Quant’è libera veramente la scienza?

617
Tempo di lettura: 6 minuti

Un recente articolo di Monbiot ed un libro rispondono: molto poco! Il sistema del peer-review rischia di scartare ottime idee solo perché rifiutate da anonimi, e magari concorrenti, «pari» o perché disperse nel mare degli inutili rapporti, privi di qualunque elemento innovativo, offerti mensilmente alle riviste da grossi gruppi di ricerca finanziati da altrettanti importanti sponsor

Si dibatte da secoli sulla libertà della scienza. Libertà dalla religione, dalle imposizioni dei governi, dall’autoreferenzialismo. «Libera scienza in libero Stato» gridano a gran voce i ricercatori ed i luminari, come Margherita Hack. Ma che la scienza fosse schiava del suo stesso sistema era, sino ad oggi, argomento oscuro al grande pubblico. Eppure la proverbiale indipendenza degli scienziati è sempre apparsa la principale caratteristica, l’elemento illuminante, delle scoperte e dell’innovazione.

Un recentissimo articolo di George Monbiot pubblicato sul «The Guardian» ha, però, riacceso le polemiche su un antico dilemma: di chi sono le idee? Come tutti coloro che appartengono al mondo della scienza ben sanno, da sempre il modo canonico per informare l’universo accademico di un’avvenuta scoperta, di una proposta teoria o di una ricerca realizzata è la pubblicazione su riviste internazionali più o meno specialistiche. Sino agli anni 60 questo avveniva con una sorta di libertà di stampa ed all’incirca tutti coloro che avessero qualche buona idea da proporre o una ricerca da divulgare, potevano farlo scrivendo nella propria lingua madre ad una delle tante riviste del settore che, a meno di grossolani errori, pubblicava il tutto senza fare una piega.

Tutti coloro che avevano qualcosa da commentare, suggerire o addirittura volessero contraddire le ricerche pubblicate, potevano farlo inviando lettere agli editori delle riviste o direttamente agli autori delle ricerche. In questo modo, dai tempi di Newton, la scienza è sempre andata avanti con un equo scambio di opinioni tra ricercatori. Negli ultimi cinquant’anni si è, invece, assistito ad un restringimento della libertà di ricerca, dovuto in primis al maggior numero di articoli scientifici sottoposti alle riviste e secondariamente all’interesse di quest’ultime nel monopolizzare le basi del sapere.

Per quello che riguarda il primo aspetto, e cioè la quantità, appare evidente sfogliando un qualunque giornale scientifico internazionale che l’invasione di innumerevoli gruppi di ricerca concorrenti, ha prodotto una riduzione della qualità degli scritti realmente innovativi. Come suggerito da Monbiot pochi editori come Springer, Wiley ed Elsevier sono in possesso delle principali riviste e ricevono articoli gratuitamente, imponendo spesso agli autori di pagare tariffe esorbitanti (intorno ai 1000 Euro ad articolo) per l’accesso libero oppure ai lettori di sborsare fino a 50 Euro per leggere un singolo scritto. Tutto questo ingenera una sorta di corsa all’oro della scienza, poiché da qualche decennio le riviste si avvalgono del criticatissimo sistema della revisione paritaria (o peer-review), grazie al quale una serie di scienziati anonimi, ingaggiati gratuitamente dalle riviste, sono invitati ad esprimere pareri sugli articoli che di volta in volta vengono sottoposti. Ovviamente, lungi dall’essere garante di libertà della scienza, questo sistema ha condotto a quello che può essere definito stress da pubblicazione.

Se ai tempi di Godel ed Einstein circolava il famoso detto «Publish or perish», evidenziando la necessità per un giovane ricercatore di produrre scritti importanti nel proprio campo per emergere, nessuno all’epoca poteva immaginare le immense difficoltà che si incontrano oggigiorno, soprattutto se non si è finanziati da grossi sponsor o non si ha una lunga carriera di pubblicazioni alle spalle.

Per i giovani ricercatori, questo sistema si trasforma in un inferno. Ovviamente spesso gli articoli vengono rifiutati dalle riviste satolle di submissions, di discutibile qualità ma dai grandi finanziatori, oppure finiscono vittime proprio del peer-review. Per quanto nascosto agli occhi dell’opinione pubblica, la scienza è lontana dall’essere onesta.

Come dimostra il bel libro di Michael Brooks, Free Radicals, la maggior parte delle più grandi scoperte scientifiche derivano da imbrogli, furti di proprietà intellettuale, metodologie eterodosse, vere e proprie truffe. Insomma non proprio quello che ci si aspetterebbe dalla scienza. E questo è ciò che spesso accade col sistema di «revisione paritaria». È scontato, infatti, pensare che se una nuova idea viene sottoposta al giudizio di pari in quel settore di ricerca, e qualcuno di essi stia lavorando, come probabile, proprio allo sviluppo di simili approcci o idee, il revisore farà di tutto per impedire che l’articolo venga pubblicato o tenderà, per lo meno, a sminuirlo.

A tutti, dopo aver atteso oltre un mese per ricevere il parere sul proprio articolo da parte dell’Editorial board di una rivista, sarà capitato di ricevere una risposta del tipo «siamo spiacenti di informarla che l’articolo è stato giudicato di scarso interesse per la rivista da parte dei reviewers» o «i reviewers scoraggiano la pubblicazione del suo paper in quanto…» etc., etc. Simili commenti, seppur accettabili, possono seriamente compromettere la pubblicazione di importanti sviluppi della scienza.

