattamento). Ma la temperatura media del pianeta è aumentata già di 1°C, ci rimane ancora un altro grado di tempo…

Come non osservare che da 30 anni a questa parte c’è stata un’impennata nel riscaldamento e quindi l’altro grado rimanente, se non si tagliano immediatamente le emissioni del 30-40% rispetto al 1990 e del 95% entro il 2050, ce lo giochiamo nei prossimi 20 anni.
La tendenza in questo secolo, infatti è di un aumento della temperatura media del pianeta pari a circa 1°C ogni 25 anni (sino al 2050-2060) e di 1°C ogni 20 anni nella seconda metà di questo secolo.

Dobbiamo ancora aspettare? Dobbiamo tornare alla ineluttabilità del destino? Certo se continuiamo a non fare nulla andiamo di filato verso l’ingovernabilità globale.

Non è difficile prevedere che la terra non sarà più come la conosciamo ora. E non solo sul piano climatico e naturale, ma socioeconomico.

Le migrazioni dovute al riscaldamento globale (anche queste ampiamente previste sin dai tempi del Earth Summit di Rio de Janeiro, 1972) sono una realtà. Tutta questa situazione spinge sulle economie e quindi i movimenti popolari, dismesse le casacche ideologiche, stanno indossando quelle della sopravvivenza. E si sa che di fronte alla vita non ci sono armi né sistemi economici che tengano: c’è solo il fronte di un nuovo assetto sociale.

Zygmunt Bauman osserva che «Nella sua accezione presente, la cultura deve assicurarsi che la responsabilità, la compagna inalienabile della libera scelta, rimanga là dove è stata costretta dalla condizione di modernità-liquida: sulle spalle dell’individuo, eletto unico gestore (legislatore, esecutore e giudice) della “politica della vita”».

Non a caso i giovani non sono più divisi secondo i colori e i gonfaloni. Alcune frange, che si trovano culturalmente nella zona del guado, ragionano ancora con vecchie categorie. Ma di fronte all’avanzare di una realtà che sarà sempre più evidente sarà difficile non fare scelte più sostenibili. E alla luce dell’ennesimo balletto politico andato in scena a Durban, non è grande dimostrazione di profetismo pensare che chi ora si batte per una economia più giusta avrà motivazioni più impellenti per aumentare la protesta.

Anche perché il nuovo è una forza ineluttabile che non soggiace alle logiche del mercato e dell’economia pianificata a tavolino. Per questo i risultati di Durban si dimostreranno presto effimeri.

Vanno riformati i negoziati multilaterali delle Nazioni Unite: dovendo ricercare il consenso di 194 paesi, le soluzioni consensuali possono essere di due tipi: rimandare le decisioni per non decidere nulla, trovare la soluzione minima superflua (nei contenuti) e massima diplomatica (e mediatica) per poter dire di aver fatto grandi passi avanti e perché ciascuno possa dire di aver vinto! Infatti, in questa Conferenza hanno vinto tutti: la Ue che ha portato a casa il proseguimento del Protocollo di Kyoto (che serve anche per mantenere in vita il sistema del commercio delle emissioni in Europa), Usa, Cina e India che hanno portato a casa il disimpegno, perché tanto gli impegni cominceranno solo dopo il… 2020; gli stati delle piccole isole ed i Paesi in via di sviluppo che hanno portato a casa il «green climate fund» che potrà aiutarli nel loro sviluppo con nuove tecnologie (anche se poi nel «green climate fund» non ci sono soldi), il Brasile, l’Indonesia, la Malesia e gli altri paesi che deforestano che hanno portato a casa il Redd che gli finanzia la non deforestazione, i Paesi produttori di petrolio che si son fatti riconoscere i crediti alle emissioni delle tecnologie Ccs in modo che, catturando le emissioni, si continui a utilizzare a tutta birra i combustibili fossili, ecc. ecc.

E quando tutti vincono vuol dire che tutti perdono, ma perdono soprattutto le generazioni future.

Da qui questa nostra iniziativa di aprire un dibattito, ospitando interventi di specialisti che spieghino lo stato dell’arte e verso dove stiamo andando.

Vuole essere, quindi, un contributo alla conoscenza. (I. L.)