È il caso, come riportato nel libro di Brooks, di Lynn Margulis che si è vista rifiutare da 15 differenti riviste la pubblicazione di un articolo innovativo sull’endosimbiosi, che ha cambiato la storia della biologia. Non è, invece, un caso che il Dialogo sopra i due massimi sistemi del Mondo di Galileo sia stato pubblicato senza alcuna revisione, e sia infatti pieno zeppo di errori, nonostante le eccezionali idee suggerite. O che Albert Einstein abbia pubblicato sugli Annali di Fisica in lingua tedesca, ignorando palesemente conoscenze ben note alla sua epoca (vedi l’etere) o riportando scoperte (quali la famosa equazione E=mc2) fatte da altri, senza che alcuno provvedesse a giudicarne prima della stampa il contenuto e cambiando così la storia della fisica. O ancora, che Charles Darwin, insieme all’inguistificatamente dimenticato (tutt’oggi) Alfred Russel Wallace, avesse visto ignorata la sua (in comproprietà col bistrattato scienziato gallese) teoria dell’evoluzione, per poi avere gran successo dopo l’uscita del libro «Sull’origine delle specie», il quale, se non da parte di qualche amico del naturalista inglese, non aveva ricevuto alcuna revisione editoriale.

Sembra proprio, quindi, che per rivoluzionare la scienza sia necessario sfuggire alle regole che la scienza stessa ha fatto proprie. Il sistema del peer-review rischia di scartare ottime idee solo perché rifiutate da anonimi, e magari concorrenti, «pari» o perché disperse nel mare degli inutili rapporti, privi di qualunque elemento innovativo, offerti mensilmente alle riviste da grossi gruppi di ricerca finanziati da altrettanti importanti sponsor. Le case editrici stesse sono, loro malgrado, complici della perdita di lavori rivoluzionari. Tanto per citare un solo esempio, l’articolo del biochimico premio Nobel, Kary Mullis sulla scoperta della PCR utilizzata oggi in tutti i laboratori di biochimica, fu rifiutata da Nature perché ritenuta poco interessante. Invece, un articolo totalmente inventato sulla presenza di vita aliena nello spazio, scritto dallo stesso scienziato qualche anno prima, fu accettato e pubblicato, mettendo in ridicolo la rivista e confermando la fallacia dell’intero sistema.

Alle case editrici scientifiche sembra, però, non importare dell’ingiustificato rifiuto alla pubblicazione di quasi la metà degli studi che poi conferiscono il Nobel ai loro autori, perché in compenso il loro margine di profitto aumenta. In questo modo, però, come suggerisce Monbiot oltre a danneggiare i singoli ricercatori e rifiutare idee geniali e rivoluzionarie, «le biblioteche universitarie stanno tagliando gli abbonamenti per far quadrare i conti, ma le riviste assorbono comunque il 65% del loro budget e costringono a ridurre l’acquisto dei libri. Le riviste incidono anche in maniera significativa sui costi universitari, che vengono riversati sugli studenti».

Se è vero, come riporta Brooks, che Einstein rispose con stizza ai commenti dei suoi revisori dopo l’invio di un articolo, spiegando che non si aspettava delle modifiche al suo scritto, ma solo che lo pubblicassero, nessuno avrebbe potuto immaginare che per far carriera oggi non conta più l’importanza della propria ricerca, il valore scientifico reale, ma quanti articoli si è scritto, e soprattutto su quali riviste sono stati pubblicati.

Per un barone universitario questo non è un gran problema dal momento che le riviste hanno la tendenza ad essere più morbide nel rifiutare lavori di professori affermati, pur se di scarsa qualità. Per menti fresche, e ricche quindi di nuovi approcci, invece, riuscire a vedere il proprio lavoro pubblicato e valorizzato può davvero diventare un tour de forces, dal quale molto spesso si esce demoralizzati e sconfortati.

I pungenti commenti di Monbiot e l’acuta analisi di Brooks, però, ci portano ad intravedere la luce imparando dal passato. «Bisogna salire sulle spalle dei giganti» suggeriva Newton, per arrivare alle vette della scienza. Ed in qualche modo questa appare oggi l’unica possibilità per far conoscere al mondo le proprie idee. Imparando dai grandi del passato che la liberà nella scienza è tutto. Non ci sono regole e, forse, neanche una vera morale. Per avere successo bisogna credere in se stessi e perseverare.

Una buona dose d’umiltà, d’altro canto, farebbe bene alle riviste ed ai loro editori e potrebbe arrivare evitando di sottoporre loro articoli troppo innovativi che certamente rifiuterebbero. Se è il conformismo che vogliono, peggio per loro. Continueranno così a perdere idee da Nobel. E se al sistema piace mantenere l’attuale modello di carriera, fondato sulla quantità e non sulla qualità (sul ridicolo concetto autoreferenziale e tautologico di Impact factor), alle giovani menti brillanti non resta che una strada: pubblicare altrove, anche se in recondite pagine di poco note riviste, e battersi per promuovere la propria idea. È molto meglio un’eccezionale scoperta pubblicata su una rivista sconosciuta (o tanto meglio in un libro), che una carriera fondata su mediocri articoli pubblicati in rinomati periodici.

Verrà il tempo per i Wallace, i Tesla, i Margulis e tutti gli altri di riaffacciarsi nella storia ed essere ricordarti per il valore delle loro scoperte e non per la rivista sulla quale le hanno pubblicate.

Riferimenti bibliografici